alimenti pazzi



dal salvagente di mercoledi 23 maggio 2001

NON SERVE SEMINARE IL PANICO 
 
LA TAVOLA IMPAZZITA 

Fuoco incrociato tedesco contro i prodotti italiani o, semplicemente,
eccessiva suscettibilità della nostra stampa sul tema, mai attuale come in
questi mesi, della sicurezza degli alimenti? Le interpretazioni delle
uscite di due giornali teutonici che hanno messo sotto accusa prima gli
spaghetti, poi le fragole tricolori, sono state tante e votate più spesso
all'emotività che a una più seria valutazione scientifica. 
Tutte, indifferentemente, hanno però riportato alla ribalta delle cronache
il tema della manipolazione dei cibi, intesa - vale la pena spiegarlo per
evitare rischi di confusione - come la lunga e ininterrotta serie di
forzature umane sulla natura per aumentare la produttività in agricoltura o
per assicurare maggiori guadagni a chi trasforma e commercializza i
prodotti agricoli. Allo stesso tempo, però, gli allarmi su giornali e tv
italiani, hanno dimostrato chiaramente come in molti casi, pur di vendere
copie o di aumentare gli ascolti, i media non esitino a sollecitare corde
sensibili nel loro pubblico con titoli a effetto anche per lanciare finte
novità.
Il Salvagente, per l'esperienza che da dieci anni lo impegna in severi e
costosi test di qualità e per aver denunciato gli scandali alimentari in
tempi in cui non facevano notizia sulla grande stampa, non poteva non
occuparsi di questi episodi, facendo il punto sulla loro effettiva portata.

OGM O RADIOATTIVI?

Il primo caso che arriva sulle tavole degli italiani è lanciato da un lungo
servizio della Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz). Il quotidiano,
infatti, nell'elencare una lunga serie di prodotti vegetali trattati con
l'irraggiamento include anche il grano duro con il quale viene prodotta la
nostra pasta. Anzi, al grano e al prodotto principe della nostra
alimentazione, la Faz dedica addirittura l'articolo di prima pagina,
titolando "Grano proveniente dal reattore nucleare". La notizia finisce
nelle redazioni di giornali e telegiornali italiani che immediatamente la
rilanciano parlando prima di grano transgenico e poi di cereale radioattivo.
E inizia il coro di dichiarazioni e smentite da parte di industriali,
associazioni di categoria, e di politici. Tra questi ultimi, il più duro è
il ministro delle Politiche agricole Alfonso Pecoraro Scanio che tenta di
riportare la calma ricordando come proprio i produttori della pasta
avessero chiesto al suo dicastero di impedire perfino la ricerca
sperimentale sul grano transgenico. Ma la calma non torna e il tam tam
innescato dalla notizia finisce per turbare i consumatori che vedono finire
sul banco degli imputati uno dei pochi alimenti ancora immune dagli allarmi
e dagli scandali degli ultimi anni.

