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mercato del territorio: il modello campano
- Subject: mercato del territorio: il modello campano
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 19 Apr 2000 15:34:54 +0200
dalla rivista del manifesto aprile 2000 MERCATO DEL TERRITORIO IL MODELLO CAMPANO DI VEZIO DE LUCIA La Campania è stata fìnora la regione italiana peggio amministrata, peggio anche della Sicilia. ln buona misura, la questione della Campania coincide con la questione meridionale e con la questione morale. sicuramente così per quanto riguarda il governo del territorio e gli altri argomenti di cui trattiamo qui di seguito. Sarebbe utile rileggere gli articoli pubblicati meno due anni fa, in occasione dell'alluvione di Sarno, Argomenti in genere riservati agli ambientalisti, per qualche giorno furono sulle prime pagìne. Tutti i cronisti misero a nudo la fragilità del territorio, ma sopratutto descrissero I'espansione caotica delle citta, la spe culazione edilizia, l'abusivismo, le cave gestite dalla malavita, gli incendi, i disboscamenti, la devastazione dell'ambiente naturale, l'abbandono dell'agricoltura.Si lessero indagini chiare e documentate sul vuoto di cultura civile che sta all'origine di tutti i guai del Mezzogiorno, dove i disastri naturali sono sempre rivelatori dei disastri sociali: 1'imprenditoria miserabile.l'intreccio fra economia legale e illegale, I'abitudine al controllo camorristico dei beni pubblici, le minacce, la fuga o la rassegnata solitudine dei cittadini migliori,i paesi senza fòrma e senza memoria. Il 23 novembre prossimo saranno vent'anni dal terremoto dell'Irpinia, tremila morti, decine di paesi distrutti. Spero che 1'ormai prossim anniversario sia l'occasione per una riflessione non retorica sulla tragedia e sui troppi scempi mascherati da ricostruzione. Credo di non essere il solo a ricordare leemozione e lo sdegno di quei giorni , e di questi mesi , e gli impegni solenni assunti perche' la catastrofe non si ripetesse. Invece non si è fatto quasi nulla, in Campania, ne per la difesa del suolo, né per gli abitati esposti al rischio sismico. Non è stato formato neanche un pian di bacino regionale, e non si è spesa una lira per consolidare abitati non colpiti dal terrermoto del 1980.Secondo il servizio sismico nazionale, sono s rischio 470 dei 515 comuni campani, mentre solo il 33 per cento del patrimonio edilizio è protetto. Eppure il consolidamento di centinaia di centri storici e dell'edilizia più antica offrirebbe un'occasione di spesa pubblica qualificata, ad alta intensità di lavoro. E sarebbe comunque un risparmio, visto che per rimediare ai disastri naturali spendiamo dieci volte più di quanto si spenderebbe attuando politiche di prevenzione. Quanto all'urbanistica, sembra cancellata dall'agenda politica e amministrativa della Campania. Sono passati dieci anni dalla legge di riforma dei poteri locali e non è stata ancora adeguata la normativa regionale sul governo del territorio. I parchi naturali, in quasi tutte le regioni, sono ormai una positiva realtà, che ha promosso forme inedite di vita culturale, di turismo e di economia, coinvolgendo in particolare le energie più giovani In Campania i parchi regionali sono oggetti sconosciuti. Anche i beni culturali sono ignorati. La conservazione della qualità estetica del territorio credo che sia un obiettivo non meno importante della sua integrità fisica. La bellezza, per la nostra civiltà, è un'essenziale precondizione per lo sviluppo. "Bellezza e armonia - ha scritto Michele Serra - sono come il pane. Più si è male in arnese, più se ne dovrebbe avere diritto". Non la pensano così gli amministratori della Campania che hanno ignorato i piani paesistici della legge Galasso. Tant'è che la Campania è 1'unica regione dove sono stati esercitati i poteri sostitutivi del ministero per i Beni e delle attività culturali che ha direttamente provveduto alla formazione e all'approvazione di ben 15 piani paesistici. Si potrebbe continuare nell'elencazione dei guai e delle inadempienze ricordando 1'incapacità storica di gestire i rifìuti, che sta determinando guasti più gravi di una catastrofe naturale. Più o meno lo stesso può dirsi del trasporto pubblico, e così di seguito. Mi fermo su un solo tema, quello della città metropolitana, la più grande e fitta conurbazione d'Italia, che