Tra mille
incognite e altrettanti interrogativi, il governo
Maduro e l’opposizione guidata da Juan Guaidó hanno
deciso che «il negoziato continuerà», allo scopo di
«giungere a una soluzione concordata nel quadro delle
possibilità offerte dalla Costituzione».
Il terzo
round negoziale, svoltosi alle Barbados, si è infatti
concluso il 10 luglio con la costituzione di un tavolo
permanente di dialogo, che, ha annunciato il ministero
degli Esteri della Norvegia, «lavorerà in modo
continuo e veloce». E se non è ancora nota la data dei
prossimi colloqui, è previsto però «che le parti
realizzino consultazioni per procedere sulla via del
negoziato».
Massimo
riserbo sui contenuti delle discussioni: l’unica cosa
certa è che i temi in agenda sono sei e che, al di là
del «clima costruttivo», le posizioni restano
distanti. «Non sarà semplice, è un cammino che
richiede molto lavoro», ha affermato il governatore
dello stato di Miranda e membro della delegazione
governativa Héctor Rodríguez. Ma, ha aggiunto, «ho la
sensazione che si possa giungere a un accordo di
governabilità in cui le parti si riconoscano
mutuamente».
Nessuna
sensazione ha espresso invece, a nome della
controparte, il secondo vicepresidente dell’Assemblea
nazionale Stalin Gonzáles: «I venezuelani hanno
bisogno di risposte e di risultati. La nostra
delegazione promuoverà consultazioni per avanzare nei
colloqui e porre fine alla sofferenza del popolo».
Ma è
proprio l’atteggiamento dell’opposizione a suscitare
dubbi e interrogativi. Essendo Guaidó telediretto da
Washington, è impensabile che si stia muovendo in
autonomia, tanto più dovendo far fronte alle aspre
critiche di consistenti parti dell’opposizione e
persino all’accesa contrarietà del segretario generale
dell’Oea Luis Almagro, convinto che il dialogo
rafforzi Maduro e indebolisca l’autoproclamato
presidente ad interim.
Ma se, di
conseguenza, la domanda che sorge spontanea è a che
gioco stiano giocando gli Stati uniti, la risposta non
può ovviamente prescindere da quello che resta
l’obiettivo irrinunciabile dell’amministrazione Trump
rispetto al Venezuela, cioè rovesciare Maduro.
Che ciò possa avvenire per via negoziale, magari
attraverso la convocazione di nuove elezioni
presidenziali, ancor più senza la partecipazione del
presidente bolivariano, appare però inverosimile: se
l’idea che il governo accetti di tornare alle urne è
già di per sé abbastanza remota – «impossibile» l’ha
addirittura definita Diosdado Cabello – è totalmente
da escludere un’eventuale rinuncia di Maduro a
ricandidarsi. E per gli Stati uniti il rischio che il
presidente bolivariano possa risultare di nuovo
vincitore – pur con un altro Consiglio nazionale
elettorale e una massiccia presenza di osservatori
internazionali – sarebbe forse troppo alto.
Sullo
sfondo rimane così il timore di un nuovo fallimento,
dopo quello del negoziato condotto a inizio 2018 nella
Repubblica Dominicana, quando, tra lo sconcerto dei
mediatori, la destra mandò all’aria all’ultimo minuto
l’accordo faticosamente raggiunto con il governo,
complice una tempestiva telefonata proveniente dalla
Colombia in contemporanea con la visita nel paese
dell’allora segretario di Stato Usa Rex Tillerson.