UNA VECCHIA NOTIZIA

Si tratta veramente di una novità, come sembra emergere dalle cronache
iniziali della scorsa settimana? E si può veramente parlare di
radioattività o di Ogm?
"È davvero il caso di fare ordine - ci dice Gianni Tamino, membro della
commissione nazionale per la Biosicurezza e le biotecnologie - in quello
che è un pericoloso corto circuito mediatico. E che rischia di spaventare
inutilmente i consumatori, facendo passare l'idea che dato che tutto è
pericoloso, tanto vale consumare di tutto, anche i cibi transgenici".
Allora partiamo proprio dai transgenici. Possibile che la nostra pasta sia
frutto dell'ingegneria genetica?
Assolutamente no - dichiara senza esitazioni Tamino - e probabilmente
l'equivoco nasce da un problema di linguaggio e di traduzioni.
Intendiamoci, l'irraggiamento dei vegetali è una tecnica utilizzata da
decenni per velocizzare i cambiamenti genetici degli organismi. In pratica
si trattano i semi con l'impiego di neutroni, raggi x, raggi gamma, cobalto
per accelerare un processo che naturalmente impiegherebbe molto più tempo:
la modificazione del Dna e lo sviluppo di nuove varietà. A questo punto si
scelgono quelle che sviluppano caratteri più convenienti per la
coltivazione, magari perché si moltiplicano più velocemente o si accrescono
più facilmente.
Insomma, Tamino, si interviene sul Dna. E quali sono le differenze coi
transgenici?
Nei transgenici si immettono sequenze di Dna estranee alla specie, magari
prendendo da un animale un gene e trasferendolo in una pianta. Ed è cosa
ben diversa: in questo caso si fa un innesto che in natura non avverrebbe
mai, neppure in migliaia di anni. E gli effetti sono difficilmente
preventivabili.
Nessun rischio, dunque, è associabile all'irraggiamento?
Anche questa tecnica può creare problemi e gli ambientalisti l'hanno
criticata per anni. Innanzitutto perché si tratta di una forzatura dei
processi naturali, i cui effetti vanno sempre studiati attentamente. Ma non
esiste alcun rischio che la radioattività permanga nell'alimento.
Allora anche i titoli sugli spaghetti radioattivi sono da smentire?
Ma certo. Ripeto, l'irraggiamento è una tecnica seguita da anni, che si fa
sui semi. Nella pianta non lascia alcuna traccia di radioattività e abbiamo
avuto tutto il tempo per averne la certezza.

LE FRAGOLE AL DDT

Con una concordanza di tempi per lo meno curiosa - ma che molti dicono
sospetta - il settimanale tedesco Stern lancia l'altro scandalo: il 50 per
cento delle fragole che vengono dall'Italia sarebbero trattate con
pesticidi. E il periodico, dopo un test commissionato a un laboratorio di
Amburgo, cita tre sostanze ritenute pericolose: l'acaricida "dicofol" e i
funghicidi "procimidone" e "clortalonile", alcuni dei quali sarebbero
moderne variazioni del vecchio e dannosissimo Ddt.
Anche se i numeri del campione esaminato (sono tre le casse di fragole
provenienti dall'Italia in cui sono stati rintracciati residui) sono
davvero esigui e tutti i valori rientrano nei limiti di legge, le reazioni
a questo allarme sono ben diverse da quelle del presunto scandalo spaghetti.
Legambiente e Wwf, infatti, non si lanciano a difendere il prodotto
nazionale come avevano fatto, insieme agli altri ambientalisti, per la
pasta. Anche perché il fenomeno dell'eccessivo uso di pesticidi nella
nostra agricoltura non è di certo una novità scoperta da "Stern". Sono
anni, per esempio che Legambiente denuncia i risultati allarmanti delle
analisi su frutta e verdura, troppo ricche di fitofarmaci. Le ultime, per
esempio, dimostravano come quattro prodotti ortofrutticoli su dieci
contengano residui di pesticidi. Ma soprattutto come in una buona metà di
questi alimenti si trovino tracce di più di un fitofarmaco. Una presenza
preoccupante, anche se compatibile con i limiti di legge, tutt'altro che
garantista nei confronti del consumatore, visto che non prevede il rischio
legato all'azione congiunta di più di un fitofarmaco.
Di cosa stupirsi, dunque, se anche i tedeschi rilanciano quello che noi da
sempre denunciamo e che è difficile contestare, dato che l'Italia, assieme
all'Olanda, è il Paese con il più alto consumo di fitofarmaci per ettaro
coltivato?

