[Disarmo] Fwd: Contractors: è tempo che anche l’Italia abbia le sue PMSC




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Da: <beppe.corioni at gmail.com>
Date: gio 4 giu 2020, 16:52
Subject: Contractors: è tempo che anche l’Italia abbia le sue PMSC
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                 Analisi Difesa 

Contractors: è tempo che anche l’Italia abbia le sue PMSC 25 maggio 2020 di Pietro Orizio in Analisi Italia, In evidenza

 

 E’ ora che anche l’Italia abbia le sue PMSC – Private Military & Security Companies – diceva, nel 2017, il generale Leonardo Leso su Analisi Difesa. Mettendo in luce necessità ed opportunità della creazione e regolamentazione di un settore nazionale di compagnie militari e di sicurezza private, il generale dei Carabinieri non più in servizio attivo sembrava aver fatto breccia in quel muro che ha sempre bloccato passi concreti in tale direzione.

All’articolo era, infatti seguito un convegno organizzato dalla Fondazione ICSA, presso la Camera dei Deputati, dal titolo Sicurezza del Paese ed interesse nazionale: un ruolo per le Private Military Security Companies?

L’evento, tra i cui relatori vi era anche l’autore di questo articolo, sembrava essersi concluso positivamente, con interesse ed entusiasmo da parte di autorità e uditori nei confronti di un comparto miliardario da cui l’Italia si trova completamente esclusa ed in ritardo di almeno 40 anni.

Caduta nuovamente nell’oblio con l’approssimarsi della fine del mandato elettorale dell’allora XVII legislatura, l’iniziativa sembra aver subito un’inaspettata accelerazione con la XVIII, attraverso tre atti della Camera dei Deputati.

Mentre sempre più Paesi fanno ricorso a compagnie militari e di sicurezza private di bandiera, sia per tutelare i propri interessi nazionali che quelli delle proprie aziende, l’Italia preferisce una posizione più attendista. Eppure, in questi anni il nostro Paese avrebbe potuto evitare diversi grattacapi o, perlomeno, soffrirne in maniera più defilata grazie a PMSC nazionali adeguatamente costituite e regolamentate: dal caso dei fucilieri di Marina in India al presidio della diga di Mosul, dai tecnici della Bonatti sequestrati in Libia al recentissimo rilascio di Silvia Romano. 

Pro e contro delle PMSC

Da quando le immagini dei cadaveri degli uomini della Blackwater – bruciati e appesi ad un ponte di Falluja, nel 2004 – hanno attirato l’attenzione sul fenomeno dei contractors, il loro impiego è andato diffondendosi esponenzialmente e globalmente, grazie a tutta una serie di motivazioni.

Innanzitutto, le PMSC sono caratterizzate da un estremo grado di professionalità. Sia a livello dirigenziale che sul campo, infatti troviamo quasi tutti ex ufficiali ed operatori delle migliori forze speciali o unità militari d’élite del mondo. Figure professionali ed aziendali che hanno a disposizione grandi possibilità economiche, tecniche e competenze tra le più disparate ed innovative sia in ambito militare che civile: forze aeree, navali, logistiche, mediche, di soccorso, sminamento, combattimento, antiterrorismo, peacekeeping, cybersecurity ed intelligence. Si pensi ad esempio alla sopraccitata Blackwater che, su 3.073 missioni di scorta al di fuori della Green Zone di Baghdad, ha subito 77 attacchi con più di 30 operatori caduti, ma nessun cliente ucciso o gravemente ferito.

Non necessitando di autorizzazioni parlamentari e non dovendosi interfacciare con l’opinione pubblica, le PMSC possono essere dispiegate rapidamente, flessibilmente e mantenendo un basso profilo. Una volta firmato un contratto possono operare pressoché immediatamente in tutto il mondo senza dover sottostare a quella rigida scala gerarchica tipica delle forze armate, alla burocrazia istituzionale o a quell’ormai cronico immobilismo delle organizzazioni internazionali.

Trattandosi di realtà aziendali private, sono inoltre tenute al segreto aziendale e non sono legalmente obbligate a divulgare informazioni sulle loro operazioni, organizzazioni o forza lavoro.

Con un ruolo di moltiplicatori di forze, queste compagnie sgravano i militari da attività secondarie – logistica, servizi mensa e lavanderia, manutenzione sistemi d’arma, ecc. – per poterli impiegare in combattimento o in attività più rilevanti.

