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alimenti pazzi
- Subject: alimenti pazzi
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 01 Jun 2001 21:02:55 +0200
dal salvagente di mercoledi 23 maggio 2001 NON SERVE SEMINARE IL PANICO LA TAVOLA IMPAZZITA Fuoco incrociato tedesco contro i prodotti italiani o, semplicemente, eccessiva suscettibilità della nostra stampa sul tema, mai attuale come in questi mesi, della sicurezza degli alimenti? Le interpretazioni delle uscite di due giornali teutonici che hanno messo sotto accusa prima gli spaghetti, poi le fragole tricolori, sono state tante e votate più spesso all'emotività che a una più seria valutazione scientifica. Tutte, indifferentemente, hanno però riportato alla ribalta delle cronache il tema della manipolazione dei cibi, intesa - vale la pena spiegarlo per evitare rischi di confusione - come la lunga e ininterrotta serie di forzature umane sulla natura per aumentare la produttività in agricoltura o per assicurare maggiori guadagni a chi trasforma e commercializza i prodotti agricoli. Allo stesso tempo, però, gli allarmi su giornali e tv italiani, hanno dimostrato chiaramente come in molti casi, pur di vendere copie o di aumentare gli ascolti, i media non esitino a sollecitare corde sensibili nel loro pubblico con titoli a effetto anche per lanciare finte novità. Il Salvagente, per l'esperienza che da dieci anni lo impegna in severi e costosi test di qualità e per aver denunciato gli scandali alimentari in tempi in cui non facevano notizia sulla grande stampa, non poteva non occuparsi di questi episodi, facendo il punto sulla loro effettiva portata. OGM O RADIOATTIVI? Il primo caso che arriva sulle tavole degli italiani è lanciato da un lungo servizio della Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz). Il quotidiano, infatti, nell'elencare una lunga serie di prodotti vegetali trattati con l'irraggiamento include anche il grano duro con il quale viene prodotta la nostra pasta. Anzi, al grano e al prodotto principe della nostra alimentazione, la Faz dedica addirittura l'articolo di prima pagina, titolando "Grano proveniente dal reattore nucleare". La notizia finisce nelle redazioni di giornali e telegiornali italiani che immediatamente la rilanciano parlando prima di grano transgenico e poi di cereale radioattivo. E inizia il coro di dichiarazioni e smentite da parte di industriali, associazioni di categoria, e di politici. Tra questi ultimi, il più duro è il ministro delle Politiche agricole Alfonso Pecoraro Scanio che tenta di riportare la calma ricordando come proprio i produttori della pasta avessero chiesto al suo dicastero di impedire perfino la ricerca sperimentale sul grano transgenico. Ma la calma non torna e il tam tam innescato dalla notizia finisce per turbare i consumatori che vedono finire sul banco degli imputati uno dei pochi alimenti ancora immune dagli allarmi e dagli scandali degli ultimi anni. UNA VECCHIA NOTIZIA Si tratta veramente di una novità, come sembra emergere dalle cronache iniziali della scorsa settimana? E si può veramente parlare di radioattività o di Ogm? "È davvero il caso di fare ordine - ci dice Gianni Tamino, membro della commissione nazionale per la Biosicurezza e le biotecnologie - in quello che è un pericoloso corto circuito mediatico. E che rischia di spaventare inutilmente i consumatori, facendo passare l'idea che dato che tutto è pericoloso, tanto vale consumare di tutto, anche i cibi transgenici". Allora partiamo proprio dai transgenici. Possibile che la nostra pasta sia frutto dell'ingegneria genetica? Assolutamente no - dichiara senza esitazioni Tamino - e probabilmente l'equivoco nasce da un problema di linguaggio e di traduzioni. Intendiamoci, l'irraggiamento dei vegetali è una tecnica utilizzata da decenni per velocizzare i cambiamenti genetici degli organismi. In pratica si trattano i semi con l'impiego di neutroni, raggi x, raggi gamma, cobalto per accelerare un processo che naturalmente impiegherebbe molto più tempo: la modificazione del Dna e lo sviluppo di nuove varietà. A questo punto si scelgono quelle che sviluppano caratteri più convenienti per la coltivazione, magari perché si moltiplicano più velocemente o si accrescono più facilmente. Insomma, Tamino, si interviene sul