LA QUESTIONE DEGLI ALIMENTI IRRADIATI

Il trattamento dei semi con radiazioni era molto utilizzata in passato per
ottenere nuove varietà vegetali. Anche se l'Italia non era il Paese più
attivo in questo senso, visto che può contare su meno di 20 piante mutate
in questo modo, contro le 40 tedesche, le 37 Russe, le 70 giapponesi e le
250 ottenute in Cina. Oggi questo metodo è quasi del tutto abbandonato, ma
non per questo è finita la moda di irraggiare gli alimenti.
Dalla Cina a Israele, dagli Usa alla Nuova Zelanda, sono oggi 170 gli
impianti per l'irraggiamento che portano gli alimenti, in contenitori
adeguati, a contatto con una fonte di radiazioni ionizzanti. Nella maggior
parte dei casi si tratta di raggi gamma prodotti da cobalto radioattivo
(cobalto 60). In pratica, l'alimento viene "scottato" con formazione di
ioni liberi (da qui la denominazione di radiazione ionizzante) per ottenere
una sterilizzazione parziale. Per alcuni cibi equivale a una
pastorizzazione, cioè all'uccisione dei batteri patogeni per l'uomo; in
altri casi si hanno effetti sulla "vitalità" dell'alimento, come nel caso
delle patata, dell'aglio o della cipolla, della quali si inibisce la
germogliazione.
Come ci dice in questa pagina Gianni Tamino, non c'è alcun rischio che i
cibi diventino radioattivi, ma lo stesso biologo non nasconde i problemi
che questa tecnica comporta. Vediamo quali sono questi pericoli, messi in
evidenza da decine di anni da tutti gli ambientalisti europei e già
trattati dal nostro giornale in diverse occasioni.
L'effetto di questi raggi sulla materia vivente è solo parzialmente noto.
Si sa che vengono prodotte sostanze pericolose, come ad esempio i radicali
liberi dai grassi, che possono avere effetti dannosi sull'organismo. Gli
esperti "pro" irraggiamento hanno sempre detto che si tratta di piccole
quantità, ma i radicali liberi possono creare danni al nucleo delle cellule
anche in minime dosi. Se la normale alimentazione ne è ricca, risulteranno
maggiori le probabilità di un danno (leggi: malattie degenerative, tumori).
Le radiazioni ionizzanti provocano la distruzione di percentuali importanti
di vitamine, in particolare la E e la C.
A livello di produzione, esiste il problema dello smaltimento delle scorie
radioattive e si tratta di un pericolo che assume maggiore importanza
quando si pensa agli impianti situati in Paesi che hanno minori controlli
ambientali.
Per molti alimenti non si può attuare una sterilizzazione spinta, perché
provocherebbe diversi effetti collaterali. 
È una tecnologia che può essere utilizzata a scopo fraudolento, perché
permette di "bonificare" cibi non commestibili.
L'irraggiamento è una tecnologia costosa e non indispensabile. Gli stessi
risultati di conservabilità si possono ottenere con metodi tradizionali e
con maggiore attenzione alla cura dell'igiene nella produzione degli alimenti.
Il decreto legislativo 94 del 4 aprile 2001 ribadisce come gli alimenti
irradiati possano essere solo quelli già trattati in passato, senza
allargare l'elenco a tutti gli altri cibi (come era nelle intenzioni della
Commissione europea per armonizzare il mercato). In pratica nell'elenco
figurano solo: aglio, cippola, patate, erbe aromatiche essiccate, spezie e
condimenti vegetali. In tutti i casi, però, gli alimenti debbono riportare
la dicitura "irradiato" anche se si tratta di un prodotto venduto sfuso.
Una dicitura che deve comparire in etichetta o sul banco, oppure
nell'elenco degli ingredienti se si tratta di un ingrediente che non supera
il 25 per cento del prodotto finito.

 
PESCE E VERDURA, GIUDIZIO DAVVERO SENZA APPELLO?

La settimana degli allarmi alimentari, e del fuoco incrociato contro le
tavole italiane, era iniziata già lunedì 7 maggio, con due pagine di forte
impatto del
Corriere della Sera, tutte dedicate a ospitare i risultati di analisi
commissionate dal quotidiano su pesce, verdure, carni, formaggi e altri
cibi normalmente presenti nelle nostre diete. Con singolare coincidenza di
tempi rispetto ai colleghi tedeschi, anche a via Solferino decidevano di
aprire il giornale con un titolo forte:
"Esame della spesa, bocciati il pesce e la verdura", uno di quei titoli in
grado di conquistare immediatamente l'attenzione dei consumatori, molto
sensibili a questi argomenti in tempi di mucca pazza.