L’avvalersi di contractors comporta anche una convenienza economica rispetto al personale militare. Essi, infatti vengono pagati per il loro impiego effettivo, terminato il quale non gravano più sulle spalle dei contribuenti, a differenza delle Forze Armate che rappresentano un costo permanente.

Le PMSC inoltre forniscono servizi a prezzi inferiori. La privatizzazione della guerra in Afghanistan, proposta da Erik Prince alla Casa Bianca, prevedeva un costo annuo di 5 miliardi di dollari rispetto ai 50 spesi mediamente da Washington.

 

Insomma, prezzi generalmente più competitivi grazie alla compresenza di più fattori come la diversa nazionalità degli operatori (un team di 12 operatori cinesi costa tra 660 e 950 dollari al giorno; quanto un singolo operatore britannico o americano) e il ricorso a catene di sub-appalti talmente lunghe da non sapere più a chi vengono aggiudicati i contratti.

In Afghanistan sono state addirittura contrattualizzate società legate a signori della guerra o talebani. Il personale delle PMSC, infine è già stato addestrato dalle forze armate e, quindi schierabile senza alcun onere da parte delle aziende.

L’impiego di contractors consente una negazione plausibile di attività ed operazioni che potrebbero suscitare la condanna della comunità internazionale o dell’opinione pubblica. Attraverso il Gruppo Wagner, Vladimir Putin ha potuto negare il coinvolgimento russo in diversi Paesi come Ucraina, Mozambico, Libia e Venezuela. La dottrina Obama del light footprint in politica estera – una presenza militare ridotta all’estero – è stata possibile grazie ad un impiego senza precedenti di contractors in supporto alle operazioni militari passato pressoché non percepito agli occhi degli americani.

Il peso politico della morte di un contractor è praticamente pari a zero. Nell’età post-eroica in cui viviamo, caratterizzata da una scarsa sopportazione di perdite militari da parte dell’opinione pubblica, i caduti in uniforme provocano forti ripercussioni mentre quelli a contratto passano più inosservati.

Negli Stati Uniti le notizie delle loro morti finiscono in secondo/terzo piano e non esistono elenchi ufficiali, se non quello molto approssimativo e ben nascosto sul sito del Dipartimento del Lavoro. In Russia il silenzio sui contractors caduti viene assicurato attraverso giri di vite sui media, accordi di riservatezza coi parenti, promettendo denaro (circa 40.000 euro) ed inviando addirittura funzionari presso i famigliari del caduto per “proteggerli” da reporters e curiosi. 

Anche in Turchia, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita sono sempre meno tolleranti nei confronti dei caduti di guerra, spingendo i propri governi a ricorrere sempre più a mercenari e contractors. A fronte di questi numerosi e a volte cinici aspetti positivi, non mancano le criticità.

In passato, soprattutto con la grandissima richiesta di operatori in Iraq e Afghanistan, le operazioni di selezione e reclutamento del personale sono state condotte in maniera molto approssimativa. Ciò ha portato all’affidamento di incarichi, responsabilità ed armi da fuoco ad ex criminali e terroristi (dall’IRA a suprematisti bianchi, passando per cileni legati alla dittatura di Pinochet) o ad operatori che soffrivano di PTSD (disturbi da stress post-traumatico).

Inevitabilmente, i contractors, come anche i militari, si sono macchiati di reati e violazioni dei diritti umani come uccisioni ingiustificate di civili (strage di Piazza Nisoor, Baghdad), violenze e sevizie (carcere di Abu Grahib, Iraq), traffico di armi (Blackwater in Iraq), esseri umani, prostituzione (Dyncorp in Bosnia) e cattiva condotta (ArmorGroup nell’ambasciata di Kabul). Crimini, nella maggioranza dei casi rimasti impuniti.

Si sono verificati anche episodi di corruzione, sovrafatturazioni, frodi (mancanza di coperture assicurative in caso di ferimenti o invalidità), addebiti per servizi mai prestati, sprechi (prestigiose ville costruite come alloggi per il personale delle PMSC) ecc.

Si stima che in dieci anni siano andati persi tra sprechi e corruzione più di 60 miliardi di dollari nella ricostruzione dell’Iraq. In diversi Paesi si è assistito anche a migrazioni di massa dalle forze armate al settore privato; decisamente meno stressante e di gran lunga più remunerativo.

Questo ha avuto forti ripercussioni sugli apparati militari statali che, oltre al tempo e denaro “sprecato” per la formazione dei propri uomini (l’addestramento base di 14 settimane per un soldato britannico costa circa 44.000 euro), si sono visti depauperare interi reparti. Ciò ha obbligato ad elaborare sistemi di “ritenzione” del personale, attraverso incentivi economici ed altre agevolazioni.