continua a gonfiarsi fra Caserta, Napoli e Salerno. In Italia, è noto, non è mai stato affrontato seriamente il problema del governo delle aree metropolitane, ogni tentativo si è infranto contro la tendenza egemonica dei comuni capoluoghi. Ma il comune di Napoli è solo un minuscolo segmento della conurbazione napoletana. Si pensi che 1'intera provincia di Napoli, formata da novantadue comuni, è più piccola, ma più densamente popolata, del comune di Roma. Anche per questo, il livello dei servizi pubblici territoriali è in genere tanto scadente. Il nuovo piano regolatore di Napoli, quello ancora in discussione in consiglio comunale, chiude per sempre la porta al cemento e all'asfalto, può fare di Napoli il cuore verde dell'area metropolitana, la sottopone alla cura del ferro, può restituire il centro storico all'antico splendore. Ma è pesantemente condizionato dalla limitatezza dei confini comunali. Il grande sistema di spazi verdi, produttivi e ricreativi di Napoli ha senso solo se si estende almeno fino ai Campi Flegrei e alle pendici del Vesuvio. Per sua natura, la rete del trasporto su ferro in costruzione nel capoluogo non può funzionare se limitata alla scala comunale. Le strutture portuali napoletane devono essere integrate agli altri scali marittimi del golfo e della Campania; in tal modo, forse, si può mettere in discussione la stessa permanenza del porto commerciale dentro Napoli. E come decidere, senza previsioni di scala metropolitana, dove realizzare il nuovo aeroporto, che dovrà sostituire quello di Capodichino, pericolosamente collocato nel ventre della città? E come mettere mano alla riqualificazione delle periferie di Napoli, saldate ai comuni confinanti? Dove localizzare i nuovi alloggi, che non possono essere costruiti dentro Napoli, per assoluta mancanza di spazio? Tutto ciò pretenderebbe soluzioni concordate con altri livelli istituzionali, in particolare con la regione Campania, che non ha mai avuto il coraggio di misurarsi con questi problemi. Il problema più grave, che pare dimenticato, è proprio quello delle abitazioni. Un problema che altrove, quasi dovunque, è ormai risolto. Solo a Napoli il bisogno di case resta acuto e determina ricorrenti tensioni sociali. Nell'area napoletana, se si volessero raggiungere nel prossimo futuro standard abitativi uguali a quelli che nel resto d'Italia erano stati guadagnati nel 1991, occorrerebbero oltre 200 mila nuovi alloggi. So bene che si tratta di un argomento difficile, troppi delitti sono stati commessi in nome dell'edilizia. Ma questo non cancella la drammaticità dei dati. All'inizio dell'esperienza regionale, nel corso degli anni Settanta, cominciò a prendere forma una sorta di competizione fra le regioni del centro-nord e quelle del sud. Oggi è un lontano ricordo. Il divario del Mezzogiorno, e in particolare della Campania, si è progressivamente accentuato. Si è perduto il contatto con i modelli più progrediti. Non si può nemmeno parlare di ritardo, giacché il Mezzogiorno (con 1'eccezione, forse, della Basilicata) procede in direzione opposta: verso il baratro. A determinare questo scenario ha certamente contribuito la crisi che ha complessivamente investito 1'istituto regionale. La crisi è accentuata dall'inganno federalista", cioè da quelle spericolate ipotesi di riforma istituzionale ventilate nel recente passato, senza aver nemmeno tentato un bilancio dell'esperienza regionale, specialmente nel Mezzogiorno. Mezzo secolo di vita di regioni autonome in Sicilia e Sardegna, quasi trent'anni di regioni a statuto ordinario avrebbero meritato analisi accurate e produttive. Secondo me, il punto di partenza per una pur sommaria riflessione sulla crisi regionale è la trasformazione subita dalla società italiana nel corso degli anni Ottanta, quando la cultura di sinistra fu colpita dalle filosofie cosiddette liberiste che venivano d'oltreatlantico e d'oltremanica. La programmazione e la pianificazione, strumenti propri e tradizionali della cultura della sinistra, furono ferite a morte. Io sono d'accordo con chi ha sostenuto che la stessa tempesta travolse anche le regioni italiane, che erano state generate proprio dalla cultura della programmazione e della pianificazione. Era il loro peccato originario. Al declassamento dell'istituto regionale contribuì probabilmente anche il Pci quando decise una brusca inversione