IL TEST

La scelta di ospitare analisi di laboratorio commissionate e pagate in
proprio -una novità per un quotidiano che ha pochi precedenti in Italia - è
nata proprio subito dopo il primo allarme italiano di mucca pazza, in
pratica nei giorni in cui tutti i giornali dedicavano buona parte delle
loro pagine alla sicurezza alimentare. "Da allora", ci dice Adriana Bazzi,
la giornalista che sul "Corriere" si occupa di salute e che ha curato
l'inchiesta, "abbiamo impiegato mesi per trovare il laboratorio giusto per
le analisi. Avevamo pensato alle università ma ci hanno risposto che fanno
solo ricerca, poi alle Asl e agli istituti zooprofilattici ma anche in
questo caso non è stato possibile o per intrecci di competenze o per
mancanze di risposte. Quindi abbiamo finalmente trovato un laboratorio
privato affidabile e accreditato dal ministero della Sanità".
A incuriosire chi come noi fa test di qualità da molti anni è stata anche
la scelta dei campioni: una sorta di busta della spesa ricca di alimenti
differenti scelti tra mercati rionali e catene di distribuzione e
acquistati in tre città (Napoli, Roma e Milano).
Una borsa molto ampia, almeno nelle merceologie analizzate (si va dall'olio
alle acque minerali, dal pesce al pollo, dalla carne trita alle verdure,
fino alla frutta e ai formaggi e ai dolci) ma con pochi prodotti per ogni
alimento (in genere uno per categoria).
"Noi non volevamo fare una comparazione - ci spiega Adriana Bazzi - ma
comperare un po' di tutto e controllare cosa c'era dentro. E non era
neppure scontato che uscisse fuori qualcosa di preoccupante visto il numero
di campioni". E infatti le analisi non hanno mostrato nessun Ogm nei tre
alimenti mandati in laboratorio, così come non hanno rilevato alcun
problema nelle acque minerali.
Gli allarmi del quotidiano. Nonostante l'esiguità dei prodotti analizzati,
però, il lavoro del "Corriere" ha portato alla luce più di un problema e ha
spinto il giornale a "bocciare" pesce e verdura: il primo per la scarsa
freschezza ma soprattutto per un contenuto eccessivo di piombo, la seconda
per l'elevata frequenza di residui di pesticidi. A ben guardare, poi, nelle
tabelle del quotidiano escono male anche molti prodotti freschi come i
formaggi acquistati al mercato (ricchi di batteri e in qualche caso anche
di microrganismi pericolosi), o i prodotti del banco gastronomia (insalate
russe troppo ricche di batteri tanto alla Coop quanto alla Sma e alla Gs).
Neppure i salami si salvano dall'ecatombe, visto che il "Corriere" li
boccia per il contenuto di nitrosammine, i composti azotati ad effetto
provatamente cancerogeno.
Allarmi giustificati? In queste pagine abbiamo deciso di ripercorrerli uno
per uno, per chiarire ai nostri lettori il loro significato e per tentare
di fare chiarezza in questo campo.

NITRATI TIMORI FONDATI

Uno dei molti aspetti sollevati dall'inchiesta del "Corriere della Sera" ha
riguardato l'eccessiva presenza di nitrosammine nei salumi acquistati nella
grande distribuzione. L'elenco e i numeri, effettivamente, sono di quelli
che fanno riflettere: su 12 confezioni analizzate neppure una è risultata
immune da queste sostanze. A finire sotto il mirino del quotidiano,
infatti, sono stati gli speck a marchio Sma, Gs, Rigamonti e Gasser, quelli
al taglio venduti al banco della Sma e i salami Sma, Coop, Lanzi, Salumeria
italiana e il salame di Potenza venduto alla Gs.
E non si tratta di certo di un falso allarme o di una situazione che può
essere definita normale, dato che le nitrosammine hanno effetti tossici per
l'uomo descritti già nel 1937 e negli ultimi anni si sono rivelate
provatamente cancerogene. È evidente, dunque, come queste sostanze, anche
in mancanza di una legislazione che ne fissi il contenuto massimo siano da
evitare in tutti i prodotti alimentari.