La maggior criticità è, però rappresentata da un coinvolgimento sempre più diretto nei conflitti, con operazioni di tipo offensivo. Un ruolo che è sempre stato di esclusiva competenza degli Stati e che, seppur vietato a livello internazionale in quanto mercenariato, è ora affidato ai contractors – come nel caso del Gruppo Wagner in Siria e Libia– con tutti i rischi in termini di violazioni dei diritti umani e di potenziali escalations.

Opportunità nazionali

Anche per l’Italia esistono delle buone e peculiari motivazioni per cui valga la pena di dotarsi di PMSC di bandiera. Circa il 60% delle attività dell’imprese italiane è al di fuori dei confini nazionali, con una particolare concentrazione in Paesi ed aree a rischio. In fatto di sicurezza all’estero, l’approccio adottato dagli imprenditori italiani è sempre stato caratterizzato da una totale mancanza di attenzione. Al massimo, si è fatto ricorso alle autorità locali – dalla dubbia lealtà e scarso addestramento – oppure a società straniere, principalmente americane e britanniche, già di per sé un bersaglio preferenziale rispetto ai nostri connazionali.

Nel frattempo, i professionisti italiani della sicurezza sono ricercati ed apprezzati all’estero. La possibilità di fornire protezione esclusivamente a beni mobili e immobili, ma non a persone, l’eccessiva burocrazia, l’assenza di una specifica normativa ed un regime fiscale penalizzante fanno sì che i nostri operatori vadano ad ingrossare le fila delle PMSC straniere, oppure ad aprire le proprie all’estero.

Consentendo, invece loro di operare nel nostro ordinamento si eviterebbe o, comunque, limiterebbe l’uscita di risorse economiche dal Paese, aumentando anche il gettito fiscale. Si pensi al contratto da 3.498.000 euro aggiudicato alla britannica Aegis per proteggere il personale dell’Unità di Sostegno alla Ricostruzione (Usr) in Iraq, nel 2007.

Inoltre, compagnie e personale italiano garantirebbero una maggiore tutela e protezione delle nostre aziende, progetti e tecnologie. I contractors stranieri, infatti sono tutti operatori addestrati anche alla raccolta di informazioni; perciò, farli presenziare o metterli sempre al corrente degli interessi o spostamenti dei managers italiani non è sicuramente conveniente.

L’istituzione di PMSC italiane consentirebbe anche la creazione di opportunità lavorative per tanti nostri ex militari che, sopraggiunti i limiti di età o terminati i periodi di ferma prefissata, potrebbero mettere ancora a disposizione la propria esperienza nel privato. Posti di lavoro potrebbero crearsi anche per tanti civili i cui profili professionali rientrano comunque tra le variegate necessità di queste compagnie.

Si potrebbe favorire anche una maggior proiezione economica italiana all’estero, spingendo un maggior numero di piccoli e medi imprenditori ad avventurarsi in certi mercati, finora considerati di esclusivo appannaggio di grossi competitors esteri o nazionali.

Infine, le istituzioni potrebbero svincolarsi o prendere le distanze da quelle situazioni scomode o imbarazzanti che non sono mancate negli ultimi anni. Ricorrendo ai contractors al posto dei Nuclei Militari di Protezione della Marina Militare, si sarebbe instaurato un rapporto di natura privatistica con gli armatori, evitando all’Italia complicazioni di carattere politico e diplomatico come avvenuto, invece col caso dei fucilieri di Marina Latorre e Girone.

Così come si sarebbero potuti evitare i rischi, costi e polemiche per la vicenda della Trevi S.p.a. Per la protezione dei suoi tecnici impegnati nelle riparazioni della diga di Mosul, Iraq è stato infatti impiegato un battaglione di 500 soldati italiani.

Per la prima volta, gli interessi ed assets di una società privata, in una zona altamente rischiosa, sono stati tutelati dalle Forze Armate italiane. In realtà, interessi ibridi visto che il secondo azionista della società era lo Stato italiano, attraverso il Fondo Strategico Italiano. Così come ibrido doveva essere inizialmente il servizio di sicurezza: una componente operativa privata a carico dell’azienda ed una pubblica di controllo e comando.

Allo stesso modo, attraverso l’impiego di contractors da parte di società ed ONG operanti all’estero – perlomeno quelle con maggiori possibilità economiche – si sarebbero potuti evitare rapimenti e pagamenti di riscatti da parte dello Stato italiano, come invece sarebbe accaduto con Silvia Romano, ma anche in una lunga serie di casi precedenti.