Dna. E quali sono le differenze coi transgenici? Nei transgenici si immettono sequenze di Dna estranee alla specie, magari prendendo da un animale un gene e trasferendolo in una pianta. Ed è cosa ben diversa: in questo caso si fa un innesto che in natura non avverrebbe mai, neppure in migliaia di anni. E gli effetti sono difficilmente preventivabili. Nessun rischio, dunque, è associabile all'irraggiamento? Anche questa tecnica può creare problemi e gli ambientalisti l'hanno criticata per anni. Innanzitutto perché si tratta di una forzatura dei processi naturali, i cui effetti vanno sempre studiati attentamente. Ma non esiste alcun rischio che la radioattività permanga nell'alimento. Allora anche i titoli sugli spaghetti radioattivi sono da smentire? Ma certo. Ripeto, l'irraggiamento è una tecnica seguita da anni, che si fa sui semi. Nella pianta non lascia alcuna traccia di radioattività e abbiamo avuto tutto il tempo per averne la certezza. LE FRAGOLE AL DDT Con una concordanza di tempi per lo meno curiosa - ma che molti dicono sospetta - il settimanale tedesco Stern lancia l'altro scandalo: il 50 per cento delle fragole che vengono dall'Italia sarebbero trattate con pesticidi. E il periodico, dopo un test commissionato a un laboratorio di Amburgo, cita tre sostanze ritenute pericolose: l'acaricida "dicofol" e i funghicidi "procimidone" e "clortalonile", alcuni dei quali sarebbero moderne variazioni del vecchio e dannosissimo Ddt. Anche se i numeri del campione esaminato (sono tre le casse di fragole provenienti dall'Italia in cui sono stati rintracciati residui) sono davvero esigui e tutti i valori rientrano nei limiti di legge, le reazioni a questo allarme sono ben diverse da quelle del presunto scandalo spaghetti. Legambiente e Wwf, infatti, non si lanciano a difendere il prodotto nazionale come avevano fatto, insieme agli altri ambientalisti, per la pasta. Anche perché il fenomeno dell'eccessivo uso di pesticidi nella nostra agricoltura non è di certo una novità scoperta da "Stern". Sono anni, per esempio che Legambiente denuncia i risultati allarmanti delle analisi su frutta e verdura, troppo ricche di fitofarmaci. Le ultime, per esempio, dimostravano come quattro prodotti ortofrutticoli su dieci contengano residui di pesticidi. Ma soprattutto come in una buona metà di questi alimenti si trovino tracce di più di un fitofarmaco. Una presenza preoccupante, anche se compatibile con i limiti di legge, tutt'altro che garantista nei confronti del consumatore, visto che non prevede il rischio legato all'azione congiunta di più di un fitofarmaco. Di cosa stupirsi, dunque, se anche i tedeschi rilanciano quello che noi da sempre denunciamo e che è difficile contestare, dato che l'Italia, assieme all'Olanda, è il Paese con il più alto consumo di fitofarmaci per ettaro coltivato? LA QUESTIONE DEGLI ALIMENTI IRRADIATI Il trattamento dei semi con radiazioni era molto utilizzata in passato per ottenere nuove varietà vegetali. Anche se l'Italia non era il Paese più attivo in questo senso, visto che può contare su meno di 20 piante mutate in questo modo, contro le 40 tedesche, le 37 Russe, le 70 giapponesi e le 250 ottenute in Cina. Oggi questo metodo è quasi del tutto abbandonato, ma non per questo è finita la moda di irraggiare gli alimenti. Dalla Cina a Israele, dagli Usa alla Nuova Zelanda, sono oggi 170 gli impianti per l'irraggiamento che portano gli alimenti, in contenitori adeguati, a contatto con una fonte di radiazioni ionizzanti. Nella maggior parte dei casi si tratta di raggi gamma prodotti da cobalto radioattivo (cobalto 60). In pratica, l'alimento viene "scottato" con formazione di ioni liberi (da qui la denominazione di radiazione ionizzante) per ottenere una sterilizzazione parziale. Per alcuni cibi equivale a una pastorizzazione, cioè all'uccisione dei batteri patogeni per l'uomo; in altri casi si hanno effetti sulla "vitalità" dell'alimento, come nel caso delle patata, dell'aglio o della cipolla, della quali si inibisce la germogliazione. Come ci dice in questa pagina Gianni Tamino, non c'è alcun rischio che i cibi diventino radioattivi, ma lo stesso biologo non nasconde i problemi che questa tecnica comporta. Vediamo quali sono questi pericoli, messi in evidenza da decine di anni da tutti gli