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fast food scientifico: sotto la scoperta niente
- Subject: fast food scientifico: sotto la scoperta niente
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 21 Apr 2001 20:13:12 +0200
dal messaggero di venerdi 13 aprile 2001 ---------------------------------------------------------------------------- ---- Il fast food della scienza/Ricerche in corso annunciate dai media come clamorosi risultati, complici non sempre inconsapevoli professori e luminari. Dall’eclatante caso Folkman sulla ”certezza” di vincere il cancro ai ”trucchi” per farsi pubblicità. Viaggio nel malcostume che promette e illude E, nel laboratorio,sotto la scoperta niente di CARLA MASSI COME un hot dog, un cheeseburger o un bocconcino di pollo fritto. Come un pranzo fast food, un fazzoletto di carta, un bicchiere di plastica. Anche la scienza è arrivata al traguardo dell’usa e getta. Come si conquista il primo risultato di una ricerca, scatta la corsa per mandarlo in pasto a giornali, tv, Internet, agenzie di stampa. In un baleno, dal laboratorio di un’università arriva sulle prime pagine dei quotidiani. E in quel momento, puntuali, gli scienziati fanno partire gli attacchi: criticano i titoli, accusano i giornali di stravolgere l’anima dei lavori, di illudere la gente. Ma perché, allora, le grandi riviste scientifiche ogni mese anticipano alle agenzie di stampa internazionali i lavori più "appetibili"? Mettendo insieme le autostrade della scienza con i lavori in corso. Le opere d’arte finite e le bozze d’autore. Rischiando spesso di generare dolorose speranze. Uno degli ultimi casi di clamore internazionale è targato Usa. Domenica 3 maggio 1998: sulla prima pagina del New York Times, con grossa evidenza, sono annunciati i risultati di una ricerca condotta dal professor Judah Folkman. Lo scienziato aveva scoperto, lavorando sui topi, che certe proteine possono sopprimere un tumore impedendo ai vasi sanguigni di portargli nutrimento. Di punto in bianco il professore di chirurgia alla Harvard Medical School e al Children’s Hospital di Boston venne catapultato nel gran circo delle dichiarazioni. Lui schivo, lui che per oltre 30 anni aveva lavorato nel suo laboratorio (265 pubblicazioni scientifiche) affidando sempre ogni decisione alle autorità sanitarie. Fino all’uscita dell’articolo sul giornale Folkman era un professore che aveva chiesto (spesso invano) finanziamenti per la sua ricerca. Uno scienziato senza lustrini e senza piume che, con i colleghi, si divertiva anche a minimizzare il suo lavoro. In prima pagina il professore è arrivato con un progetto di comunicazione ben studiato. A tessere per primo le sue lodi è stato uno dei padri della scienza moderna, James Watson, vincitore del premio Nobel con Francis Crick per aver scoperto la struttura del Dna. Queste le sue parole nell’articolo: «Judah curerà il cancro in due anni, sarà ricordato fra i grandi scienziati come Charles Darwin». In America, subito dopo l’uscita dell’articolo, partì una campagna stampa che mise in discussione anche la portata della ricerca. Si scatenarono tutti: dagli scienziati agli operatori di borsa che rivelarono i retroscena del boom a Wall Street dei titoli delle case farmaceutiche produttrici delle sostanze utilizzate da Folkman. Sul banco degli imputati venne fatta sedere l’autrice dell’articolo, Gina Kolata (la più nota delle giornaliste mediche statunitensi) già pronta, a pochi giorni dalla pubblicazione sul giornale, a scrivere un libro sul professore. Con Folkman che, da vero animale di laboratorio, continuava a ripetere: «Passare dal topo all’uomo è un grosso salto, che spesso fallisce». Un amico malato di cancro gli chiese di provare la terapia su di lui ormai allo stadio terminale. Lo scienziato rispose no. La sperimentazione è partita all’inizio del Duemila e si sta ancora lavorando. Ecco come si confeziona il fast food della ricerca. Ecco come si ingenera la sete di novità che fa lievitare titoli, servizi televisivi, fa diventare "scoop" anche un lavoro che, magari per gli addetti ai lavori, non è poi così rivoluzionario. Proprio sulle pubblicazioni scientifiche sta cominciando a calare una pioggia di critiche. Arrivano dall’interno dei laboratori. L’ultima ad alzare la voce, come ha riportato un giornale italiano specializzato, il Farmacista, è la rivista francese Eureka. Gli autori dell’articolo avrebbero individuato una decina di "trucchi" che si nascondono nella foresta delle ricerche: dalla pubblicazione multipla dello stesso lavoro, magari cambiando un solo dettaglio, alla citazione nello studio del nome di chi non ha partecipato, fino all’astuzia