“Il passaggio facile di alti ufficiali a posti in importanti fornitori della difesa e a rovescio di alti dirigenti di importanti fornitori della difesa ad alte posizioni al Pentagono è una prova consistente del complesso militar-industriale in azione.”
Sono rimasto decisamente sorpreso leggendo le parole precedenti dell’ex-senatore del Wisconsin William Proxmire, citate in un saggio di William Hartung, non per quel che diceva — qualcosa di nuovo? — ma perché lo diceva nel… 1969. Santo cielo: 50 anni fa! All’incirca la mia vita da adulto. Ero così giovane e su di giri nel 1969 — un hippie e idealista, un vero credente nel cambiamento sociale. Avevamo appena sconfitto il razzismo becero (alla Jim Crow) e si stava diffondendo una coscienza antibellica per tutta la nazione, ben presto seguita dal movimento sui diritti delle donne, il movimento sui diritti degli omosessuali e dalla consapevolezza ambientale. Era l’alba di un nuovo giorno! Lo sentivo in ogni fibra de mio essere. Perfino i politici stavano mettendosi in piedi, venendo contati.
Per un istante, leggendo le parole di Proxmire, rammentai la bolla prima che scoppiasse. Poi fui sopraffatto da un senso di fallimento collettivo. Quando si tratta della cultura di guerra, nulla è cambiato. Anzi, il potere condizionante militar-industriale è cresciuto enormemente nell’ultimo mezzo secolo, consumando intanto silenziosamente la democrazia americana.
Come scrive Hartung:
“…non c’è dubbio che i posti di lavoro relative alla difesa in diffusione per il paese dia ai fabbricanti d’armi un’influenza senza precedenti su parlamentari chiave, a loro gran beneficio quando si arriva a trattare il bilancio del Pentagono. Infatti, è scontato che il Congress finanzi più F-35, F-18, e analoghi sistemi d’arma di quanti ne chieda addirittura il Pentagono. Questo in quanto alla supervisione parlamentare.”
E questo è quanto vale per la speranza. E per qualunque possibilità di un pianeta sensato, unito, privo di armi nucleari. La “maggior democrazia al mondo” si è tramutata, nel corso della mia vita, in una mostruosità militar-industriale azionata dal denaro, che fa guerre insensate, che vende armi al mondo, che espande il suo arcipelago prigione generando ricchezza senza fine per i potenti — tenuta frattanto al sicuro dall’esame critico pubblico dall’industria di propaganda mainstream, che incurante chiama tutto ciò autodifesa e la situazione normale somministrando le sue infinite distrazioni alla Nazione Spettatrice.
Ma mentre riflettevo fino a che punto il denaro la fa da padrone — e come siamo tranquillamente passati come nazione e come pianeta alla guerra infinita, a solo vantaggio di chi ne approfitta — ha visto una luce di speranza venire dalla direzione più inaspettata.
Si chiama cambiamento climatico. Si chiama disastro ambientale, crisi esistenziale, creazione di un pianeta inabitabile. Là dove il “potere dei fiori” ha mancato di cambiare il mondo mezzo secolo fa, il riscaldamento globale, la fusion delle calotte polari e il livello degli oceani in aumento — pur se non cancelleranno la civiltà — finiranno per privare il denaro del suo potere di sfruttare il pianeta e fare quel che vuole. Il cambiamento è in arrivo, indipendentemente da quanti lobbisti del duo industria e difesa stiano tentando di plasmare le politiche nazionali.
Può darsi che il cambiamento climatico la “vinca”, ma pur così null’altro, per quanto posso dire, ha il potere di costringere l’umanità a pensare così nettamente fuori “dal seminato” — col che intendo oltre i confini nazionali — e iniziare a passare a una consapevolezza planetaria.
Ecco dove stiamo oggi, come riflesso nei tweet di Donald Trump:
“Così interessante vedere Parlamentari Democratiche ‘Progressiste’, originariamente provenute da paesi i cui governi sono una catastrophe fatta e finita . . . dire adesso ad alta voce e malignamente alla gente degli Stati Uniti, la più grande e potente Nazione sulla terra, come debba essere gestito il nostro governo. Perché non se ne tornano ad aiutare a sistemare i luoghi a rotoli e infestati dal crimine da cui sono venute?”