DA DOVE VENGONO.
Punto di partenza di questi pericolosi composti è l'uso del nitrato,
particolarmente frequente negli insaccati, ma rintracciabile anche nei
vegetali e perfino nelle bevande. Nelle carni, per esempio, questa sostanza
viene immessa per evitare la contaminazione botulinica (che produce una
tossina letale per l'uomo) ma soprattutto per mantenere il colore roseo
delle carni, che altrimenti diverrebbero naturalmente scure e sarebbero
scarsamente gradite ai consumatori.
I nitrati, sono composti dell'azoto non molto tossici per l'organismo
adulto, per lo meno a dosi non elevate; il loro consumo nei neonati sotto i
sei mesi, invece, aumenta il rischio della metemoglobinemia, una grave
malattia che riduce la capacità dei globuli rossi di trasportare ossigeno e
può portare alla morte. Purtroppo, però, i nitrati non rimangono stabili,
ma si trasformano abbastanza facilmente in nitriti, sostanze che nel nostro
apparato digerente si legano alle ammine e danno luogo, per l'appunto, alle
temibili nitrosammine.

RIDURRE LA CHIMICA. 
Cosa fare per evitare di ingerire questi composti così pericolosi per la
nostra salute? Da molti anni, diversi esperti propongono di ridurre
drasticamente l'uso dei nitrati, tanto nella carne che nelle verdure. Nella
prima, per esempio, sarebbe abbastanza facile rinunciare ai "benefici
estetici" per i quali è utilizzata: abbandonando, per esempio, l'idea che
le carni trasformate (insaccati, salumi, ma anche carni in scatola) debbano
essere ben rosse per incontrare il gusto del consumatore. Oppure
utilizzando sostanze molto più tranquille come l'acido l-ascorbico (la
vitamina C di sintesi) che ha effetti simili. Una strada già seguita da
alcuni grandi produttori: basti ricordare tutti i prosciutti d'origine
protetta che non utilizzano nitrati o alcune aziende (come la stessa Coop,
finita nel mirino del "Corriere" per i salumi) che da anni ha deciso di
evitarli nella carne in scatola.
Per ridurre la loro presenza nelle verdure o nelle acque potabili, invece,
si dovrebbe limitare l'uso massiccio di concimazioni azotate che lasciano
residui sia sulle foglie delle piante che nei terreni, dai quali facilmente
penetrano nelle acque di falda. Un'operazione possibile, come dimostrano le
differenze a volte anche notevoli tra il contenuto di nitrati negli ortaggi
convenzionali e in quelli biologici che riportiamo nella tabella quì sotto.


AZIENDE BIOTECH DIETRO LE QUINTE?

