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agricoltura senza qualita' e mucca pazza il caso inglese
- Subject: agricoltura senza qualita' e mucca pazza il caso inglese
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 28 Mar 2001 19:50:18 +0200
dal sole24ore di mercoledi 21 marzo 2001 Inghilterra, l’agricoltura «senza qualità» Marco Niada LONDRA Nelle intenzioni di Tony Blair il nuovo millennio avrebbe dovuto arridere a una Gran Bretagna tutta proiettata nel futuro, immersa nelle delizie della knowledge economy. Crollo dei titoli tecnologici permettendo, può darsi che l’esperimento un giorno riesca. Intanto il Paese fa i conti con una certezza: la rivoluzione agricola, in cui gli inglesi furono primi al mondo agli inizi del ’600, si sta concludendo con un gran botto "celebrativo", con la carneficina di centinaia di migliaia di animali, in una dantesca coreografia di roghi a cielo aperto e allevatori in rivolta, con il crollo verticale dei redditi degli agricoltori e gravi danni per l’economia e i contribuenti. La sola crisi dell’afta, secondo un recente studio del think-tank Cebr (Centre for economic business research), potrebbe costare 9 miliardi di sterline (28mila miliardi di lire), pari al’1,1% del Pil: 3,6 miliardi di costi per allevatori, trasportatori e industria agroalimentare, più 2,7 miliardi di mancate entrate fiscali, l’aumento dei costi dei generi alimentari e le mancate entrate turistiche causate dal blocco delle campagne. La cifra si aggiunge alla stima di 15 miliardi (46mila miliardi di lire) di crisi della mucca pazza, spalmata però su quindici anni, e dunque meno visibile. L’agricoltura, va premesso, è un settore estremamente marginale dell’economia britannica: pesa per l’1,5% del Pil e occupa il 2% della popolazione attiva. Ed è una frazione della stessa economia rurale, che sale al 4% del Pil e al 6% dell’occupazione, se si considerano le attività collaterali. La crisi attuale sta colpendo "solo" il 40% degli addetti, ossia quelli concentrati nell’allevamento. Anche se si arrivasse allo scenario infernale dell’abbattimento di 800mila animali, per arginare l’epidemia di afta, ciò equivarrebbe "solo" al 4% dello stock zootecnico: e i danni, se fossero contenuti nell’ipotesi conservativa di un miliardo di sterline, peserebbero per l’8% dell’output rurale totale (13 miliardi di sterline). Tale visione riduttiva è colta al volo da alcuni economisti darwiniani, secondo i quali tanto vale "chiudere" le fattorie inefficienti e importare gran parte del fabbisogno alimentare, con grande risparmio per contribuenti e consumatori. Ma il disastro attuale pare essere provocato proprio da un eccesso di efficienza. L’agricoltura e l’allevamento britannici sono tra i più intensivi al mondo. Da mesi i media spiegano che la causa principale dell’esplosione di afta va individuata nella concentrazione dei mattatoi in pochi punti, per facilitare la lavorazione delle carni e la distribuzione dei supermercati in tempi minimi. Gli animali, viaggiando in tutto il Paese per raggiungere pochi mattatoi, avrebbero disseminato il morbo. Inoltre, i consumatori britannici sono molto esigenti sul prezzo e molto poco sulla qualità. Il consumatore ha l’industria che si merita. La richiesta di carne a prezzi stracciati ha spinto a mangimi animali per nutrire a basso prezzo degli erbivori, con il risultato della mucca pazza. Nel corso dei decenni, dal dopoguerra a oggi, gli appezzamenti e gli allevamenti britannici sono diventati sempre più estesi e intensivi, la mano d’opera si è dimezzata e gli utili sono saliti. Fino al brusco risveglio delle crisi degli ultimi anni, che hanno ridotto mediamente del 70%, dal 1995, i redditi rurali, mettendo i piccoli allevatori con le spalle al muro. I supermercati, che controllano il 70% dell’industria del settore, fanno il bello e il cattivo tempo, complice il boom del "private label" (i marchi proprietari di prodotti appaltati all’esterno), che hanno ridotto fortemente i margini degli agricoltori. Cosciente di ciò, il Governo Blair ha chiesto ai cinque big della grande distribuzione di esercitare moderazione con i fornitori e di sottoscrivere un codice di condotta con i contadini. Ma allo stesso tempo il Governo chiede ai supermarket di contenere i prezzi. Il risultato è una richiesta ai distributori di comprimere i margini di profitto, e la manovra dirigista è stata male accolta. La crisi dell’afta ha creato grande confusione in Gran Bretagna. Dalla parte opposta dei "darwiniani" si schierano i sostenitori del cibo "organico", che noi chiamiamo biologico (si veda il riquadro). I più radicali vogliono un ritorno ai bei tempi andati, con la riapertura di mattatoi in piccoli centri e maggiori forniture ai mercati locali di prodotti genuini. Gli articoli sulla necessità di mangiar bene, a costo di spendere di più (un argomento finora tabù) si moltiplicano. Una via di mezzo tra le opposte fazioni pare tuttavia praticabile. Secondo Franz Rivetti, presidente del Wbt, società italiana che da trent’anni trasforma le aziende agricole da convenzionali in organiche (specie nei cereali) sostiene che il ritorno ai piccoli mercatini locali è irreale: «Tagliare la filiera della distribuzione è impossibile, perché comunque ci vuole un intermediario». Secondo Rivetti, però, «se il prodotto organico è fatto con qualità da aziende di taglia, e in modo industrialmente biologico, può avere un prezzo al consumo pari a quello convenzionale di fascia alta». Il problema è peraltro quello dei giganteschi sussidi all’agricoltura pagati dalla Ue per prodotti convenzionali, che si rivelano sempre più costosi e dannosi. Ci vorranno sussidi in più per la conversione all’organico? Secondo Rivetti una fascia di agricoltura organica da affiancare a quella convenzionale contribuirebbe a risolvere il problema di alti costi e forti eccedenze. «La conversione all’organico raggiungerebbe quattro obiettivi — afferma: — ridurrebbe innanzitutto le eccedenze (è un’agricoltura con rendimenti più bassi), migliorerebbe l’ecosistema e la qualità del cibo e ridurrebbe le spese, perché il grosso della spesa Ue è per le eccedenze». Secondo Rivetti la legislazione Ue per convertire alla coltura organica è buona. La riduzione della produzione verrebbe pagata con le sovvenzioni vigenti, che non aumenterebbero i costi complessivi. Con l’andare del tempo, secondo Rivetti, le eccedenze caleranno, e con esse gli esborsi. Il cerchio si potrebbe chiudere riducendo le sovvenzioni a ettaraggio. La rotazione delle colture imposta dall’agricoltura organica potrebbe anche favorire l’occupazione. Insomma, se è vero che buona parte dell’agricoltura convenzionale su grandi superfici resterà, ci sarà più spazio per quella organica. Il cattivo esempio inglese apre un interessante dibattito. Martedì 20 Marzo 2001 |
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