di rotta, all'inizio degli anni Ottanta, dopo 1'interruzione delle prove di governo dell'unità nazionale. L'istituto regionale, che fino a quel momento era stato al centro del disegno comunista di riforma dello stato, fu messo in sonno, a favore del livello comunale, e soprattutto dei grandi comuni, sempre più visibili. Naturalmente a determinare queste scelte concorsero tanti altri fattori, e ser virebbe un'indagine più approfondita, a partire dalle accelerate trasformazioni sociali e territoriali degli ultimi due decenni. Cominciò a non esserci più differenza fra città e campagna,tutta 1'Italia di ogni stava per essere urbanizzata. Su questa crosta indistinta emersero prepotentemente le aree metropolitane e le grandi città. Parallela e conseguente alla crisi delle regioni, è la crisi dell'urbanistica, degli istituti e degli strumenti per il governo del territorio. I suoi effetti sono evidentemente più gravi nel Mezzogiorno dove, come si è già detto, c'è il vuoto della cultura pubblica. Sembra che si sia rinunciato all'idea razionale (e razionalista) del piano urbanistico comunale esteso a tutto il territorio. Fioriscono, sempre più autorevolmente, istituti anomali, o "eversivi", grazie ai quali è possibile scardinare ogni ordinamento. Accordi di programma; programmi integrati d'intervento programmi di riqualificazione urbana; programmi di recupero urbano; contratti di quartiere; contratti d'area; contratti di programma; intese istituzionali di programma; patti territoriali, ultimi arrivati i "prusst" (programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio): è questa la nuova nomenclatura della deregulation all'italiana. "Ciò che accomuna la quasi totalità di questi piani anomali - ha scritto Edoardo Salzano nella sua comunicazione alla conferenza nazionale sul paesaggio - è che enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo, celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono come motore 1'interesse particolare e subordinano ad esso 1'interesse generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e disertano la piazza della valutazione corale. Abbandonando le metafore, caratteristica comune di (quasi) tutti gli strumenti di pianificazion anomali è quella di consentire a qualunque intervento promosso da attori privati di derogare alle regole comuni della pianificazione ordinaria. Di derogare cioè alle regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al quadro complessivo determinato dal piano) e della trasparenza (ossia della pubblicita' delle decisioni prima che divengano efFicaci e dell possibilità del contraddittorio con i cittadini)". In effetti, le varianti urbanistiche autorizzate con il ricorso agli accordi di programma non sono soggette alle osservazioni dei cittadini com'è previsto dalla legge urbanistica del 1942 per le procedure ordinarie, e gl stessi consigli comunali sono in larga misura spodestati. Con tanti saluti alla partecipazione e alla question morale. Per il Mezzogiorno il peggio potrebbe ancora venire II modello di trasformazione urbanistica del nord-est in un territorio sotto il controllo della grande crimina lità è una plausibile prospettiva da brivido. II comune di Milano ha recentemente proposto un documento titolato "Ricostruire la grande Milano" Dopo aver reso omaggio - fra gli applausi del Sole-24 ore - all'urbanistica contrattata, il documento conferma che i nuovi istituti introdotti dal legislatore negl anni Novanta (quelli citati prima) "costituiscono veri e propri strumenti di pianificazione finalizzati ad agevolare la trasformazione e la riconversione di ampie zone del territorio prescindendo dalle regole stabilite per tali zone dal piano regolatore generale. E questo nuovo assetto urbanistico non scaturisce da un atto autoritativo, ma da un accordo con i privati che confluisce nell'accordo di programma e costituisce lo strumento fondamentale per la realizzazione dell'intervento di trasformazione urbana". Nella prospettiva del modello flessibile si assume che "in sistemi urbani densi e ad alta infrastrutturazione non sia utile conferire un valore normativo alle previsioni di piano regolatore - ad esclusione di particolari salvaguardie - ma che programmi e progetti di trasformazione urbana debbano essere decisi in attuazione delle strategie della Amministrazione e a seguito della valutazione dei risultati