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il pugno di bush sull'ambiente
- Subject: il pugno di bush sull'ambiente
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 02 Jun 2001 20:26:17 +0200
da repubblica di mercoledi 23 maggio 2001 Il pugno di Bush sull'ambiente di GIORGIO BOCCA ---------------------------------------------------------------------------- ---- Ultimo rifiuto del presidente Bush: no al controllo delle armi biologiche. Un rifiuto conclusivo a tutto ciò che potrebbe limitare l'inquinamento dell'ambiente e l'autodistruzione nucleare. Un rifiuto che può decidere della sopravvivenza, nel dissenso moderato, sia in America che in Europa, dei ricchi del pianeta. Viene spontanea questa domanda all'ambientalismo del mondo avanzato: ma come, sono anni che ci bombardate con il vostro allarmismo - buco dell'ozono, effetto serra, scioglimento dei ghiacciai eccetera - e adesso che il paese guida dell' Occidente rifiuta ogni freno al disastro prossimo venturo, tutti più o meno rassegnati e allineati? Le spiegazioni minimaliste sono francamente incredibili. I no di Bush come un favore ai suoi amici petrolieri, come risposta al blackout elettrico in California, come difesa dal terrorismo degli "Stati gangster" (parole sue). Anche questo, sì, ma la ragione della grande svolta deve essere più profonda, più drammatica. Avanziamo una ipotesi: la rottura crescente, forse definitiva fra i ricchi e i poveri della terra. I nudi e crudi numeri la denunciano. Le due tendenze costanti dello stato attuale del pianeta, infatti, sono queste: ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri. Aumenta progressivamente nei paesi ricchi il numero dei miliardari quasi il tre per cento in più negli ultimi due anni e nei paesi poveri quello dei morti di fame, milioni ogni anno. Se questo è il risultato della rivoluzione tecnologica che si fa vanto di aver mutato la faccia del mondo più di quella industriale, è poi così assurdo pensare che il paese più ricco del pianeta, all'avanguardia della nuova tecnologia, abbia preso atto che il suo modello di sviluppo aggrava, anziché risolvere, questa spaccatura? E che perciò, non potendo rinunciare al proprio modello, si adatti alla vecchia regola imperialistica dei forti che dominano i deboli? Nelle due guerre mondiali, gli Stati Uniti rinunciarono al loro isolazionismo e assunsero la funzione di paese della libertà del progresso aperto al mondo intero, sostituto del colonialismo avido e razzista. Mezzo secolo dopo, con Bush confessano il fallimento di quella utopia e pragmaticamente ammettono che la rottura fra i ricchi e i poveri della terra è un fatto compiuto e irreparabile. Non solo gli Stati Uniti, intendiamoci: l'avvenuta separazione, la irreparabile ineguaglianza fa parte della rivoluzione tecnologica che è dei paesi avanzati e della loro cultura. Al termine di una prolissa lode dei tempi informatici che rendevano più comoda e più bella la vita dei ricchi, venne chiesto a Bill Gates chi avrebbe pensato ai poveri e lui rispose: la medicina. Tenerli in vita e basta. La frattura è avvenuta, i poveri per noi non sono più «i figli di Dio», nostri fratelli fatti come noi a sua immagine e somiglianza. Non sono più l'armata di riserva del lavoro, perché il lavoro per produrre è sempre meno necessario; sono al massimo dei servitori, che fanno i lavori servili che noi non vogliamo più fare. Non sono neppure l'armata rivoluzionaria che preme alle nostre porte. Sono semplicemente inutili e irrecuperabili, nel migliore dei casi consumatori a prezzo altissimo dei nostri surplus. Lo ha dichiarato chiaro e tondo uno dei dirigenti della Bmw: «Possiamo già costruire più automobili con sempre meno lavoro, sopravviveremo solo vendendole in ogni angolo del mondo». La dottrina Bush secondo cui i ricchi per salvarsi devono essere sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri va verso l'autodistruzione dell'ambiente sia per opera dei ricchi che dei poveri. I primi prevedono di rapinare l'ambiente per sostenere nei soli Stati Uniti un aumento dei consumi energetici del trenta per cento nei prossimi dieci anni, un aumento terrificante dato il livello già raggiunto, che è di un quinto dei consumi mondiali. E questo per impedire che il tenore di vita del paese egemone diminuisca del due e mezzo per cento, cioè un risparmio ampiamente tollerabile. Quanto ai secondi, più sono poveri e più sono pronti ad appropriarsi delle anche minime risorse dell'ambiente, a cominciare dalle foreste. Ogni anno, nei paesi poveri, diciassette milioni di chilometri quadrati di foreste subtropicali scompaiono per dare spazio alle coltivazioni. La scelta del texano Bush, che rivendica per il suo paese il diritto a depredare il mondo, va di pari passo con quella di dominare il mondo riaprendo la corsa agli armamenti. Decisioni che angosciano non per un risorgente antiamericanismo, ma perché è la storia a testimoniare del loro fallimento. Non è mai esistito un impero che non abbia cercato come quello americano odierno la sicurezza totale, il rischio zero, con le guerre continue per allontanare sempre di più i confini. Nella consapevolezza dei pochi imperatori saggi che confini sempre più grandi significavano rischi sempre maggiori. Angoscia della decadenza, che raggiunge il massimo quanto più l'impero è allo zenit. Sconfitta la Germania nazista, crollata l'Unione Sovietica, ancora debole la Cina, di che mai dovrebbero militarmente preoccuparsi gli Stati Uniti? Di un nemico virtuale, quel terrorismo degli «Stati gangster» sorvegliati a vista dal potere imperiale. Un dato di fatto su cui un giudizio morale sarebbe ipocrita e inutile, ma che va fatto a rispetto del vero.
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