ambientalisti europei e già trattati dal nostro giornale in diverse occasioni. L'effetto di questi raggi sulla materia vivente è solo parzialmente noto. Si sa che vengono prodotte sostanze pericolose, come ad esempio i radicali liberi dai grassi, che possono avere effetti dannosi sull'organismo. Gli esperti "pro" irraggiamento hanno sempre detto che si tratta di piccole quantità, ma i radicali liberi possono creare danni al nucleo delle cellule anche in minime dosi. Se la normale alimentazione ne è ricca, risulteranno maggiori le probabilità di un danno (leggi: malattie degenerative, tumori). Le radiazioni ionizzanti provocano la distruzione di percentuali importanti di vitamine, in particolare la E e la C. A livello di produzione, esiste il problema dello smaltimento delle scorie radioattive e si tratta di un pericolo che assume maggiore importanza quando si pensa agli impianti situati in Paesi che hanno minori controlli ambientali. Per molti alimenti non si può attuare una sterilizzazione spinta, perché provocherebbe diversi effetti collaterali. È una tecnologia che può essere utilizzata a scopo fraudolento, perché permette di "bonificare" cibi non commestibili. L'irraggiamento è una tecnologia costosa e non indispensabile. Gli stessi risultati di conservabilità si possono ottenere con metodi tradizionali e con maggiore attenzione alla cura dell'igiene nella produzione degli alimenti. Il decreto legislativo 94 del 4 aprile 2001 ribadisce come gli alimenti irradiati possano essere solo quelli già trattati in passato, senza allargare l'elenco a tutti gli altri cibi (come era nelle intenzioni della Commissione europea per armonizzare il mercato). In pratica nell'elenco figurano solo: aglio, cippola, patate, erbe aromatiche essiccate, spezie e condimenti vegetali. In tutti i casi, però, gli alimenti debbono riportare la dicitura "irradiato" anche se si tratta di un prodotto venduto sfuso. Una dicitura che deve comparire in etichetta o sul banco, oppure nell'elenco degli ingredienti se si tratta di un ingrediente che non supera il 25 per cento del prodotto finito. PESCE E VERDURA, GIUDIZIO DAVVERO SENZA APPELLO? La settimana degli allarmi alimentari, e del fuoco incrociato contro le tavole italiane, era iniziata già lunedì 7 maggio, con due pagine di forte impatto del Corriere della Sera, tutte dedicate a ospitare i risultati di analisi commissionate dal quotidiano su pesce, verdure, carni, formaggi e altri cibi normalmente presenti nelle nostre diete. Con singolare coincidenza di tempi rispetto ai colleghi tedeschi, anche a via Solferino decidevano di aprire il giornale con un titolo forte: "Esame della spesa, bocciati il pesce e la verdura", uno di quei titoli in grado di conquistare immediatamente l'attenzione dei consumatori, molto sensibili a questi argomenti in tempi di mucca pazza. IL TEST La scelta di ospitare analisi di laboratorio commissionate e pagate in proprio -una novità per un quotidiano che ha pochi precedenti in Italia - è nata proprio subito dopo il primo allarme italiano di mucca pazza, in pratica nei giorni in cui tutti i giornali dedicavano buona parte delle loro pagine alla sicurezza alimentare. "Da allora", ci dice Adriana Bazzi, la giornalista che sul "Corriere" si occupa di salute e che ha curato l'inchiesta, "abbiamo impiegato mesi per trovare il laboratorio giusto per le analisi. Avevamo pensato alle università ma ci hanno risposto che fanno solo ricerca, poi alle Asl e agli istituti zooprofilattici ma anche in questo caso non è stato possibile o per intrecci di competenze o per mancanze di risposte. Quindi abbiamo finalmente trovato un laboratorio privato affidabile e accreditato dal ministero della Sanità". A incuriosire chi come noi fa test di qualità da molti anni è stata anche la scelta dei campioni: una sorta di busta della spesa ricca di alimenti differenti scelti tra mercati rionali e catene di distribuzione e acquistati in tre città (Napoli, Roma e Milano). Una borsa molto ampia, almeno nelle merceologie analizzate (si va dall'olio alle acque minerali, dal pesce al pollo, dalla carne trita alle verdure, fino alla frutta e ai formaggi e ai dolci) ma con pochi prodotti per ogni alimento (in genere uno per categoria). "Noi non volevamo fare una comparazione - ci spiega