"Attenzione agli scandali strumentali e alla disinformazione organizzata".
In molti, in questi giorni, hanno lanciato l'allarme contro quella che
potrebbe essere una campagna tutt'altro che disinteressata. Primo fra
tutti, dai microfoni dei telegiornali, era stato il ministro delle
Politiche agricole Alfonso Pecoraro Scanio che ironizzando sulla
coincidenza che "vicino a Francoforte c'è la sede di una delle più grandi
società del transgenico (la Novartis, ndr)". Qualcuno, però, è anche andato
al di là dei sospetti velati, chiedendosi - come ha fatto la neonata
associazione degli agricoltori Progresso rurale - se dietro questa campagna
non ci sia qualche multinazionale di Ogm inserzionista pubblicitaria sulla
stampa tedesca.
Perché questa associazione tra aziende biotech e allarmi alimentari?
Probabilmente perché aumentando l'incertezza dei consumatori nei confronti
dei cibi di uso comune, si potrebbe oscurare la diffidenza ben radicata in
Europa sui transgenici. E magari affermare, come le multinazionali fanno da
anni, che si tratta della vera soluzione per tenere sotto controllo la
salubrità degli alimenti e ridurre gli effetti dei fitofarmaci.
Contro una delle tesi più care alle industrie biotech, però, proprio nei
giorni scorsi era arrivato un vero e proprio siluro, e non dal Vecchio e
diffidente Continente, ma dalla madre patria, gli Stati Uniti. A lanciarlo
il St. Louis Post-Dispatch che riprendendo il sito internet di
controinformazione americana sugli Ogm Biotech Infonet , dedicava un lungo
articolo sulla Monsanto vittima del suo successo. Nell'articolo, confortato
dai dati del dipartimento delle scienze e dell'ambiente ddell'Idaho, si
traccia un quadro sconfortante dell'abuso di pesticidi negli Usa,
soprattutto del Roundup, il fitofarmaco della Monsanto per il quale è stata
studiata e commercializzata la soia geneticamente modificata. Questo
vegetale, nato per resistere al Roundup e presente lo scorso anno in buona
parte del 54 per cento dei campi americani transgenici (che quest'anno è
previsto salgano al 63 per cento), avrebbe dovuto ridurre l'utilizzo dei
pesticidi nei campi. Almeno così lo ha sempre presentato la Monsanto.
Secondo i dati raccolti dal Centro di ricerca dell'Idaho, invece, gli
agricoltori avrebbero utilizzato l'11,4 per cento di erbicidi in più nei
campi rispetto al passato, attratti dalla possibilità di non danneggiare le
piante. Estrapolando i dati al 2001, secondo gli scienziati, gli
agricoltori americani spargeranno nei campi 227 grammi di pesticida in più
per ogni acro coltivato. E questo, oltre ai problemi di inquinamento
ambientale che l'uso di questi veleni comporta, secondo i ricercatori
faciliterebbe la selezione di erbe infestanti resistenti al Roundup,
creando l'esigenza di utilizzarne sempre maggiori quantità.

LA STERILIZZAZIONE TOTALE NON GARANTISCE LA QUALITÀ

È sbagliato, dice il docente universitario Giorgio Ottogalli, denunciare in
modo indiscriminato la presenza, talvolta positiva, di batteri negli alimenti.