In tutte le circostanze che costituiscono “occasione di lavoro,” dichiara Matteo Cozzani, esperto di safety & security aziendale e coordinatore del gruppo di progetto AiFOS “S4S security for safety,” nonché RSPP esterno di primarie ONG italiane, la sicurezza del lavoratore all’estero va garantita dall’inizio alla fine della missione. E ciò, considerando anche quei rischi esogeni, di natura “security” come terrorismo, rapimenti e criminalità relativi all’ambiente sociopolitico in cui sono stati chiamati ad operare, adottando misure idonee ad eliminare o comunque ridurre tali rischi (sentenza di primo grado del caso Bonatti). Da queste responsabilità non sono esenti nemmeno le ONG!

Proverbialmente, aggiunge Cozzani, “è meglio tenere a mente che cercare di rimediare ad un imprevisto a migliaia di chilometri di distanza è normalmente ben più costoso che prevenirlo.”

A Che punto siamo?

 Al momento in Italia il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza riserva ancora la sicurezza delle persone all’esclusiva competenza delle forze dell’ordine. Pertanto, gli istituti di vigilanza privata o guardie particolari giurate (GPG) italiane possono proteggere solamente beni mobili ed immobili sia in Italia che all’estero.

L’unica parziale eccezione è costituita dalle attività di antipirateria marittima, previste con il decreto n° 266 del 28 dicembre 2012: Regolamento recante l’impiego di guardie giurate a bordo delle navi mercantili battenti bandiera italiana, che transitano in acque internazionali a rischio pirateria, entrato in vigore il 13/04/2013.

Tuttavia, a detta di operatori ed associazioni di categoria il provvedimento si è caratterizzato per un’eccessiva burocratizzazione ed una grande successione di permessi da ottenere da enti ed autorità territoriali diverse. Il tentativo di risoluzione di queste lungaggini ha portato all’istituzione di tavoli tecnici culminati, a fine 2019, nella sua sostituzione con il nuovo decreto n. 139 del 7 Novembre 2019.

In esso sono state inserite semplificazioni ed armonizzazioni delle regole italiane con quelle internazionali relativamente, ad esempio, ai requisiti addestrativi, alle armi utilizzabili nei servizi e relative procedure per il loro maneggio, trasporto e detenzione, la diminuzione del personale da 4 a 3 GPG, equiparando il servizio a quello fornito su navi battenti bandiera non italiana ed incrementando così la competitività dei nostri armatori. Tasto dolente: tra le disposizioni finali e transitorie, con decorrenza 1° gennaio 2020, è stato richiesto di rimediare alle lacune formative giuridico/formali del personale imbarcato, pena l’interruzione dei servizi di protezione.

Mancando i tempi tecnici è stata chiesta dalle associazioni di categoria una proroga per poter comunque garantire i servizi e mettersi in regola. La nuova scadenza è stata posticipata al 30 giungo 2020.

Per quanto riguarda un possibile impiego – più generalizzato – di società di sicurezza private, dall’inizio della XVIII legislatura sono state presentate tre proposte di legge sulle guardie particolari giurate all’estero:

– 23/10/2018 – Atto Camera 1295 Lollobrigida ed altri: “Disposizioni in materia di impiego delle guardie giurate all’estero.”

– 07/05/2019 – Atto Camera 1830 Galantino e Rossini: “Disciplina dell’impiego delle guardie particolari giurate per servizi di sicurezza sussidiaria fuori del territorio nazionale.”

29/05/2019 – Atto Camera 1869 Belotti ed altri: “Disposizioni in materia di impiego delle guardie giurate all’estero.”

I tre atti, successivamente accorpati in quanto vertenti la stessa materia, sono in corso di esame alla 1° Commissione Affari Costituzionali e, in sede consultiva, alle commissioni Giustizia, Affari Esteri (al momento l’unica ad essersi espressa), Difesa, Bilancio e Tesoro, Attività produttive, Lavoro e Politiche UE.

Il 7 novembre 2019 si sono tenute anche due audizioni informali: quella della dottoressa Maria Cristina Urbano, Presidente dell’Associazione nazionale di categoria delle Imprese di Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari (ASS.I.V.) e di Giovanni Piero Spinelli, chief executive officer di STAM Strategic & Partners Group.

A queste si è deciso di affiancare, quanto prima, anche audizioni di rappresentanti delle più grandi aziende italiane operative in ambito internazionale – Eni, Saipem, Impregilo e Astaldi – e rappresentanti del Dipartimento di pubblica sicurezza per l’acquisizione di ulteriori elementi di conoscenza in vista dell’elaborazione di un testo condiviso ed efficace.