Adriana Bazzi - ma comperare un po' di tutto e controllare cosa c'era dentro. E non era neppure scontato che uscisse fuori qualcosa di preoccupante visto il numero di campioni". E infatti le analisi non hanno mostrato nessun Ogm nei tre alimenti mandati in laboratorio, così come non hanno rilevato alcun problema nelle acque minerali. Gli allarmi del quotidiano. Nonostante l'esiguità dei prodotti analizzati, però, il lavoro del "Corriere" ha portato alla luce più di un problema e ha spinto il giornale a "bocciare" pesce e verdura: il primo per la scarsa freschezza ma soprattutto per un contenuto eccessivo di piombo, la seconda per l'elevata frequenza di residui di pesticidi. A ben guardare, poi, nelle tabelle del quotidiano escono male anche molti prodotti freschi come i formaggi acquistati al mercato (ricchi di batteri e in qualche caso anche di microrganismi pericolosi), o i prodotti del banco gastronomia (insalate russe troppo ricche di batteri tanto alla Coop quanto alla Sma e alla Gs). Neppure i salami si salvano dall'ecatombe, visto che il "Corriere" li boccia per il contenuto di nitrosammine, i composti azotati ad effetto provatamente cancerogeno. Allarmi giustificati? In queste pagine abbiamo deciso di ripercorrerli uno per uno, per chiarire ai nostri lettori il loro significato e per tentare di fare chiarezza in questo campo. NITRATI TIMORI FONDATI Uno dei molti aspetti sollevati dall'inchiesta del "Corriere della Sera" ha riguardato l'eccessiva presenza di nitrosammine nei salumi acquistati nella grande distribuzione. L'elenco e i numeri, effettivamente, sono di quelli che fanno riflettere: su 12 confezioni analizzate neppure una è risultata immune da queste sostanze. A finire sotto il mirino del quotidiano, infatti, sono stati gli speck a marchio Sma, Gs, Rigamonti e Gasser, quelli al taglio venduti al banco della Sma e i salami Sma, Coop, Lanzi, Salumeria italiana e il salame di Potenza venduto alla Gs. E non si tratta di certo di un falso allarme o di una situazione che può essere definita normale, dato che le nitrosammine hanno effetti tossici per l'uomo descritti già nel 1937 e negli ultimi anni si sono rivelate provatamente cancerogene. È evidente, dunque, come queste sostanze, anche in mancanza di una legislazione che ne fissi il contenuto massimo siano da evitare in tutti i prodotti alimentari. DA DOVE VENGONO. Punto di partenza di questi pericolosi composti è l'uso del nitrato, particolarmente frequente negli insaccati, ma rintracciabile anche nei vegetali e perfino nelle bevande. Nelle carni, per esempio, questa sostanza viene immessa per evitare la contaminazione botulinica (che produce una tossina letale per l'uomo) ma soprattutto per mantenere il colore roseo delle carni, che altrimenti diverrebbero naturalmente scure e sarebbero scarsamente gradite ai consumatori. I nitrati, sono composti dell'azoto non molto tossici per l'organismo adulto, per lo meno a dosi non elevate; il loro consumo nei neonati sotto i sei mesi, invece, aumenta il rischio della metemoglobinemia, una grave malattia che riduce la capacità dei globuli rossi di trasportare ossigeno e può portare alla morte. Purtroppo, però, i nitrati non rimangono stabili, ma si trasformano abbastanza facilmente in nitriti, sostanze che nel nostro apparato digerente si legano alle ammine e danno luogo, per l'appunto, alle temibili nitrosammine. RIDURRE LA CHIMICA. Cosa fare per evitare di ingerire questi composti così pericolosi per la nostra salute? Da molti anni, diversi esperti propongono di ridurre drasticamente l'uso dei nitrati, tanto nella carne che nelle verdure. Nella prima, per esempio, sarebbe abbastanza facile rinunciare ai "benefici estetici" per i quali è utilizzata: abbandonando, per esempio, l'idea che le carni trasformate (insaccati, salumi, ma anche carni in scatola) debbano essere ben rosse per incontrare il gusto del consumatore. Oppure utilizzando sostanze molto più tranquille come l'acido l-ascorbico (la vitamina C di sintesi) che ha effetti simili. Una strada già seguita da alcuni grandi produttori: basti ricordare tutti i prosciutti d'origine protetta che non utilizzano nitrati o alcune aziende (come la stessa Coop, finita nel mirino del "Corriere" per i salumi) che da anni ha deciso di evitarli nella carne