Questo, ovviamente, è il president che infuria contro quattro parlamentari neoelette — Alexandria Ocasio Cortez, Ayanna Pressley, Rashida Tlaib e Ilhan Omar — che hanno il coraggio di confrontarsi con lui e spinto per una sensata politica ambientale detta il New Deal Verde. Il suo sbraitare rivela in modo quanto mai appariscente il suo pensiero coatto, intrappolato nei confine del razzismo e del nazionalismo, appunto la mentalità che ha animato 500 anni di dominazione e sfruttamento occidentali.
Trump parla e twitta alla faccia delle regole emerse negli ultimi 50 anni, ossia di correttezza politica, il cui scopo è nascondere lo sfruttamento globale, il trarre profitto dalle guerre e la morte della democrazia, dietro una storia di copertina farcita di cliché di rispetto per chiunque.
L’ipotesi taciuta dietro tale cliché è che i confini nazionali sono essenziali all’aspetto del pianeta quanto gli oceani, i fiumi e le montagne. Gli esseri umani sono definiti dalle nazioni in cui vivono e tutti i problemi che affrontiamo vengono trattati o entro i nostri confini o in uno stato di unità nazionale in violenta opposizione al comportamento di una nazione “straniera”.
Ma il cambiamento climatico è un fenomeno non affrontabile con tale mentalità ristretta, anche se è così che ne comincia la discussione. L’economista Joseph Stiglitz, per esempio, scrivendo il mese scorso sul Guardian, osservava che il temine New Deal Verde onora la possente risposta di F.D. Roosevelt alla Gran Depressione degli anni 1930 — il New Deal, appunto — ma faceva notare: “Un’analogia anche migliore sarebbe la mobilitazione del paese per combattere la 2^ guerra mondiale”.
“I critici chiedono: ‘Possiamo permettercelo?’… Sì, possiamo, con le giuste politiche fiscali e la volontà collettiva. Ma ancor più importante è che dobbiamo permettercelo. L’emergenza è la nostra terza guerra mondiale. Sono in gioco le nostre vite e la nostra civiltà, così come la conosciamo, proprio come lo erano nella 2^ guerra mondiale.”
Benché questo sia assolutamente vero, Stiglitz non va alle estreme conseguenze: non riflette su che cosa significhi che questa non sia una “guerra” contro qualcosa o qualcuno salvo le conseguenze naturali del comportamento distruttivo: comportamento alle fondamenta della civiltà occidentale, se non globale. Combattere questa guerra è tanto una questione di smobilitazione — invertire il corso delle azioni, riducendo la nostra impronta di carbonio — quanto mobilitare la produzione di energia verde e ricostituire la società attorno a una coscienza verde.
E una parte seria di questa nuova consapevolezza dev’essere affrontare che cosa vuol dire vivere come parte di una comunità globale in pericolo per le conseguenze del comportamento umano sfruttatorio. Questa non è una mera astrazione morale, qualcosa da fare perché giusta e buona. Noi spariremo come specie se non lo facciamo — indifferentemente a quanto denaro abbiamo.
Dobbiamo cominciare a riverire l’intero pianeta, davvero, pensandolo come un solo pianeta, e riconoscendo valore alla gente su ambo i versanti dei confini. Siamo tutti uguali. A un certo punto, anche i profittatori di guerra e i politici che essi ritengono di possedere devono rendersi conto di questo.
Robert C. Koehler è un giornalista di pace e scrittore accreditato a livello nazionale, vincitore di riconoscimenti, con sede a Chicago. Il suo libro Courage Grows Strong at the Wound[II coraggio si rafforza con la ferita] (Xenos Press) è ancora disponibile. Contattabile a koehlercw at gmail.com.
TMS PEACE JOURNALISM, 22 Jul 2019 | Robert C. Koehler | Common Wonders – TRANSCEND Media Service
Titolo originale: Fighting Climate Change Means Ending War
Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis