La guerra, l’attacco alla Siria, l’imperialismo.
Cosa ci dice e come combatterla anche a casa nostra.
Il no alla guerra, la resistenza, la rivoluzione del
Rojava. Perché ci riguarda e perché sostenerla; sulla
pratica della solidarietà internazionale dentro il
ventre della Fortezza Europa.
Compagne
e compagni del CPA Firenze Sud
“Alla guerra!”,crisi attuale, la tendenza alla
guerra e come sabotarla e disertarla.
Bombe, carri armati, immagini strazianti di ospedali
attaccati, carovane di sfollati, edizioni speciali in tv
e prime pagine dei giornali. E’ tornata “la guerra”.
Sarebbe più corretto dire che non se ne è mai andata, ma
senza dubbio l’escalation delle ultime tre settimane ha
dato un’accelerata senza precedenti anche per quel
sanguinoso e infinito conflitto che è in corso in Siria.
Guerra vera e propria, così come si è strutturata subito
dopo la degenerazione delle prime proteste contro la
presidenza Assad e che dura dalla primavera del 2011, la
cosiddetta “Primavera araba”, quando in tuttal'area
mediorientale e nordafricana si svilupparono movimenti e
rivolte popolari con aspirazioni, il più delle volte,
represse. Una guerra che, in questi 8 anni, è entrata ed
uscita dagli schermi televisivi, dalle colonne dei
giornali e a fasi alterne anche dai dibattiti o delle
mobilitazioni di movimento, spesso troppo condizionate
da una visione della guerra tutta eurocentrica. Una
situazione complessa che ci impone -al contrario- di
provare a dotarci di strumenti di comprensione e di
intervento che ci permettano di emanciparci dai tempi e
dai contenuti imposti dal mainestream.
La guerra siriana crediamo sia un conflitto che ci possa
dire molto sulla fase storica che stiamo attraversando.
Provando ad analizzare le forze in campo, il contesto
locale e quello internazionale, le alleanze, gli
interessi e i conflitti che lo attraversano,
riscontriamo elementi che ci possono aiutare ad
orientarci ed agire, come compagni e compagne, da
internazionalisti/e, dentro e contro la guerra.
Lo scontro si sta combattendo all’interno dei confini
dello Stato siriano, oramai smembrato e suddiviso in
aree di influenza e controllo, con dei focolai nelle
aree limitrofe: Iraq, Libano, campi palestinesi in
territorio siriano e ovviamente le aree a maggioranza
kurda in territorioiracheno, turco e iraniano. Le
ripercussioni e gli interessi di questo conflitto però,
si estendono ben oltre l'area della guerra guerreggiata,
assumendo la forma di una guerra per la riaffermazione
delle gerarchie, l’egemonia e il controllo delle risorse
medio-orientali, che vede come ultima posta in palio un
nuovo assetto degli equilibri economico-militari su
scala globale.
E’ inoltre evidente il tentativo di ridefinizione dei
rapporti di forza fra le due maggiori potenze
imperialistiche e militari mondiali, USA e Russia, con
il conseguente riassetto degli equilibri fra il blocco
NATO e l’asse cheunisce Mosca con Damasco, a sua volta
legata al regime sciita di Teheran e agli Hezbollah del
confinante Libano. Ma la “classica” divisione in blocchi
fissi ha subito numerose variazioni nel contesto
siriano, evidenziando come anche all’interno degli
stessi schieramenti, interessi contrapposti dettati
dalle contingenze, possono modificare alleanze
considerate solide e consolidate.
Uno scontro anche all’interno degli stessi interessi
imperialistici talvolta contrapposti, un contesto
geopolitico reso di ancor più difficile lettura da uno
scacchiere locale complesso come quello medio-orientale,
dovegli interessi delle potenze regionali e degli stati
nazionali, in alcuni casi, confliggono con le
aspirazioni di egemonia neo-coloniale delle potenze
internazionali.
La tendenza alla guerra è diretta conseguenza del
tentativo, su scala internazionale, di ristrutturazione
di un sistema capitalista in crisi. Questo processo
porta necessariamente ad un riequilibrio degli assetti
di gerarchia e di egemonia economica, politica e
militare, in scenari locali mutati, nel corso degli
ultimi trent’anni, da potenze emergenti che si fanno
avanti per prendersi anche loro un pezzettino di torta,
mentre attori un tempo centrali lottano per non perdere
posizioni di predominio. Un Risiko giocato tutto nel
campo del nostro avversario di classe nella sua tendenza
strutturale all’imperialismo, alla guerra e dallo
sfruttamento dei popoli e dei territori.
