[Disarmo] Sulla guerra, il Rojava, per trasformare la solidarietà in lotta internazionalista!
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- From: rossana <rossana123 at libero.it>
- Date: Tue, 5 Nov 2019 17:40:05 +0100
La guerra, l’attacco alla Siria, l’imperialismo.
Cosa ci dice e come combatterla anche a casa nostra.
Il no alla guerra, la resistenza, la rivoluzione del Rojava.
Perché ci riguarda e perché sostenerla; sulla pratica della
solidarietà internazionale dentro il ventre della Fortezza Europa.
Compagne e compagni del CPA Firenze Sud
“Alla guerra!”,crisi attuale, la tendenza alla guerra e
come sabotarla e disertarla.
Bombe, carri armati, immagini strazianti di ospedali attaccati,
carovane di sfollati, edizioni speciali in tv e prime pagine dei
giornali. E’ tornata “la guerra”. Sarebbe più corretto dire che
non se ne è mai andata, ma senza dubbio l’escalation delle ultime
tre settimane ha dato un’accelerata senza precedenti anche per
quel sanguinoso e infinito conflitto che è in corso in Siria.
Guerra vera e propria, così come si è strutturata subito dopo la
degenerazione delle prime proteste contro la presidenza Assad e
che dura dalla primavera del 2011, la cosiddetta “Primavera
araba”, quando in tuttal'area mediorientale e nordafricana si
svilupparono movimenti e rivolte popolari con aspirazioni, il più
delle volte, represse. Una guerra che, in questi 8 anni, è entrata
ed uscita dagli schermi televisivi, dalle colonne dei giornali e a
fasi alterne anche dai dibattiti o delle mobilitazioni di
movimento, spesso troppo condizionate da una visione della guerra
tutta eurocentrica. Una situazione complessa che ci impone -al
contrario- di provare a dotarci di strumenti di comprensione e di
intervento che ci permettano di emanciparci dai tempi e dai
contenuti imposti dal mainestream.
La guerra siriana crediamo sia un conflitto che ci possa dire
molto sulla fase storica che stiamo attraversando. Provando ad
analizzare le forze in campo, il contesto locale e quello
internazionale, le alleanze, gli interessi e i conflitti che lo
attraversano, riscontriamo elementi che ci possono aiutare ad
orientarci ed agire, come compagni e compagne, da
internazionalisti/e, dentro e contro la guerra.
Lo scontro si sta combattendo all’interno dei confini dello Stato
siriano, oramai smembrato e suddiviso in aree di influenza e
controllo, con dei focolai nelle aree limitrofe: Iraq, Libano,
campi palestinesi in territorio siriano e ovviamente le aree a
maggioranza kurda in territorioiracheno, turco e iraniano. Le
ripercussioni e gli interessi di questo conflitto però, si
estendono ben oltre l'area della guerra guerreggiata, assumendo la
forma di una guerra per la riaffermazione delle gerarchie,
l’egemonia e il controllo delle risorse medio-orientali, che vede
come ultima posta in palio un nuovo assetto degli equilibri
economico-militari su scala globale.
E’ inoltre evidente il tentativo di ridefinizione dei rapporti di
forza fra le due maggiori potenze imperialistiche e militari
mondiali, USA e Russia, con il conseguente riassetto degli
equilibri fra il blocco NATO e l’asse cheunisce Mosca con Damasco,
a sua volta legata al regime sciita di Teheran e agli Hezbollah
del confinante Libano. Ma la “classica” divisione in blocchi fissi
ha subito numerose variazioni nel contesto siriano, evidenziando
come anche all’interno degli stessi schieramenti, interessi
contrapposti dettati dalle contingenze, possono modificare
alleanze considerate solide e consolidate.
Uno scontro anche all’interno degli stessi interessi
imperialistici talvolta contrapposti, un contesto geopolitico reso
di ancor più difficile lettura da uno scacchiere locale complesso
come quello medio-orientale, dovegli interessi delle potenze
regionali e degli stati nazionali, in alcuni casi, confliggono con
le aspirazioni di egemonia neo-coloniale delle potenze
internazionali.