in scatola. Per ridurre la loro presenza nelle verdure o nelle acque potabili, invece, si dovrebbe limitare l'uso massiccio di concimazioni azotate che lasciano residui sia sulle foglie delle piante che nei terreni, dai quali facilmente penetrano nelle acque di falda. Un'operazione possibile, come dimostrano le differenze a volte anche notevoli tra il contenuto di nitrati negli ortaggi convenzionali e in quelli biologici che riportiamo nella tabella quì sotto. AZIENDE BIOTECH DIETRO LE QUINTE? "Attenzione agli scandali strumentali e alla disinformazione organizzata". In molti, in questi giorni, hanno lanciato l'allarme contro quella che potrebbe essere una campagna tutt'altro che disinteressata. Primo fra tutti, dai microfoni dei telegiornali, era stato il ministro delle Politiche agricole Alfonso Pecoraro Scanio che ironizzando sulla coincidenza che "vicino a Francoforte c'è la sede di una delle più grandi società del transgenico (la Novartis, ndr)". Qualcuno, però, è anche andato al di là dei sospetti velati, chiedendosi - come ha fatto la neonata associazione degli agricoltori Progresso rurale - se dietro questa campagna non ci sia qualche multinazionale di Ogm inserzionista pubblicitaria sulla stampa tedesca. Perché questa associazione tra aziende biotech e allarmi alimentari? Probabilmente perché aumentando l'incertezza dei consumatori nei confronti dei cibi di uso comune, si potrebbe oscurare la diffidenza ben radicata in Europa sui transgenici. E magari affermare, come le multinazionali fanno da anni, che si tratta della vera soluzione per tenere sotto controllo la salubrità degli alimenti e ridurre gli effetti dei fitofarmaci. Contro una delle tesi più care alle industrie biotech, però, proprio nei giorni scorsi era arrivato un vero e proprio siluro, e non dal Vecchio e diffidente Continente, ma dalla madre patria, gli Stati Uniti. A lanciarlo il St. Louis Post-Dispatch che riprendendo il sito internet di controinformazione americana sugli Ogm Biotech Infonet , dedicava un lungo articolo sulla Monsanto vittima del suo successo. Nell'articolo, confortato dai dati del dipartimento delle scienze e dell'ambiente ddell'Idaho, si traccia un quadro sconfortante dell'abuso di pesticidi negli Usa, soprattutto del Roundup, il fitofarmaco della Monsanto per il quale è stata studiata e commercializzata la soia geneticamente modificata. Questo vegetale, nato per resistere al Roundup e presente lo scorso anno in buona parte del 54 per cento dei campi americani transgenici (che quest'anno è previsto salgano al 63 per cento), avrebbe dovuto ridurre l'utilizzo dei pesticidi nei campi. Almeno così lo ha sempre presentato la Monsanto. Secondo i dati raccolti dal Centro di ricerca dell'Idaho, invece, gli agricoltori avrebbero utilizzato l'11,4 per cento di erbicidi in più nei campi rispetto al passato, attratti dalla possibilità di non danneggiare le piante. Estrapolando i dati al 2001, secondo gli scienziati, gli agricoltori americani spargeranno nei campi 227 grammi di pesticida in più per ogni acro coltivato. E questo, oltre ai problemi di inquinamento ambientale che l'uso di questi veleni comporta, secondo i ricercatori faciliterebbe la selezione di erbe infestanti resistenti al Roundup, creando l'esigenza di utilizzarne sempre maggiori quantità. LA STERILIZZAZIONE TOTALE NON GARANTISCE LA QUALITÀ È sbagliato, dice il docente universitario Giorgio Ottogalli, denunciare in modo indiscriminato la presenza, talvolta positiva, di batteri negli alimenti. Nella lunga sequela di accuse agli alimenti nostrani, dopo la chimica, le scorie radioattive, la manipolazione genetica, non poteva non agitarsi anche l'inquinamento microbico dei cibi. A sollevarlo, ancora una volta, le analisi pubblicate dal Corriere della Sera lunedì 7 maggio. Nelle due pagine del quotidiano, infatti, comparivano le anali microbiologiche su quattro formaggi (ricotta, primo sale, caciotta e formaggio fresco) acquistati in tre mercati rionali di Milano, Roma e Napoli e su alcuni prodotti non confezionati in vendita al banco (principalmente insalate russe) nei supermercati Gs, Sma e Coop delle tre città. Due tabelle ricche di punti esclamativi per segnalare batteri oltre i limiti. Se per i 6 formaggi analizzati le situazioni definite compromettenti