Prendere coscienza della tendenza mondiale alla guerra
che si sta dispiegando sotto i nostri occhi è importante
per fissare un primo fondamentale punto di riferimento
nella nostra azione politica: il nostro coerente NO ALLA
GUERRA. Oggi in Siria, come lo fu ieri per Libia,
Iraq,Afghanistan, Libano, Yugoslavia, così come da
sempre ci schieriamo e denunciamo la lunga mano
imperialista, d’ingerenza e di aggressione neocoloniale
in Africa, nel Maghreb, in Latino America -dal Venezuela
all’Equador- passando per l’isola cubana. È importante
rimettere al centro del dibattito il "No alla guerra e
all’imperialismo", nonostante per alcuni possa sembrare
obsoleto se si mette a confronto la mobilitazione e il
dibattito attuale alle milioni di persone scese in
piazza nei primi anni duemila sotto lo slogan “No alla
guerra, senza se e senza ma”.
Il nostro opporci alla guerra e agli interessi
imperialistici deve esser centrale nella lotta al
sistema capitalista, qualunque sia il paese che se ne
faccia portatore.
Oggi, invece, una parte del dibattito a sinistra si
divide tra chi èsolito usare condizionali o
pregiudiziali di partenza,e chi riduce la complessità
dello scenario descritto sopra, a qualche miope e
rassicurante categoria “geopolitica”. Un approccio,
quest’ultimo, fuorviante e parziale che spesso banalizza
il dibattito riducendolo a scontro tra “tifoserie”
inneggianti all’una o all’altra bandiera. Un approccio
che il più delle volte ci induce ad un atteggiamento
totalmente passivo in quanto osservatori di una partita
giocata da altri, mandandoci completamente fuori strada
rispetto al ruolo che ci compete come compagni/e che
credono e praticano l’internazionalismo.
La lente con cui dobbiamo osservare questo conflitto è
quella che ci parla della società e delle contraddizioni
in cui viviamo noi stessi/e ogni giorno. Dovremmo dunque
innanzitutto cercare qui da noi gli strumenti per
contrapporci alla guerra, ai suoi meccanismi, ai suoi
interessi. Dobbiamo metterci nelle condizioni di saper
intrecciare la mobilitazione internazionalista con le
lotte di lavoratori, studenti e disoccupati, con le
battaglie per l’ambiente e la difesa dei territori,
contro la repressione e il controllo sociale. Solo forti
di questa consapevolezza potremo essere in grado di
individuare e comprendere gli interessi contrapposti e
in conflitto fra loro, in ogni contesto specifico in cui
la guerra e gli interessi degli Stati si trovino in uno
scenario di scontro aperto, oltre a trovare i mezzi e
modi per agire contro questo sistema e per la
costruzione di una società diversa.
L’attacco turco al Rojava e alla Siria del Nord, su
internazionalismo e solidarietà
Con la mossa di Trump di ritirare il contingente USA dal
Nord della Siria, in particolar modo delle zone kurde
autogovernate al confine con la Stato Turco, si è, senza
mezzi termini, dato il via libera all’operazione
“Sorgente di Pace” (Sic!) che Erdogan stava preparando
ormai da mesi. La Turchia del Sultano, dunque, decide di
giocarsi la carta della guerra per muoversi dentro il
complesso scenario di cui dicevamo in precedenza,
dispiegando tutto il “sistema guerra” con tutto ciò che
esso comporta: dare una risposta alla crisi economica,
dare respiro ai mercati e ai capitali interni, tentare
di reagire al continuo crollo della lira turca,
rispondere all’erosione di consensi al partito di
governo AKP. Ecco dunque la mobilitazione patriottica
per una guerra che assume tutte le caratteristiche di
una “Guerra santa”. Tutti i partiti (ad eccezione della
coalizione della sinistra popolare kurda e turca
dell’HDP) si sono allineati a favore dell’intervento,
chiare indicazioni sono state date ai principali muezzin
per dedicare la preghiera ai soldati al fronte, si
imbandierano le vie e le piazze, la squadra nazionale di
calcio si rivolge al proprio pubblico con il saluto
militare in mondovisione. Tutta la società turca viene
indotta ad arruolarsi e il comparto civile viene
direttamente coinvolto nelle vicence belliche: un
meccanismo che vediamo perpetuarsi ogni qualvolta la
carta della guerra viene giocata da chi ci governa.
