[Disarmo] Baghdad, Idlib e Tripoli, stessa banda Kappler




I quotidiani del 5 gennaio:
Excusatio non petita a reti unificate: ha fatto tutto Trump.

Il Messaggero: Trump ha ordinato di uccidere il generale
Il Tempo: Trump fa uccidere il n.2 dell'Iran
La Repubblica: Trump fa uccidere il generale
Corriere delle sera: Trump, dovevamo ucciderlo prima
La Stampa: eliminazione frutto della volontà di Trump
Libero: Evviva Trump
Il Giornale: Trump elimina il generale
Il Fatto: Trump uccide Soleimani
Il Piccolo: su ordine di Trump
El Paìs: attacco ordinato da Trump
WallSJ: decisione di Tump
Le Figaro: eliminazione su ordine di Trump
Le Monde: operazione ordinata da Trump

Intanto, è in corso il trasferimento delle truppe terroriste turche da Idlib a Tripoli.
Haftar se n'è accorto e ha mandato un segnale chiaro ad Erdogan:

La Repubblica - 05 gennaio 2020
(sintesi)
UN PORTAVOCE del generale Khalifa Haftar ha rivendicato la responsabilità dell'attacco aereo sull'accademia di polizia di Tripoli, che ha causato la morte di almeno 30 cadetti. "I cadetti di quel college sono miliziani", ha affermato Khaled Al-Mahjoob in una dichiarazione ad Alhurra TV, ripresa dal Libya Observer.
La rivendicazione è coerente con le illazioni già fatte circolare sui siti vicino al generale Haftar, secondo cui nell'Accademia di polizia erano concentrati alcuni dei miliziani siriani che il governo turco avrebbe spostato in Libia per farli combattere dalla parte di Serraj. Quindi non cadetti di polizia, ma combattenti per il Governo di Accordo Nazionale.
Il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, ha messo in guardia la Turchia dall'invio di truppe in Libia: "Qualsiasi sostegno straniero alle parti in guerra" nel Paese, ha affermato, "non farà che aggravare il conflitto e complicare gli sforzi per una soluzione pacifica". Guterres ha sottolineato in un comunicato che "le continue violazioni dell'embargo sulle armi imposto dal Consiglio di sicurezza non fanno che peggiorare le cose".

Globaist.it
Umberto De Giovannangeli 5 gennaio 2020
https://www.globalist.it/intelligence/2020/01/05/haftar-lancia-subito-la-guerra-santa-contro-l-invasore-ottomano-2051211.html
(sintesi)
Ieri un raid aereo delle forze del generale Haftar contro l'Accademia militare di Tripoli ha causato almeno 28 morti e quasi 20 feriti fra i miliziani-cadetti.  Le forze del generale hanno sostenuto di aver preso di mira un raggruppamento di cento miliziani presso l'Accademia che si preparava a partecipare ai combattimenti in corso. Nella mattinata del 5 gennaio un portavoce del generale, Khaled Al-Mahjoob, aveva rivendicato, in una dichiarazione ad Alhurra TV, la responsabilità dell'attacco aereo sulla scuola militare di Tripoli. “I cadetti di quel college sono miliziani”. Ma la rivendicazione sarebbe poi stata smentita dallo stesso portavoce e bollata come una “fake news”. La rivendicazione sarebbe coerente con le ricostruzioni fatte circolare sui siti vicino al generale Haftar, secondo cui nell'Accademia di polizia erano concentrati alcuni dei miliziani siriani che il governo turco avrebbe spostato in Libia per farli combattere dalla parte di Sarraj. Quindi non cadetti di polizia, ma combattenti per il Governo di Accordo Nazionale.
La Turchia era già presente in Tripolitania al fianco del GNA, con una ventina di droni, armi e mezzi pesanti e infine con un centinaio di mercenari che erano stati addestrati da Ankara per il conflitto siriano. Tuttavia, prima con l’annuncio del 10 dicembre, poi con la risoluzione del 2 gennaio, Erdogan è uscito allo scoperto, dichiarando apertamente la sua volontà d’intervenire militarmente in Libia.
(Globalist riporta testuale a dichiarazione ONU pubblicata anche da altre testate - vedi sopra):
Intanto il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, ha messo in guardia la Turchia dall'invio di truppe in Libia: "Qualsiasi sostegno straniero alle parti in guerra" nel Paese, ha affermato, "non farà che aggravare il conflitto e complicare gli sforzi per una soluzione pacifica". Guterres ha sottolineato in un comunicato che "le continue violazioni dell'embargo sulle armi imposto dal Consiglio di sicurezza non fanno che peggiorare le cose".




