I sauditi
sono vulnerabili: le loro infrastrutture petrolifere
sono state colpite e potranno essere ancora prese di
mira. Avranno come alleati gli Stati uniti e Israele,
ma non sono invincibili. Anzi, è la vicinanza a
Washington e a Tel Aviv a rendere fragile la dinastia
Saud, come dimostrano gli attacchi di cui diremo
tra poco.
Sono
avvenuti una settimana dopo che il principe Abdulaziz
bin Salman ha rimpiazzato Khalid al-Falih nel ruolo di
ministro dell’Energia, mentre Riyadh cerca di spingere
un’offerta pubblica di vendita di parte della società
petrolifera di Stato Aramco, per raccogliere fondi e
diversificare l’economia. I potenziali investitori
terranno conto dei rischi di un’escalation.
Alle 4 di
sabato mattina la raffineria di Abqait e il giacimento
di Khurais sono stati attaccati da droni e forse da
missili che – stranamente – nessun sistema riesce a
intercettare. La produzione saudita perde 5,7 milioni
di barili al giorno (dimezzata), dai mercati sparisce
il 5% della produzione e ieri mattina il prezzo
dell’oro nero si è impennato del 20% (come nella
guerra del Golfo del 1991) per ridiscendere dopo che
gli Stati uniti hanno reso disponibili le loro
riserve.
Per un po’
i sauditi non potranno aprire i rubinetti di oro nero
per compiacere l’amministrazione Trump. Nella
raffineria di Abqait e nel giacimento di Khurais le
fiamme sono tenute a bada e non ci sono vittime. Il
danno sembra però più grave di quanto dichiarato:
serviranno mesi, e non settimane, per rimettere le
cose a posto.
Quella di
Abqaiq è la raffineria più grande al mondo e il
giacimento di Khurais fa parte di Ghawar, lungo 300
chilometri e largo 70. Le infrastrutture colpite sono
situate nella regione orientale dell’Arabia saudita,
dove risiede il 15% della popolazione che professa la
fede sciita e per questo è da sempre vittima di
persecuzioni da parte delle autorità di Riyadh.
A
rivendicare l’attacco con dieci droni sono stati i
ribelli Houthi, di fede sciita ma appartenenti alla
setta zaidita (diversa dai duodecimani dell’Iran). Per
l’industria delle armi, i sauditi sono il miglior
cliente: le comprano, le usano e ne comprano altre da
usare in Yemen dove bombardano dal marzo 2015, facendo
decine di migliaia di vittime tra i civili e mettendo
l’80% della popolazione (24 milioni) in una situazione
disperata, senza cibo né medicine, in preda alle
epidemie.
Gli Houthi
combattono la coalizione guidata dai sauditi che
sostiene il governo di Mansour Hadi e bombarda lo
Yemen: il movente per colpire le installazioni saudite
non manca ma Martin Griffith, l’inviato Onu in Yemen,
ha espresso dubbi sul ruolo degli Houthi e al
Consiglio di Sicurezza ha affermato che non sarebbe
«del tutto chiaro» chi sia dietro l’attacco.
A dire
chiaramente che l’attacco non proveniva dallo Yemen
(il giacimento di Khurais dista 770 km dalla
frontiera), contraddicendo le rivendicazioni Houthi, è
stato il colonnello Turki al-Malki, portavoce della
coalizione militare guidata dai sauditi in Yemen.
Tenuto
conto della provenienza da nord-ovest (e non dallo
Yemen che sta a sud-ovest rispetto agli obiettivi) e
dell’estensione (19 punti di impatto e non dieci come
sostengono gli Houthi), secondo alcune fonti interne
all’amministrazione Trump difficilmente sarebbero
coinvolti i ribelli yemeniti: i droni e i missili
sarebbero partiti dalla costa settentrionale del Golfo
persico, quindi dall’Iran oppure – come sostengono
fonti israeliane – da milizie sciite filo-iraniane dal
sud dell’Iraq.
Le
autorità irachene negano ogni accusa, la colpa sarebbe
tutta degli ayatollah e dei pasdaran di Teheran, che
invece dicono di non saperne nulla. A suffragare
l’ipotesi di un coinvolgimento iraniano, avanzata dal
segretario di Stato Usa Mike Pompeo durante il fine
settimana, sarebbero immagini via satellite
dell’intelligence a stelle e strisce, non disponibili
per la stampa: come in altri casi, ci dovremmo fidare
di quanto ci viene detto dal guerrafondaio di turno.
Intanto,
domenica il presidente americano Trump ha minacciato
via Twitter un’azione militare contro il mittente dei
droni, ma non è arrivato ad accusare l’Iran perché
l’obiettivo è abbassare le tensioni: il saudita
Mohammad bin Salman ha sì bisogno di stabilità per
attirare investimenti e diversificare l’economia del
regno, ma gli americani non possono che rallegrarsi
dell’aumento del prezzo del greggio perché avranno il
loro guadagno dalla vendita dello shale oil (mentre
noi europei – importatori di energia – ci troveremo in
difficoltà).
A
guadagnarci dagli attacchi è anche il premier
israeliano Netanyahu che conta di vincere alle
elezioni di oggi, diventando il ministro più longevo
nella storia dello Stato ebraico.