Ovviamente, la repressione e il controllo del fronte
interno diventano pedina essenziale di una guerra che si
dispiega anche dentro i propri confini, tutta a
vantaggio di interessi di classe, reazionari e
patriottici. Si stringono ancora di più le catene ai
polsi dell’opposizione organizzata nell’HDP, si
controllano giornalisti nelle tv e si “spiano” i tweet
dei freelance, si ascoltano le lezioni dei professori
all’università e si monitoranole interviste di scrittori
e intellettuali. Si contano centinaia di perquisizioni e
mandati di arresto per chi ha osato criticare, anche con
toni blandi, l’operazione militare. Nelle terre del
Kurdistan Bakur (area kurda entro i confini turchi)
torna il coprifuoco, si intensifica la militarizzazione
del territorio così come aumentano gli attacchi alle
aree montane controllate dalla guerriglia PKK. Le città
kurde in Turchia sono dunque completamente occupate
preventivamente per evitare non solo ogni atto di
solidarietà con la popolazione del Rojava, ma anche
minime manifestazioni di contrarietà all’intervento.
Mentre si dilatano i confini all’esterno, si fortifica
l’occupazione all’interno. La politica estera aggressiva
è necessaria ad un accentramento di poteri, ad una
stretta repressiva, alla mobilitazione generale interna.
E quale miglior capro espiatorio dei “terroristi kurdi
del PKK”, nemico interno per eccellenza, per riaccendere
gli istinti nazionalistici e soffiare sulle aspirazioni
neo-ottomane di una Grande Turchia che spadroneggi in
Medio Oriente -da Istanbul a Mosul- schiacciando gli
“infedeli” e “comunisti” kurdi, smembrando la Siria e
sottomettendo anche le ali più indipendenti del governo
curdo iracheno.
.La Turchia, dunque, come principale aggressore
dell’esperienza del Rojava, che proprio al di là del
confine, si stava consolidando come un esperimento
politico, sociale, economico in evidente
contrapposizione sia con le aspirazioni turche, sia con
gli interessi delle potenze imperialistiche in tutta
l’area.
Come può svilupparsi nel cuore del Medio Oriente, dentro
una guerra che vede impegnate tutte le potenze mondiali,
un progetto dichiaratamente rivoluzionario? Come è
possibile che si sia affermato? Dove fonda le radici,
come è si è difeso dai nemici interni e dai
condizionamenti dalle ingerenze e interessi esterni?
Com’è stato possibile pensare il suo radicamento e la
sua difesa?
Non è possibile comprendere quanto stia accadendo in
Rojava, e dunque rispondere alle domande che ci siamo
posti, senza capire come un processo rivoluzionario -di
per se stesso- vada inteso nella sua evoluzione e
dimensione storica, dunque come un processo in divenire,
che ha delle radici, che attraversa delle fasioffensive
ed altre di ripiego, e che dovrà difendersi, avanzare e
resistere nel tempo.
La storia del movimento rivoluzionario kurdo sotto la
guida del PKK, una storia che continua da oltre
quarantanni, si lega indissolubilmente con quella delle
terre del Rojava, nome kurdo che definisce i territori
più occidentali delle terre abitate storicamente dal
popolo kurdo. Negli anni della durissima repressione
militare e della sollevazione popolare kurda in Turchia,
non solo diversi profughi e perseguitati politici
fuggirono nella Siria di Hefez Al Assad (padre
dell’attuale presidente Bashar), ma lo stesso PKK riuscì
ad instaurare il proprio comando politico, campi di
addestramento ed una certa agibilità politica e d’azione
concessa da Damasco in chiave anti-Ankara. Tutto questo
nonostante la Repubblica Siriana sotto la guida del
Baath di Assad abbianegli anni comunque perpetuato una
politica repressiva nei confronti della popolazione
kurda (ma non solo) nel tentativo di assimilazione, di
negazione dei diritti fondamentali e di
“de-kurdizzazione” delle aree rurali del Rojava.Questo
per favorire un processo di emigrazione nelle città
industriali indirizzatoad avere manodopera operaia e più
facilmente controllabile.
Nel Rojava dove oggi germogliano le idee rivoluzionarie
di giustizia sociale, uguaglianza e convivenza etnica e
religiosa, affondano radici profonde seminate con la
lotta del popolo curdo e con l'incessante lavoro
politico di Ocalan e dei/delle partigiani/e PKK.