del lancio nel mondo dell’informazione di massa. Importante è farsi "pubblicità". Perché questa, ormai, vale più di una pubblicazione di settore, più di un encomio accademico. Tanto che, negli ultimi anni, molti istituti di ricerca, università comprese, si sono dotati di uffici con il compito di diffondere l’attività scientifica. Paolo Di Fiore, ordinario di Patologia generale all’università di Milano e Direttore di divisione all’Istituto europeo oncologico, affronta la ricerca con foga partenopea e pragmatismo made in Usa, dove ha lavorato per oltre 10 anni: «Guadagnare visibilità può portare anche un vantaggio economico, diciamolo. Ma è difficile quantizzare. E’, invece, molto facile prevedere gli effetti che aspettative esagerate possono provocare. Capisco, però, che da noi la "pubblicità" è quasi obbligatoria. Per colpa dell’attitudine ascientifica che pervade da sempre il nostro paese. Solo da pochi anni si sostiene davvero la ricerca. Spesso, quella della pubblicità, è l’unica strada per farsi sentire. Attenzione, però, alla smania di protagonismo». Tra i ricercatori c’è chi propone una carta di autoregolamentazione, una sorta di neocodice da far rispettare in ogni parte del mondo. Il conto dei lavori che vengono pubblicati ogni anno sulle riviste top, come Cell, Nature, Science e New England Journal of Medicine, sfiora i duemila. Se per tutti, da qui a qualche anno, si usasse lo stesso trattamento, avvertono gli scienziati, il mondo dell’informazione sarebbe invaso ogni giorno solo dalle "voci" dei laboratori. «Certe volte mi sembra che la ricerca subisca lo stesso pessimo trattamento di alcuni prodotti alimentari - scherza Antonio G. Rebuzzi, cardiologo co-editor della rivista Italian heart journal -. Vi è mai capitato che qualcuno tenti di spacciare le uova di lompo per caviale? I gourmet dicono che, ai meno esperti, può accadere. In alcune occasioni, mi sembra che la scienza del nuovo Millennio, strizzando l’occhio più allo stupore barocco che alla sostanza, non ci serva il "piatto" promesso. Grandi annunci poi, quando l’esperto "assaggia", scopre che il sapore è un altro. Peccato». Che trappola, le attese messianiche di ALBERTO OLIVERIO IN DIVERSI casi all’annuncio di una scoperta nel campo biomedico non fa seguito una reale disponibilità di quel farmaco o trattamento innovativo che ha acceso tante speranze nelle persone malate e nelle loro famiglie. Ci sono troppe scoperte annunciate o troppi annunci intempestivi? Gli scienziati sono alla ricerca di una visibilità eccessiva? E’ indubbio che le ’’regole del gioco’’ sono oggi ben diverse rispetto a qualche decennio fa, quando gli scienziati erano più ’’arroccati’’ nei loro laboratori e la diffusione delle notizie seguiva canali più lenti ed istituzionali. Faccio un esempio concreto riferitomi da Daniel Bovet, premio Nobel per la medicina e autore di diverse scoperte di grande importanza. Negli anni Trenta il gruppo di Bovet stava compiendo ricerche sui sulfamidici, farmaci che salvarono centinaia di migliaia di vite prima della scoperta degli antibiotici. Una sera di novembre del 1935 i farmacologi iniettarono un gruppo di topini coi batteri della polmonite e un gruppo di topini con gli stessi batteri associati alla molecola del primo sulfamidico: quando la mattina dopo controllarono le gabbie notarono che tutti i topolini non iniettati col sulfamidico erano morti, quelli curati col farmaco erano invece vivi. Nel giro di pochi giorni, il farmaco venne somministrato a un ragazzo con la difterite che guarì rapidamente: malgrado ciò, quella scoperta clamorosa non finì sui media e ci vollero mesi e mesi perché la notizia si facesse strada. Potreste immaginare qualcosa di simile al giorno d’oggi? Adesso i rapporti tra scienze e media vanno in senso opposto rispetto al passato e spesso le notizie vengono comunicate ai mass media prima di essere pubblicate su riviste scientifiche: i motivi sono diversi, non ultima l’elevata competizione tra i gruppi di ricerca che spinge gli scienziati ad essere visibili, anche per procacciarsi finanziamenti. Direi però che le regole del gioco tra scienza e media sono cambiate anche a causa della nostra fiducia nella scienza, di un’attesa quasi messianica di nuovi farmaci e rimedi: siamo insomma più propensi a credere che ogni malattia verrà debellata. Resta però un problema etico, la necessità di non suscitare aspettative infondate nelle persone la cui vita è appesa a un filo sottile, lasciando intendere che ciò che è probabile sia già possibile. ---------------------------------------------------------------------------- ----
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