Nella lunga sequela di accuse agli alimenti nostrani, dopo la chimica, le
scorie radioattive, la manipolazione genetica, non poteva non agitarsi
anche l'inquinamento microbico dei cibi. A sollevarlo, ancora una volta, le
analisi pubblicate dal Corriere della Sera lunedì 7 maggio. Nelle due
pagine del quotidiano, infatti, comparivano le anali microbiologiche su
quattro formaggi (ricotta, primo sale, caciotta e formaggio fresco)
acquistati in tre mercati rionali di Milano, Roma e Napoli e su alcuni
prodotti non confezionati in vendita al banco (principalmente insalate
russe) nei supermercati Gs, Sma e Coop delle tre città.
Due tabelle ricche di punti esclamativi per segnalare batteri oltre i
limiti. Se per i 6 formaggi analizzati le situazioni definite
compromettenti erano due (le ricotte acquistate a Napoli e Roma con troppi
batteri totali e la presenza
dell'Escherichia coli, un microrganismo patogeno), per le insalate russe &
co. i batteri totali superavano il limite in ben 10 casi su 13. Segno di
scarsa attenzione per l'igiene, commentavano le pagine del Corriere e di
insicurezza anche dei supermercati, il luogo di acquisto in cui il
consumatore è tradizionalmente abituato a riporre più fiducia.
Non tutti, però, sono d'accordo con questo allarme. Ovviamente non lo sono
le tre catene di supermercati che hanno subito replicato al quotidiano di
via Solferino, puntando sul fatto che nei loro casi le analisi hanno
trovato solo batteri "aspecifici", quindi innocui e non pericolosi per il
consumatore.
Non è d'accordo neppure il professor Giorgio Ottogalli, docente di
microbiologia degli alimenti dell'Università di Milano che, anzi, esprime
una preoccupazione: "Attenzione a non far dell'isterismo sulla salubrità
degli alimenti. Se da una parte è giusto che i giornali facciano controlli
e pubblichino i risultati, una loro interpretazione scandalistica può
frastornare il consumatore e addirittura fare l'interesse delle grandi
multinazionali e non quello dei prodotti tipici e artigianali che, invece,
sono la ricchezza del nostro Paese".
Professore, ci può spiegare meglio?
Guardate a chi, in questi anni, ha tentato di imporre una cultura della
sterilizzazione totale degli alimenti. Sono le grandi industrie, spesso
supportate dall'Unione europea e a rimetterci è stata spesso la qualità dei
prodotti.
Ma i limiti ci sono e superarli non può costituire un rischio per il
consumatore?
Non sempre. Non è così, per esempio, nella situazione fotografata dal
"Corriere". Lì ci sono due dati messi in evidenza: da una parte una carica
microbica totale più alta dei limiti, dall'altra alcuni campioni con un
organismo come l'Escherichia coli difficilmente patogeno.
Partiamo con ordine. Troppi microbi non rappresentano un pericolo e una
mancanza di igiene negli alimenti?
Sono anni che tento di ripetere un concetto secondo me molto semplice, ma
non facile da far digerire né alla stampa né ad alcuni miei colleghi
igienisti. Per capire se la carica di microbi è potenzialmente dannosa,
bisogna innanzitutto distinguere tra microrganismi utili e dannosi. Quelli
utili possono dare luogo a trasformazioni benefiche per l'organismo, come
accade negli yogurt, nei salumi, nei formaggi, ma possono anche funzionare
da "sentinelle" , difendendo l'alimento da altri microrganismi patogeni. In
parole povere occupano lo spazio e impediscono lo sviluppo di quelli
pericolosi per l'uomo. Quando si fa un controllo e si esprime solo il
numero totale, non si considera questo fattore fondamentale per la
salubrità dell'alimento. Un altro aspetto di cui tenere conto è che questa
azione utile dei microrganismi può essere svolta anche nel nostro
organismo. Ingerendoli con l'alimento e inserendoli nel nostro apparato
digerente, infatti, si ha anche il beneficio di arricchire la popolazione
batterica che "combatte" contro i patogeni.
E nei casi dei formaggi troppo ricchi di Escherichia coli?
Qui qualche problema igienico c'è davvero, anche se non siamo in condizioni
drammatiche. Può apparire paradossale ma anche colibatteri come
l'Escherichia potrebbero non essere patogeni grazie a una ricchezza di
microrganismi sentinella che ne bloccano lo sviluppo.
Non si corre il rischio di giustificare anche prodotti realizzati senza la
dovuta attenzione igienico sanitaria?
È chiaro che si deve valutare caso per caso, con la dovuta attenzione alle
situazioni che hanno anche un pur minimo pericolo per il consumatore. Ma,
lo ripeto, non possiamo e non dobbiamo cedere alla tentazione di
sterilizzare gli alimenti. Altrimenti corriamo il rischio di rinunciare ai
prodotti artigianali di grande pregio, lasciando il mercato solo ai
prodotti tecnologici di gusto appiattito. Senza contare che un'eccessiva
igiene può diventare un pericolo per lo stesso consumatore indebolendo le
difese dell'organismo. Pensate ai rischi legati a un eccessivo uso di
disinfettanti negli ambienti domestici o nei saponi che ha come conseguenza
proprio lo sviluppo di organismi pericolosi per l'assenza di antagonisti.