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La rivolta di Baghdad secondo Il Manifesto:
Come Via Rasella.

Insomma, in risposta delle proteste energiche e unitarie (non solo sciiti, signor Manifesto) contro i bombardamenti statunitensi alle Unità di milizia popolare Kataib Hezbollah, gli Usa rinforzano la loro presenza di occupazione. E come lo riporta Il Manifesto? Dicendo che le Unità di milizia popolare sono unicamente e semplicemente filo-iraniane, che sono corpi estranei al popolo (ben strano, visto che hanno una rappresentanza parlamentare: chi li ha votati? Khamenei da Tehran?), che lo reprimono e che danneggiano il buon governo sostenuto dagli Usa (lo stesso contro cui manifestavano le amate dal Manifesto "mobilitazioni popolari"!). Mica male come capriole.
In pratica: non bisogna protestare l'occupatore altrimenti si arrabbia e da buono diventa cattivo, scatenando l'"ovvia rappresaglia americana", mentre "Trump ringrazia i manifestanti per aver aiutato i suoi piani di rafforzamento statunitense nella regione".
Come in Via Rasella.

Jure Eler


Il 02/01/20 23:13, Elio (via disarmo Mailing List) ha scritto:

---------- Forwarded message ---------
Da: Elio <eliopaxnowar at gmail.com>
Date: gio 2 gen 2020, 23:07
Subject: Iran e Usa: Trump manda 750 marines

Iran e Usa: Trump manda 750 marines

Golfo. Le milizie sciite, protagoniste della repressione delle mobilitazioni popolari, si ritirano dall’ambasciata americana a Baghdad, presa d'assalto martedì. Tensione alle stelle: nuove truppe, la risposta della Casa bianca a due giorni di protesta filo-iraniana. A uscirne con le ossa rotte è il governo iracheno

Miliziani filo-iraniani e i loro sostenitori
                  durante l’assalto all’ambasciata Usa a Baghdad 

Miliziani filo-iraniani e i loro sostenitori durante l’assalto all’ambasciata Usa a Baghdad

 © Ap

Chiara CruciatiIl Manifesto

02.01.2020

1.1.2020, 23:57

Si sono ritirate ieri pomeriggio le centinaia di miliziani sciiti e sostenitori delle Unità di mobilitazione popolare filo-iraniane che il 31 dicembre hanno assaltato l’ambasciata statunitense in piena Green Zone a Baghdad. Due giorni di lanci di pietre, incendi alla reception della sede diplomatica, bandiere gialle delle milizie sciite issate sul tetto e un presidio con tende e viveri a sostegno di chi era accampato lungo il perimetro dell’edificio.

E due giorni di lancio di lacrimogeni e proiettili di gomma da parte dei soldati Usa (sei feriti, 50 intossicati) e dell’ovvia rappresaglia americana, l’annuncio dell’invio di altri 750 marines dal Kuwait all’Iraq, a tutela degli interessi statunitensi.

Eppure l’escalation che ha avuto come teatro una Baghdad molto diversa dal passato – una capitale rinnovata dalla mobilitazione popolare che nulla ha a che vedere con la protesta filo-iraniana di ieri e l’altro ieri – è stata innescata proprio dagli Stati uniti e dal bombardamento, la scorsa domenica, di postazioni delle Kataib Hezbollah tra Iraq e Siria: 25 miliziani uccisi, secondo la Casa bianca in risposta alla morte di un americano causata da un missile su una base a Kirkuk (le Kataib Hezbollah hanno negato responsabilità).

I raid Usa erano chiaramente diretti a colpire lo sponsor delle Brigate, l’Iran, con cui la tensione è alle stelle dall’ingresso alla Casa bianca di Donald Trump. E il cortocircuito è stato immediato: dopo i funerali dei miliziani, martedì, centinaia di sostenitori delle milizie sciite (fattesi partito ed entrate in parlamento dopo aver partecipato alla lotta contro l’Isis nell’ovest del paese) hanno marciato verso la blindatissima Green Zone, nel cuore di Baghdad, e assaltato l’ambasciata statunitense.

L’amministrazione Trump ha sfruttato subito l’occasione, centrando l’obiettivo che si era probabilmente prefissata quando ha avviato l’ultima escalation: mandare altre truppe in Medio Oriente. Così reagisce Washington, silente come il resto della comunità internazionale sul massacro di manifestanti iracheni in corso dal primo ottobre scorso (almeno 511 le vittime accertate), di cui tantissimi uccisi non dalla polizia o l’esercito iracheni ma dai miliziani sciiti che martedì marciavano sulla Zona Verde.

Sono loro che da mesi usano i lacrimogeni come proiettili, che hanno compiuto massacri come quello del 7 dicembre poco a nord di piazza Tahrir, epicentro della mobilitazione popolare. E sono loro, o meglio anche loro, il bersaglio delle centinaia di migliaia di iracheni che da Baghdad al sud sta manifestando incessantemente contro la corruzione, il sistema settario che governa il paese, le influenze palesi e divisive di Iran e Stati uniti. Per queste rivendicazioni e per il sacrificio di 511 persone nessuno si è mosso, tanto meno Washington, corresponsabile del fallimento dello Stato iracheno.

Ieri la situazione sembrava tornare alla normalità nel centro di Baghdad dopo che le stesse Unità di mobilitazione popolare hanno ordinato alla folla di ritirarsi, a seguito dell’appello delle istituzioni governative e soprattutto quello dell’Ayatollah Khamenei, suprema autorità sciita irachena, che ha duramente condannato l’attacco americano.

Ma la tensione resta altissima. Trump ha usato Twitter, come è solito fare, con toni da clan mafioso per minacciare Teheran di rappresaglia: «L’Iran sarà considerato pienamente responsabile per le vite perse e i danni a una qualsiasi delle nostre strutture. Pagherà un prezzo alto! Non è un avvertimento, ma una minaccia. Buon anno!».

Non poteva certo ringraziare i manifestanti filo-iraniani per aver aiutato i suoi piani di rafforzamento della presenza statunitense nella regione: ai 5.200 marines già in Iraq, ai 14mila nel Golfo e alle navi da guerra dispiegate a poca distanza dallo stretto di Hormuz, si aggiungeranno altri 750 soldati, probabilmente provenienti dal Kuwait.

A uscirne con le ossa rotte è il governo iracheno, vaso d’argilla tra due vasi di piombo: da una parte i finanziatori del sistema politico interno e gli addestratori delle sue forze armate, gli Stati uniti, e dall’altra l’Iran governante-ombra che gestisce il paese vicino proprio attraverso le milizie sciite dentro e fuori il parlamento.

Rischia anche la mobilitazione popolare, stoica e genuina: la rivoluzione dei giovani iracheni spaventa tutti, Baghdad, Teheran, Washington perché, comunque finisca, sta trasformando intere generazioni. A chi vuole un Iraq statico e disfunzionale, corrotto e facilmente manipolabile, la rivoluzione non può che far paura.


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