Nei contenuti, queste proposte di legge mirano alla regolamentazione dell’impiego di guardie particolari giurate per servizi di sicurezza sussidiaria fuori del territorio nazionale. Nello specifico, vengono trattate le disposizioni d’impiego di tali guardie, i loro requisiti e delle società per svolgere tali servizi all’estero, le modalità di esecuzione, l’uso delle armi e le procedure di comunicazione tra istituti di vigilanza privata e le autorità estere e nazionali.

Qualche considerazione

Dalle prime audizioni sono emerse delle perplessità sui progetti di legge. Innanzitutto, sulla necessità di un background militare di almeno tre anni nelle forze armate, con 6 mesi di missioni internazionali per le guardie giurate destinate ad operare all’estero.

Tale requisito, per quanto importante vista la pericolosità degli ambienti in cui saranno chiamate ad operare le GPG, non dovrebbe precludere l’accesso a professionisti formatosi in ambito civile. Vista la disomogeneità dei vari reparti, infatti la provenienza dall’ambito militare, di per sé, non può essere garanzia esclusiva di professionalità. A maggior ragione, considerando il fatto che un soldato, per diventare contractors, necessita di una riconversione del proprio mindset, tipicamente offensivo, in uno orientato alla prevenzione di scontri e crisi.

Inoltre, se l’intenzione è quella di creare un settore nazionale di PMSC, per la svariata gamma di figure richieste da queste realtà sarebbe impensabile non coinvolgere professionisti provenienti dal mondo civile. L’ulteriore perplessità riguarda la portata dei progetti di legge, apparentemente ed unicamente indirizzati ad estendere l’ambito di operatività all’estero degli istituti di vigilanza privata.

GPG e PMSC, infatti non possono essere considerate alla stessa stregua. Secondo Giovanni Piero Spinelli di STAM, il concetto di istituti di vigilanza e di guardie particolari giurate devono essere riconsiderati, così come devono essere stabiliti requisiti minimi e standard qualitativi più aderenti a quelli della concorrenza estera, istituiti centri di formazione ed un’associazione di categoria, nonché codici di condotta. Il tutto con approcci pro-attivi a livello commerciale ed una maggior presenza nei mercati esteri.

Delle proposte di legge presentate, solo la relazione introduttiva della AC 1830 considera in maniera più realistica e concreta la portata delle PMSC internazionali, includendo anche le attività di logistica per le Forze armate italiane (opere edili, vendita di beni e materiali, servizi mensa e di lavanderia) e di vigilanza privata (protezione delle abitazioni e tutela del personale civile espatriato, scorta ai convogli civili finalizzati al trasporto degli approvvigionamenti militari, protezione delle infrastrutture, per esempio, degli impianti petroliferi). A tal fine, i testi in esame dovrebbero esser assegnati in sede referente anche alla IV Commissione difesa.

Nonostante il tentativo di accelerazione di questa legislatura, tutto sembra essersi nuovamente fermato. Persone direttamente coinvolte nei lavori parlamentari hanno riferito di quanto sia “sempre più difficile rendere masticabile in Italia questo tema. Non siamo ancora riusciti a far percepire l’importanza e la portata innovativa che una normativa potrebbe dare al nostro Paese.”

Il valore globale del settore delle PMSC è stimato sui 457,3 miliardi di dollari entro il 2030, con una crescita annua del 7,4% tra il 2020-2030. Numeri superiori al PIL di numerosi Paesi e da cui l’Italia è totalmente esclusa.

Secondo il report di Federsicurezza 2019 il valore complessivo della sicurezza privata in Italia, invece si aggira sui 3,5 miliardi di euro. Anche in questo caso si tratta di un settore in crescita, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Sono presenti 1.339 società, di cui l’81,4% è costituito da piccole e microimprese, con 72.440 occupati. Realtà, quindi nettamente distinte dai colossi anglosassoni che ancora dominano il comparto sia in termini dimensionali che di possibilità economiche.

Sfruttando a proprio vantaggio quella posizione di ritardo in cui si trova, il nostro Paese può e deve fare tesoro delle esperienze, dei passi falsi e degli strumenti adottati dagli altri per poter sviluppare al meglio un proprio settore ed una sua precisa regolamentazione. Ormai le PMSC sono diventate imprescindibili e bisogna quindi pensare ed adottare tutte le misure per integrarle al meglio anche nel nostro ordinamento.

AP, Archivio AD e Ansa

 

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