attesi". Niente insomma è definito una volta per sempre. In estrema (ma non distorcente) sintesi: il compito unico assegnato alla pianificazione pubblica del territorio è di assicurare la valorizzazione degli immobili, e la riduzione al minimo del rischio d'impresa per i proprietari e gli operatori immobiliari. II modello ambrosiano non ha provocato nessuno scandalo, non è successo nulla. Non sono stati svegliati dal letargo quanti, in particolare nel mondo della politica'e della cultura di sinistra, hanno dimenticato da qualche anno di occuparsi di urbanistica, non vedendo che in gran parte d'Italia città e campagne sono più di prima esposte a ogni insulto, grazie proprio a quegli strumenti micidiali, elencati prima (accordi di programma, eccetera), non a caso esaltati dal comune di Milano. II peggiore esempio di ciò che succede con la deregulation all'italiana non poteva venire che dalla Campania: a Castellammare di Stabia, nella penisola sorrentina, in un luogo prezioso, e geologicamente fragile, vincolato all'inedificabilità dal piano paesistico, tramite un contratto d'area è stata autorizzata la trasformazione in albergo di un'antica cementeria. Lo scempio avviene a pochi chilometri dal comune di Vietri sul Mare dove, come tutti sanno, grazie all'impegno ostinato e decennale di alcuni benemeriti, a cominciare dal compianto Antonio Iannello, è stato recentemente e finalmente demolito un altro albergo, il famigerato "mostro di Fuenti". In tanti dicono che non ha senso difendere la pianificazione. Che è un atteggiamento passatista, da nostalgico del primo centro-sinistra. Che la pianificazione non è un valore in sé. È solo uno strumento arcaico. Una volta c'era 1'urbanistica pubblicisticounilaterale, oggi c'è quella contrattualistica. Tutte le cose del mondo evolvono, anche gli strumenti dell'azione pubblica. In molti continuiamo a pensare che non sia così. Che non si possa elaborare alcuna idea di sviluppo per il Mezzogiorno, non si possa proporre alcuna prospettiva di riforma coerente e trasparente dell'organizzazione territoriale, senza restituire dignità agli strumenti della pianificazione e a chi li utilizza. In verirà, la situazione italiana è al riguardo contraddittoria, da una parte si moltiplicano gli scempi e gli istituti eversivi di cui stiamo parlando, al tempo stesso non si è fermata la proposizione di convincenti ipotesi di riforma. Mi riferisco al decreto legislativo 1 1 2/ 1998 (uno dei decreti "Bassanini" attuativi del decentramento amministrativo) che riafferma, in controtendenza rispetto alla filosofia dominante e derogatoria, il ruolo prioritario della pianificazione, attraverso le intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti in materia di difesa del suolo, tutela delle bellezze naturali, protezione della natura e dell'ambiente. Altrettanto importante è il testo unificato di nuova legge urbanistica - finalmente un buon testo, dopo più di vent'anni di controriforma - predisposto da Rita Lorenzetti, presidente della commissione Lavori pubblici della Camera. Anche questo testo muove in controtendenza rispetto alla prassi seguita a Roma e in gran parte d'Italia (e teorizzata a Milano), vietando il ricorso agli istituti derogatori. Infine, si faccia un confronto con gli altri paesi europei. Che cosa c'è dietro 1'eccellente livello dei servizi pubblici di quasi tutte le grandi città europee? Dietro alla capacità tedesca di costruire nuovi paesaggi naturali? Dietro alle straordinarie operazioni francesi di trasformazione urbana? Dietro all'amichevole impatto delle nuovi reti di trasporto pubblico in Spagna? Ci sono due condizioni irrinunciabili: il riconosciuto prestigio degli organi istituzionali ai quali è affidato il governo del territorio e 1'uso rigoroso e permanente dei metodi e degli strumenti della pianificazione urbanistica e di settore. Per concludere, se sono giusti i dati e le riflessioni esposti, mi pare evidente che, stando così le cose, il divario della regione Campania (e dell'intero Mezzogiorno) dal resto d'Italia, già cresciuto negli ultimi vent'anni, andrà ulteriormente accentuandosi. Al peggio, come si è visto, non c'è limite. E, come si e' visto, al peggio non c'è limite. Ma talvolta è successo che sono proprio gli ultimi, dal fondo dell'abisso, a promuovere il riscatto.
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