Non è un caso dunque, che proprio il paradigma politico
e l’orizzonte del Confederalismo Democratico proposto
dal Movimento di liberazione kurdo si proponga come
alternativa e modello praticabile in una zona ed in un
contesto come quello del Rojava e della Siria del Nord.
Questa proposta politica, frutto del pensiero di Ocalan
-leader riconosciuto per milioni di kurdi in
Medio-Oriente e della diaspora in Europa e nel mondo- è
stata dibattuta e discussa dal Partito e dal Movimento
tutto in anni di confronto e analisi interna.
Un’esigenza che rispondeva al bisogno di dare uno
strumento concreto per uscire dalla guerra permanente,
per far fronte alla repressione feroce, per raggiungere
una soluzione politica duratura al conflitto, mantenendo
salvi i principi fondatori di un movimento
rivoluzionario.
Anche in questo caso, non si può e non si deve fare
l’errore di giudicare la proposta politica del
Confederalismo Democratico senza inserirla nella sua
dimensione storica, senza considerare i bisogni a cui
risponde e conoscere il contesto in cui si dispiega, le
congiunture internazionali e la dialettica ad esse
collegata. Soprattutto,non dobbiamo cadere nel tranello
giudicante,tipico del privilegio di chi troppo
comodamente si può permettersi di farlo,di atteggiarsi a
censori o dispensatori di “etichette” e “patentini” di
autentici rivoluzionari dal comodo pulpito di casa
nostra. Troppo facile erigersi a dispensatori di quanto
e come un movimento è rivoluzionario o non lo è, mentre
c’è chi subisce e risponde ad una guerra, alle torture e
alla distruzione sulla propria pelle. Così come è
ugualmente errato pensare di poter riportare tale e
quale nella nostra realtà un paradigma nato in seno ad
un movimento e ad un contesto specifico e con il quale
si può, invece, confrontarsi dialetticamente rispetto ad
un più ampio orizzonte di azione.
Non possiamo non masticare amaro pensando a quanto di
così poco rivoluzionario sia in gioco al momento alle
nostre latitudini, nel nostro agire politico e nelle
nostre relazioni e al quale invece dovremmo con fatica e
umiltà tendere e lavorare. Anche a questo dovremmo
rispondere e farci carico, anziché adottare modelli
politici con genesi propria e applicarli ai nostri spazi
che colpevolmente lasciamo vuoti o sono politicamente
spuntati e troppo marginali, così come è inaccettabile
la posizione di chi attacca o mette in dubbio il lavoro
politico di compagni e delle compagne che in un contesto
del genere aprono una prospettiva di alternativa
radicale alla lunga mano degli interessi imperialistici,
neocoloniali, al fondamentalismo, all’oscurantismo,
all’odio etnico, sessista e sciovinista, alle logiche di
dominio, saccheggio e profitto nel cuore di un
medio-oriente stretto fra il confessionalismo, soluzioni
autoritarie e i servi del capitali occidentale.
A questi compagni siamo debitori di aver rimesso in moto
un percorso di liberazione, di protagonismo diretto e di
emancipazione della donna, oltre che di aver rimesso al
centro del dibattito la salvaguardia delle risorse e del
pianeta nel superamento del capitalismo, della gestione
del potere e del territorio e dalla sua autodifesa.
Quando guardiamo al Rojava, dobbiamo tenere presente la
capacità di questi compagnidi aprire una breccia in uno
scenario di guerra, dove forti sono gli interessi
dell’imperialismo e di aver saputo respingere la
barbarie del fondamentalismo religioso e
dell’oppressione jihadista. Per questo ogni forza in
campo, dal regime di Assad sino agli Stati Uniti
passando per la Russia di Putin, è stata costretta “a
fare i conti” con il Rojava, i suoi combattenti e le sue
strutture politiche. Chiunque ha provato ad indebolirla,
a trarne vantaggi, a destabilizzarla ed a minarne le
basi rivoluzionare per i propri interessi, ma tutti gli
attori sono stati costretti a relazionarcisi.
Dall'altro lato, per quanto riguarda le scelte dei
compagni curdi, in un contesto di assedio vero e
proprio, è innegabile la necessità di stringere legami
tattici utili alla sopravvivenza. L'esperienza Rojava
ha, però, nonostante le pressioni e il contesto
sfavorevole, posto le basi per una società radicalmente
alternativa a quella delle potenze coinvolte nel
conflitto.
