il pugno di bush sull'ambiente



da repubblica di mercoledi 23 maggio 2001

Il pugno di Bush sull'ambiente 


di GIORGIO BOCCA 

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Ultimo rifiuto del presidente Bush: no al controllo delle armi biologiche.
Un rifiuto conclusivo a tutto ciò che potrebbe limitare l'inquinamento
dell'ambiente e l'autodistruzione nucleare. Un rifiuto che può decidere
della sopravvivenza, nel dissenso moderato, sia in America che in Europa,
dei ricchi del pianeta. Viene spontanea questa domanda all'ambientalismo
del mondo avanzato: ma come, sono anni che ci bombardate con il vostro
allarmismo - buco dell'ozono, effetto serra, scioglimento dei ghiacciai
eccetera - e adesso che il paese guida dell' Occidente rifiuta ogni freno
al disastro prossimo venturo, tutti più o meno rassegnati e allineati? Le
spiegazioni minimaliste sono francamente incredibili. I no di Bush come un
favore ai suoi amici petrolieri, come risposta al blackout elettrico in
California, come difesa dal terrorismo degli "Stati gangster" (parole sue).
Anche questo, sì, ma la ragione della grande svolta deve essere più
profonda, più drammatica.
Avanziamo una ipotesi: la rottura crescente, forse definitiva fra i ricchi
e i poveri della terra. I nudi e crudi numeri la denunciano. Le due
tendenze costanti dello stato attuale del pianeta, infatti, sono queste:
ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri. 
Aumenta progressivamente nei paesi ricchi il numero dei miliardari quasi il
tre per cento in più negli ultimi due anni e nei paesi poveri quello dei
morti di fame, milioni ogni anno. Se questo è il risultato della
rivoluzione tecnologica che si fa vanto di aver mutato la faccia del mondo
più di quella industriale, è poi così assurdo pensare che il paese più
ricco del pianeta, all'avanguardia della nuova tecnologia, abbia preso atto
che il suo modello di sviluppo aggrava, anziché risolvere, questa
spaccatura? E che perciò, non potendo rinunciare al proprio modello, si
adatti alla vecchia regola imperialistica dei forti che dominano i deboli? 
Nelle due guerre mondiali, gli Stati Uniti rinunciarono al loro
isolazionismo e assunsero la funzione di paese della libertà del progresso
aperto al mondo intero, sostituto del colonialismo avido e razzista. Mezzo
secolo dopo, con Bush confessano il fallimento di quella utopia e
pragmaticamente ammettono che la rottura fra i ricchi e i poveri della
terra è un fatto compiuto e irreparabile. Non solo gli Stati Uniti,
intendiamoci: l'avvenuta separazione, la irreparabile ineguaglianza fa
parte della rivoluzione tecnologica che è dei paesi avanzati e della loro
cultura.
Al termine di una prolissa lode dei tempi informatici che rendevano più
comoda e più bella la vita dei ricchi, venne chiesto a Bill Gates chi
avrebbe pensato ai poveri e lui rispose: la medicina. Tenerli in vita e
basta. La frattura è avvenuta, i poveri per noi non sono più «i figli di
Dio», nostri fratelli fatti come noi a sua immagine e somiglianza. Non sono
più l'armata di riserva del lavoro, perché il lavoro per produrre è sempre
meno necessario; sono al massimo dei servitori, che fanno i lavori servili
che noi non vogliamo più fare. Non sono neppure l'armata rivoluzionaria che
preme alle nostre porte. Sono semplicemente inutili e irrecuperabili, nel
migliore dei casi consumatori a prezzo altissimo dei nostri surplus.
Lo ha dichiarato chiaro e tondo uno dei dirigenti della Bmw: «Possiamo già
costruire più automobili con sempre meno lavoro, sopravviveremo solo
vendendole in ogni angolo del mondo». La dottrina Bush secondo cui i ricchi
per salvarsi devono essere sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri
va verso l'autodistruzione dell'ambiente sia per opera dei ricchi che dei
poveri. I primi prevedono di rapinare l'ambiente per sostenere nei soli
Stati Uniti un aumento dei consumi energetici del trenta per cento nei
prossimi dieci anni, un aumento terrificante dato il livello già raggiunto,
che è di un quinto dei consumi mondiali. E questo per impedire che il
tenore di vita del paese egemone diminuisca del due e mezzo per cento, cioè
un risparmio ampiamente tollerabile. Quanto ai secondi, più sono poveri e
più sono pronti ad appropriarsi delle anche minime risorse dell'ambiente, a
cominciare dalle foreste.
Ogni anno, nei paesi poveri, diciassette milioni di chilometri quadrati di
foreste subtropicali scompaiono per dare spazio alle coltivazioni. La
scelta del texano Bush, che rivendica per il suo paese il diritto a
depredare il mondo, va di pari passo con quella di dominare il mondo
riaprendo la corsa agli armamenti. Decisioni che angosciano non per un
risorgente antiamericanismo, ma perché è la storia a testimoniare del loro
fallimento. Non è mai esistito un impero che non abbia cercato come quello
americano odierno la sicurezza totale, il rischio zero, con le guerre
continue per allontanare sempre di più i confini. Nella consapevolezza dei
pochi imperatori saggi che confini sempre più grandi significavano rischi
sempre maggiori.
Angoscia della decadenza, che raggiunge il massimo quanto più l'impero è
allo zenit. Sconfitta la Germania nazista, crollata l'Unione Sovietica,
ancora debole la Cina, di che mai dovrebbero militarmente preoccuparsi gli
Stati Uniti?
Di un nemico virtuale, quel terrorismo degli «Stati gangster» sorvegliati a
vista dal potere imperiale. Un dato di fatto su cui un giudizio morale
sarebbe ipocrita e inutile, ma che va fatto a rispetto del vero.