erano due (le ricotte acquistate a Napoli e Roma con troppi batteri totali e la presenza dell'Escherichia coli, un microrganismo patogeno), per le insalate russe & co. i batteri totali superavano il limite in ben 10 casi su 13. Segno di scarsa attenzione per l'igiene, commentavano le pagine del Corriere e di insicurezza anche dei supermercati, il luogo di acquisto in cui il consumatore è tradizionalmente abituato a riporre più fiducia. Non tutti, però, sono d'accordo con questo allarme. Ovviamente non lo sono le tre catene di supermercati che hanno subito replicato al quotidiano di via Solferino, puntando sul fatto che nei loro casi le analisi hanno trovato solo batteri "aspecifici", quindi innocui e non pericolosi per il consumatore. Non è d'accordo neppure il professor Giorgio Ottogalli, docente di microbiologia degli alimenti dell'Università di Milano che, anzi, esprime una preoccupazione: "Attenzione a non far dell'isterismo sulla salubrità degli alimenti. Se da una parte è giusto che i giornali facciano controlli e pubblichino i risultati, una loro interpretazione scandalistica può frastornare il consumatore e addirittura fare l'interesse delle grandi multinazionali e non quello dei prodotti tipici e artigianali che, invece, sono la ricchezza del nostro Paese". Professore, ci può spiegare meglio? Guardate a chi, in questi anni, ha tentato di imporre una cultura della sterilizzazione totale degli alimenti. Sono le grandi industrie, spesso supportate dall'Unione europea e a rimetterci è stata spesso la qualità dei prodotti. Ma i limiti ci sono e superarli non può costituire un rischio per il consumatore? Non sempre. Non è così, per esempio, nella situazione fotografata dal "Corriere". Lì ci sono due dati messi in evidenza: da una parte una carica microbica totale più alta dei limiti, dall'altra alcuni campioni con un organismo come l'Escherichia coli difficilmente patogeno. Partiamo con ordine. Troppi microbi non rappresentano un pericolo e una mancanza di igiene negli alimenti? Sono anni che tento di ripetere un concetto secondo me molto semplice, ma non facile da far digerire né alla stampa né ad alcuni miei colleghi igienisti. Per capire se la carica di microbi è potenzialmente dannosa, bisogna innanzitutto distinguere tra microrganismi utili e dannosi. Quelli utili possono dare luogo a trasformazioni benefiche per l'organismo, come accade negli yogurt, nei salumi, nei formaggi, ma possono anche funzionare da "sentinelle" , difendendo l'alimento da altri microrganismi patogeni. In parole povere occupano lo spazio e impediscono lo sviluppo di quelli pericolosi per l'uomo. Quando si fa un controllo e si esprime solo il numero totale, non si considera questo fattore fondamentale per la salubrità dell'alimento. Un altro aspetto di cui tenere conto è che questa azione utile dei microrganismi può essere svolta anche nel nostro organismo. Ingerendoli con l'alimento e inserendoli nel nostro apparato digerente, infatti, si ha anche il beneficio di arricchire la popolazione batterica che "combatte" contro i patogeni. E nei casi dei formaggi troppo ricchi di Escherichia coli? Qui qualche problema igienico c'è davvero, anche se non siamo in condizioni drammatiche. Può apparire paradossale ma anche colibatteri come l'Escherichia potrebbero non essere patogeni grazie a una ricchezza di microrganismi sentinella che ne bloccano lo sviluppo. Non si corre il rischio di giustificare anche prodotti realizzati senza la dovuta attenzione igienico sanitaria? È chiaro che si deve valutare caso per caso, con la dovuta attenzione alle situazioni che hanno anche un pur minimo pericolo per il consumatore. Ma, lo ripeto, non possiamo e non dobbiamo cedere alla tentazione di sterilizzare gli alimenti. Altrimenti corriamo il rischio di rinunciare ai prodotti artigianali di grande pregio, lasciando il mercato solo ai prodotti tecnologici di gusto appiattito. Senza contare che un'eccessiva igiene può diventare un pericolo per lo stesso consumatore indebolendo le difese dell'organismo. Pensate ai rischi legati a un eccessivo uso di disinfettanti negli ambienti domestici o nei saponi che ha come conseguenza proprio lo sviluppo di organismi pericolosi per l'assenza di antagonisti.
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