Crediamo, dunque, che il sostegno al processo
rivoluzionario, alla resistenza popolare,
all’autodifesa, alle strutture politiche del Rojava e
della Siria del Nord siano ancor di più necessarie e
imprescindibili proprio quando essa viene messa sotto
attacco diretto. La solidarietà internazionale deve
affilare la lama dell’appoggio concreto alle strutture
popolari del Rojava, deve indicarne i nemici, le
complicità e gli interessi congiunti di chi sta tentando
di aggredirla, deve riuscire ad estendere e moltiplicare
le iniziative di sostegno e supporto ai valori e alle
pratiche che sono i pilastri del processo
rivoluzionario, senza retorica, con umiltà ma con
impegno militante.
Se non ci ponessimo nella prospettiva di saper praticare
la solidarietà sul terreno di una lotta concreta,
faremmo l’errore di confonderla con una più innocua
“carità” dettata da una spinta morale, spesso dettata
anche da bisogni e interessi che si riduconoal nostro
piccolo orizzonte. Porci al fianco di chi resiste in
Rojava oggi, significa sentirsi parte di una comune
lotta e dentro la stessa guerra, seppur nella disparità
dei contesti in cui agiamo. Allo stesso mododobbiamo
rifuggire dal vittimismo che descrive “i kurdi” come
mero oggetto passivo, da difendere e proteggere, in
balia talvolta dell’una o dell’altra potenza mondiale e
poi vigliaccamente “traditi”. E’ un errore grave e
politicamente nocivo dal quale dobbiamo rifuggire.
La solidarietà non è il proseguimento della diplomazia
con altre forme.
E’ riconoscerci come compagne e compagni di chi da altre
parti sta combattendo dalla nostra stessa parte,
soggetti attivi in un processo reciproco di relazione,
di mutuo appoggio, di liberazione e di accrescimento
collettivo.
Siamo convinti che la solidarietàdebba dunque stare
lontana dagli appelli agli Stati, ai Governi, ai
Padroni. In primo luogo perché lo consideriamo un
approccio sbagliato, che ci pone come subalterni a
decisioni altrui alle quali dovremmo mendicare qualcosa
oggi, che magari ci verrà tolto domani,ma
soprattutto,ribaltando di nuovo la prospettiva, perché
sono i nostri compagni e le nostre compagne in Kurdistan
che ci indicano la strada da percorrere. „Noi sappiamo
che i nostri alleati non sono governi, Stati o eserciti,
ma tutte le donne che si mobilitano e lottano in ogni
parte del mondo per rovesciare il patriarcato. Nostre
alleate sono le forze che giorno per giorno costruiscono
un mondo diverso e si impegnano per la sua difesa“,
scrivono le donne curde del TJK-E nel suo appello per
l’attuale mobilitazione.
Crediamo che riconoscere la guerra, i suoi interessi, i
suoi affari come il principale nemico dei popoli e come
strumento di controllo, repressione e sfruttamento delle
classi subalterne sia il primo passo per una concreta
lotta internazionalista. Dobbiamo affinare le capacità
di denunciare, attaccare, e colpire chi nei nostri
territori fa accordi e affari con il “sistema guerra”,
chi fa accordi e affari con i nemici della resistenza
kurda. Attaccare le collusioni del padronato italiano,
dei nostri governanti, dei banchieri e delle
istituzioni, che nella guerra si arricchiscono, che con
affari e accordi con dittatori, sceicchi e guerrafondai
svolgono il loro compito di sanguinosi affaristi. Allo
stesso modo dobbiamo allargare la mobilitazione a
sostegno dei/delle compagni/e kurdi/e, diffondendo il
loro esempio rivoluzionario dai banchi di scuola ai
posti di lavoro. Dobbiamo dire con forza che senza la
liberazione di Ocalan e il riconoscimento del PKK come
interlocutore politico legittimo, non ci può essere pace
e giustizia per la Turchia, la Siria e tutto il Medio
Oriente.
Se vogliamo essere all’altezza dello scontro in atto,
per uscire dalla passività o dall’auto-rappresentazione,
dobbiamo saper alimentare la lotta contro la guerra per
praticare la nostra solidarietà a chi resiste e lotta
oggi in Rojava, in Siria, in Turchia, in Kurdistan e
tutto il Medio Oriente.
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