La tendenza alla guerra è diretta conseguenza del tentativo, su
scala internazionale, di ristrutturazione di un sistema
capitalista in crisi. Questo processo porta necessariamente ad un
riequilibrio degli assetti di gerarchia e di egemonia economica,
politica e militare, in scenari locali mutati, nel corso degli
ultimi trent’anni, da potenze emergenti che si fanno avanti per
prendersi anche loro un pezzettino di torta, mentre attori un
tempo centrali lottano per non perdere posizioni di predominio. Un
Risiko giocato tutto nel campo del nostro avversario di classe
nella sua tendenza strutturale all’imperialismo, alla guerra e
dallo sfruttamento dei popoli e dei territori.
Prendere coscienza della tendenza mondiale alla guerra che si sta
dispiegando sotto i nostri occhi è importante per fissare un primo
fondamentale punto di riferimento nella nostra azione politica: il
nostro coerente NO ALLA GUERRA. Oggi in Siria, come lo fu ieri per
Libia, Iraq,Afghanistan, Libano, Yugoslavia, così come da sempre
ci schieriamo e denunciamo la lunga mano imperialista, d’ingerenza
e di aggressione neocoloniale in Africa, nel Maghreb, in Latino
America -dal Venezuela all’Equador- passando per l’isola cubana. È
importante rimettere al centro del dibattito il "No alla guerra e
all’imperialismo", nonostante per alcuni possa sembrare obsoleto
se si mette a confronto la mobilitazione e il dibattito attuale
alle milioni di persone scese in piazza nei primi anni duemila
sotto lo slogan “No alla guerra, senza se e senza ma”.
Il nostro opporci alla guerra e agli interessi imperialistici deve
esser centrale nella lotta al sistema capitalista, qualunque sia
il paese che se ne faccia portatore.
Oggi, invece, una parte del dibattito a sinistra si divide tra chi
èsolito usare condizionali o pregiudiziali di partenza,e chi
riduce la complessità dello scenario descritto sopra, a qualche
miope e rassicurante categoria “geopolitica”. Un approccio,
quest’ultimo, fuorviante e parziale che spesso banalizza il
dibattito riducendolo a scontro tra “tifoserie” inneggianti
all’una o all’altra bandiera. Un approccio che il più delle volte
ci induce ad un atteggiamento totalmente passivo in quanto
osservatori di una partita giocata da altri, mandandoci
completamente fuori strada rispetto al ruolo che ci compete come
compagni/e che credono e praticano l’internazionalismo.
La lente con cui dobbiamo osservare questo conflitto è quella che
ci parla della società e delle contraddizioni in cui viviamo noi
stessi/e ogni giorno. Dovremmo dunque innanzitutto cercare qui da
noi gli strumenti per contrapporci alla guerra, ai suoi
meccanismi, ai suoi interessi. Dobbiamo metterci nelle condizioni
di saper intrecciare la mobilitazione internazionalista con le
lotte di lavoratori, studenti e disoccupati, con le battaglie per
l’ambiente e la difesa dei territori, contro la repressione e il
controllo sociale. Solo forti di questa consapevolezza potremo
essere in grado di individuare e comprendere gli interessi
contrapposti e in conflitto fra loro, in ogni contesto specifico
in cui la guerra e gli interessi degli Stati si trovino in uno
scenario di scontro aperto, oltre a trovare i mezzi e modi per
agire contro questo sistema e per la costruzione di una società
diversa.
L’attacco turco al Rojava e alla Siria del Nord, su
internazionalismo e solidarietà
Con la mossa di Trump di ritirare il contingente USA dal Nord
della Siria, in particolar modo delle zone kurde autogovernate al
confine con la Stato Turco, si è, senza mezzi termini, dato il via
libera all’operazione “Sorgente di Pace” (Sic!) che Erdogan stava
preparando ormai da mesi. La Turchia del Sultano, dunque, decide
di giocarsi la carta della guerra per muoversi dentro il complesso
scenario di cui dicevamo in precedenza, dispiegando tutto il
“sistema guerra” con tutto ciò che esso comporta: dare una
risposta alla crisi economica, dare respiro ai mercati e ai
capitali interni, tentare di reagire al continuo crollo della lira
turca, rispondere all’erosione di consensi al partito di governo
AKP. Ecco dunque la mobilitazione patriottica per una guerra che
assume tutte le caratteristiche di una “Guerra santa”. Tutti i
partiti (ad eccezione della coalizione della sinistra popolare
kurda e turca dell’HDP) si sono allineati a favore
dell’intervento, chiare indicazioni sono state date ai principali
muezzin per dedicare la preghiera ai soldati al fronte, si
imbandierano le vie e le piazze, la squadra nazionale di calcio si
rivolge al proprio pubblico con il saluto militare in
mondovisione. Tutta la società turca viene indotta ad arruolarsi e
il comparto civile viene direttamente coinvolto nelle vicence
belliche: un meccanismo che vediamo perpetuarsi ogni qualvolta la
carta della guerra viene giocata da chi ci governa.
Ovviamente, la repressione e il controllo del fronte interno
diventano pedina essenziale di una guerra che si dispiega anche
dentro i propri confini, tutta a vantaggio di interessi di classe,
reazionari e patriottici. Si stringono ancora di più le catene ai
polsi dell’opposizione organizzata nell’HDP, si controllano
giornalisti nelle tv e si “spiano” i tweet dei freelance, si
ascoltano le lezioni dei professori all’università e si
monitoranole interviste di scrittori e intellettuali. Si contano
centinaia di perquisizioni e mandati di arresto per chi ha osato
criticare, anche con toni blandi, l’operazione militare. Nelle
terre del Kurdistan Bakur (area kurda entro i confini turchi)
torna il coprifuoco, si intensifica la militarizzazione del
territorio così come aumentano gli attacchi alle aree montane
controllate dalla guerriglia PKK. Le città kurde in Turchia sono
dunque completamente occupate preventivamente per evitare non solo
ogni atto di solidarietà con la popolazione del Rojava, ma anche
minime manifestazioni di contrarietà all’intervento.
Mentre si dilatano i confini all’esterno, si fortifica
l’occupazione all’interno. La politica estera aggressiva è
necessaria ad un accentramento di poteri, ad una stretta
repressiva, alla mobilitazione generale interna. E quale miglior
capro espiatorio dei “terroristi kurdi del PKK”, nemico interno
per eccellenza, per riaccendere gli istinti nazionalistici e
soffiare sulle aspirazioni neo-ottomane di una Grande Turchia che
spadroneggi in Medio Oriente -da Istanbul a Mosul- schiacciando
gli “infedeli” e “comunisti” kurdi, smembrando la Siria e
sottomettendo anche le ali più indipendenti del governo curdo
iracheno.
.La Turchia, dunque, come principale aggressore dell’esperienza
del Rojava, che proprio al di là del confine, si stava
consolidando come un esperimento politico, sociale, economico in
evidente contrapposizione sia con le aspirazioni turche, sia con
gli interessi delle potenze imperialistiche in tutta l’area.
Come può svilupparsi nel cuore del Medio Oriente, dentro una
guerra che vede impegnate tutte le potenze mondiali, un progetto
dichiaratamente rivoluzionario? Come è possibile che si sia
affermato? Dove fonda le radici, come è si è difeso dai nemici
interni e dai condizionamenti dalle ingerenze e interessi esterni?
Com’è stato possibile pensare il suo radicamento e la sua difesa?
Non è possibile comprendere quanto stia accadendo in Rojava, e
dunque rispondere alle domande che ci siamo posti, senza capire
come un processo rivoluzionario -di per se stesso- vada inteso
nella sua evoluzione e dimensione storica, dunque come un processo
in divenire, che ha delle radici, che attraversa delle
fasioffensive ed altre di ripiego, e che dovrà difendersi,
avanzare e resistere nel tempo.
La storia del movimento rivoluzionario kurdo sotto la guida del
PKK, una storia che continua da oltre quarantanni, si lega
indissolubilmente con quella delle terre del Rojava, nome kurdo
che definisce i territori più occidentali delle terre abitate
storicamente dal popolo kurdo. Negli anni della durissima
repressione militare e della sollevazione popolare kurda in
Turchia, non solo diversi profughi e perseguitati politici
fuggirono nella Siria di Hefez Al Assad (padre dell’attuale
presidente Bashar), ma lo stesso PKK riuscì ad instaurare il
proprio comando politico, campi di addestramento ed una certa
agibilità politica e d’azione concessa da Damasco in chiave
anti-Ankara. Tutto questo nonostante la Repubblica Siriana sotto
la guida del Baath di Assad abbianegli anni comunque perpetuato
una politica repressiva nei confronti della popolazione kurda (ma
non solo) nel tentativo di assimilazione, di negazione dei diritti
fondamentali e di “de-kurdizzazione” delle aree rurali del
Rojava.Questo per favorire un processo di emigrazione nelle città
industriali indirizzatoad avere manodopera operaia e più
facilmente controllabile.
Nel Rojava dove oggi germogliano le idee rivoluzionarie di
giustizia sociale, uguaglianza e convivenza etnica e religiosa,
affondano radici profonde seminate con la lotta del popolo curdo e
con l'incessante lavoro politico di Ocalan e dei/delle
partigiani/e PKK.
Non è un caso dunque, che proprio il paradigma politico e
l’orizzonte del Confederalismo Democratico proposto dal Movimento
di liberazione kurdo si proponga come alternativa e modello
praticabile in una zona ed in un contesto come quello del Rojava e
della Siria del Nord. Questa proposta politica, frutto del
pensiero di Ocalan -leader riconosciuto per milioni di kurdi in
Medio-Oriente e della diaspora in Europa e nel mondo- è stata
dibattuta e discussa dal Partito e dal Movimento tutto in anni di
confronto e analisi interna. Un’esigenza che rispondeva al bisogno
di dare uno strumento concreto per uscire dalla guerra permanente,
per far fronte alla repressione feroce, per raggiungere una
soluzione politica duratura al conflitto, mantenendo salvi i
principi fondatori di un movimento rivoluzionario.
Anche in questo caso, non si può e non si deve fare l’errore di
giudicare la proposta politica del Confederalismo Democratico
senza inserirla nella sua dimensione storica, senza considerare i
bisogni a cui risponde e conoscere il contesto in cui si dispiega,
le congiunture internazionali e la dialettica ad esse collegata.
Soprattutto,non dobbiamo cadere nel tranello giudicante,tipico del
privilegio di chi troppo comodamente si può permettersi di
farlo,di atteggiarsi a censori o dispensatori di “etichette” e
“patentini” di autentici rivoluzionari dal comodo pulpito di casa
nostra. Troppo facile erigersi a dispensatori di quanto e come un
movimento è rivoluzionario o non lo è, mentre c’è chi subisce e
risponde ad una guerra, alle torture e alla distruzione sulla
propria pelle. Così come è ugualmente errato pensare di poter
riportare tale e quale nella nostra realtà un paradigma nato in
seno ad un movimento e ad un contesto specifico e con il quale si
può, invece, confrontarsi dialetticamente rispetto ad un più ampio
orizzonte di azione.
Non possiamo non masticare amaro pensando a quanto di così poco
rivoluzionario sia in gioco al momento alle nostre latitudini, nel
nostro agire politico e nelle nostre relazioni e al quale invece
dovremmo con fatica e umiltà tendere e lavorare. Anche a questo
dovremmo rispondere e farci carico, anziché adottare modelli
politici con genesi propria e applicarli ai nostri spazi che
colpevolmente lasciamo vuoti o sono politicamente spuntati e
troppo marginali, così come è inaccettabile la posizione di chi
attacca o mette in dubbio il lavoro politico di compagni e delle
compagne che in un contesto del genere aprono una prospettiva di
alternativa radicale alla lunga mano degli interessi
imperialistici, neocoloniali, al fondamentalismo,
all’oscurantismo, all’odio etnico, sessista e sciovinista, alle
logiche di dominio, saccheggio e profitto nel cuore di un
medio-oriente stretto fra il confessionalismo, soluzioni
autoritarie e i servi del capitali occidentale.
A questi compagni siamo debitori di aver rimesso in moto un
percorso di liberazione, di protagonismo diretto e di
emancipazione della donna, oltre che di aver rimesso al centro del
dibattito la salvaguardia delle risorse e del pianeta nel
superamento del capitalismo, della gestione del potere e del
territorio e dalla sua autodifesa. Quando guardiamo al Rojava,
dobbiamo tenere presente la capacità di questi compagnidi aprire
una breccia in uno scenario di guerra, dove forti sono gli
interessi dell’imperialismo e di aver saputo respingere la
barbarie del fondamentalismo religioso e dell’oppressione
jihadista. Per questo ogni forza in campo, dal regime di Assad
sino agli Stati Uniti passando per la Russia di Putin, è stata
costretta “a fare i conti” con il Rojava, i suoi combattenti e le
sue strutture politiche. Chiunque ha provato ad indebolirla, a
trarne vantaggi, a destabilizzarla ed a minarne le basi
rivoluzionare per i propri interessi, ma tutti gli attori sono
stati costretti a relazionarcisi.
Dall'altro lato, per quanto riguarda le scelte dei compagni curdi,
in un contesto di assedio vero e proprio, è innegabile la
necessità di stringere legami tattici utili alla sopravvivenza.
L'esperienza Rojava ha, però, nonostante le pressioni e il
contesto sfavorevole, posto le basi per una società radicalmente
alternativa a quella delle potenze coinvolte nel conflitto.
Crediamo, dunque, che il sostegno al processo rivoluzionario, alla
resistenza popolare, all’autodifesa, alle strutture politiche del
Rojava e della Siria del Nord siano ancor di più necessarie e
imprescindibili proprio quando essa viene messa sotto attacco
diretto. La solidarietà internazionale deve affilare la lama
dell’appoggio concreto alle strutture popolari del Rojava, deve
indicarne i nemici, le complicità e gli interessi congiunti di chi
sta tentando di aggredirla, deve riuscire ad estendere e
moltiplicare le iniziative di sostegno e supporto ai valori e alle
pratiche che sono i pilastri del processo rivoluzionario, senza
retorica, con umiltà ma con impegno militante.
Se non ci ponessimo nella prospettiva di saper praticare la
solidarietà sul terreno di una lotta concreta, faremmo l’errore di
confonderla con una più innocua “carità” dettata da una spinta
morale, spesso dettata anche da bisogni e interessi che si
riduconoal nostro piccolo orizzonte. Porci al fianco di chi
resiste in Rojava oggi, significa sentirsi parte di una comune
lotta e dentro la stessa guerra, seppur nella disparità dei
contesti in cui agiamo. Allo stesso mododobbiamo rifuggire dal
vittimismo che descrive “i kurdi” come mero oggetto passivo, da
difendere e proteggere, in balia talvolta dell’una o dell’altra
potenza mondiale e poi vigliaccamente “traditi”. E’ un errore
grave e politicamente nocivo dal quale dobbiamo rifuggire.
La solidarietà non è il proseguimento della diplomazia con altre
forme.
E’ riconoscerci come compagne e compagni di chi da altre parti sta
combattendo dalla nostra stessa parte, soggetti attivi in un
processo reciproco di relazione, di mutuo appoggio, di liberazione
e di accrescimento collettivo.
Siamo convinti che la solidarietàdebba dunque stare lontana dagli
appelli agli Stati, ai Governi, ai Padroni. In primo luogo perché
lo consideriamo un approccio sbagliato, che ci pone come
subalterni a decisioni altrui alle quali dovremmo mendicare
qualcosa oggi, che magari ci verrà tolto domani,ma
soprattutto,ribaltando di nuovo la prospettiva, perché sono i
nostri compagni e le nostre compagne in Kurdistan che ci indicano
la strada da percorrere. „Noi sappiamo che i nostri alleati non
sono governi, Stati o eserciti, ma tutte le donne che si
mobilitano e lottano in ogni parte del mondo per rovesciare il
patriarcato. Nostre alleate sono le forze che giorno per giorno
costruiscono un mondo diverso e si impegnano per la sua difesa“,
scrivono le donne curde del TJK-E nel suo appello per l’attuale
mobilitazione.
Crediamo che riconoscere la guerra, i suoi interessi, i suoi
affari come il principale nemico dei popoli e come strumento di
controllo, repressione e sfruttamento delle classi subalterne sia
il primo passo per una concreta lotta internazionalista. Dobbiamo
affinare le capacità di denunciare, attaccare, e colpire chi nei
nostri territori fa accordi e affari con il “sistema guerra”, chi
fa accordi e affari con i nemici della resistenza kurda. Attaccare
le collusioni del padronato italiano, dei nostri governanti, dei
banchieri e delle istituzioni, che nella guerra si arricchiscono,
che con affari e accordi con dittatori, sceicchi e guerrafondai
svolgono il loro compito di sanguinosi affaristi. Allo stesso modo
dobbiamo allargare la mobilitazione a sostegno dei/delle
compagni/e kurdi/e, diffondendo il loro esempio rivoluzionario dai
banchi di scuola ai posti di lavoro. Dobbiamo dire con forza che
senza la liberazione di Ocalan e il riconoscimento del PKK come
interlocutore politico legittimo, non ci può essere pace e
giustizia per la Turchia, la Siria e tutto il Medio Oriente.
Se vogliamo essere all’altezza dello scontro in atto, per uscire
dalla passività o dall’auto-rappresentazione, dobbiamo saper
alimentare la lotta contro la guerra per praticare la nostra
solidarietà a chi resiste e lotta oggi in Rojava, in Siria, in
Turchia, in Kurdistan e tutto il Medio Oriente.
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