In risposta a Maurizio ed Elio.
L'articolo che ho postato non è datato: l'ho scelto per inviarlo in
giro tra i tanti che mi sono saltati fuori scartabellando archivi
miei e in rete, appena ho saputo della morte di Giorgio Nebbia. Non
credo sia più recente del 2001-2002.
Un articolo più recente (2017) lo trovate al link
http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=27895 ripreso dal sito
Eddyburg.
Giorgio Nebbia, assieme a Cristaldi e molti altri, lo ricordo in
Scienziate e scienziati contro la guerra, gruppo informale nato a
seguito dei bombardamenti Nato sulla Jugoslavia, dai cui lavori di
inchiesta e denuncia sono poi uscite pubblicazioni come Metallo del
disonore e Menzogne di guerra e molto altro. Gruppo all'epoca fuori
dal coro, come lo furono quelli che dissentirono alla costruzione
della Bomba, con tutto il rispetto per Einstein e compagni.
In rete di Nebbia trovate un sacco di materiale.
Jure
Il 05/07/19 10:52, maurizio marchi (via
disarmo Mailing List) ha scritto:
quando è datato questo memorabile articolo del caro
Giorgio Nebbia ?
Ciao Nebbia, io ti ricordo con questo tuo articolo (in link
e in chiaro sotto il messaggio di Valpiana).
"Nel nome del profitto"
http://www.fondazionemicheletti.eu/contents/documentazione/archivio/Altronovecento/Arc.Altronovecento.05.02.pdf
Jure Eler
Il
05/07/19 01:27, Davide Bertok ha scritto:
Salve,
è mancato Giorgio Nebbia, che è stato una figura
importante nella storia del pacifismo italiano.
Mao Valpiana lo ricorda così.
Davide
-------- Messaggio Inoltrato --------
GIORGIO NEBBIA
Una vita lunga più di 93 anni, dedicata allo studio,
all'insegnamento e all'impegno sociale e politico. Una
mente vivace, un carattere affabile, una gentilezza
innata.
L'abbiamo conosciuto nel 1977, nel corso della
preparazione del primo convegno nazionale, a Verona, per
il lancio del movimento antinucleare italiano ("Energia
nucleare, energie alternative, nuovo modello di
sviluppo", aprile 1977, promosso dal Movimento
Nonviolento).
Giorgio Nebbia, con Gianni Mattioli, Massimo Scalia,
Alberto L'Abate, Tonino Drago, Giannozzo Pucci, Enzo
Tiezzi, fu immediatamente disponibile. Venne e ci fu
subito chiaro che era un maestro, capace di coniugare
l'ecologismo scientifico con la necessità della
giustizia sociale, il rigore tecnico con la spinta
utopica: ambientalismo, storia, cultura, marxismo,
nonviolenza, religiosità, in lui si mescolavano e
trovavano sintesi. Ricordo che fu Pietro Pinna a darmi
il contatto di Giorgio Nebbia. Mi disse, con la sua
concisione essenziale: "È tanto bravo, è un nostro
amico". Significava che Nebbia era un iscritto al
Movimento Nonviolento, ed infatti continuò ad esserlo, e
fino alla fine abbonato ad Azione nonviolenta, per la
quale non fece mai mancare i suoi contributi scritti,
anche negli ultimi anni. Siamo sempre rimasti in
contatto, e anche se sono passati più di 40 anni,
l'amicizia e la stima sono rimaste intatte e
freschissime.
Si dice che "ogni anziano che muore è una biblioteca che
brucia". Nel caso di Giorgio Nebbia perdiamo l'immensa
biblioteca della sua umanità ed esperienza. Ma ci
restano i suoi libri, i suoi scritti, le sue lezioni,
che i giovani e giovanissimi faranno bene a studiare,
per scoprire il mondo complicato che Giorgio Nebbia ha
saputo studiare e farci capire.
--
XXXXXXXXXXXXXXXXX
Nel
nome del profitto
Giorgio Nebbia
Ieri
Ieri
gli abitanti del paese di Profittopoli si sono svegliati
con la notizia che la carne non è più sicura, che
può essere portatrice di malattie che colpiscono il
cervello e i centri motori, come quella
chiamata BSE, che dovranno stare attenti alla carne che
usano. Ma come ? La
carne, quell’alimento ricco di proteine il cui
uso, il cui crescente uso, è apparso da decenni come
il segno della liberazione dalla povertà nutritiva
dei cereali e dei vegetali ? Addirittura
gli italiani rischiano di dover rinunciare
all’adorata bistecca alla fiorentina ? Possibile?
Possibile e anzi certo. Per un qualche motivo apparentemente
ancora poco chiaro, nelle proteine di alcune
parti di alcune mucche si è insediata una sequenza di
amminoacidi anormale, chiamata prione.
Quando questo prione entra in circolo le mucche
presentano una malattia che colpisce il cervello, a
quanto pare trasferibile agli umani che si nutrono
della carne di tali bovini. La scoperta
risale alla metà degli anni ottanta e sembrava che la
malattia fosse localizzata in Inghilterra
dove sono state uccise decine di migliaia di mucche
(portatrici o sospette portatrici) della
malattia. Ma, in epoca
di globalizzazione, il canale della Manica non è
una barriera sufficiente per evitare la
propagazione della malattia in altri paesi.
La carne che
arriva sulle nostre mense è il risultato di un ciclo
produttivo quasi industriale, a carattere planetario.
Nei paesi in cui sono disponibili grandi
estesi pascoli erbosi, i bovini sono allevati all’aria
aperta, ma questa pratica è troppo lentae troppo
costosa per allevatori che hanno fretta di far
crescere gli animali e di venderli: si è così sviluppata
una zootecnia in cui gli animali sono tenuti in
spazi ristretti, alimentati con mangimi al più basso
costo possibile, tenuti più fermi possibile, perché
ogni movimento fa diminuire il peso dell’animale
da vendere. Pratiche da decenni oggetto di
critiche non sul piano etico, del benessere degli
animali, ma perché comportano l’uso di antibiotici per
evitare malattie che farebbero diminuire le
vendite, di ormoni che accelerano la crescita e
trattengono una maggiore quantità di liquidi
all’interno dell’animale. Antibiotici, ormoni e altri
additivi possono passare nel corpo dei consumatori
per cui, dopo lunghe lotte, ne è stato vietato
l’uso che però in parte continua in modo fraudolento
e clandestino. Quando
arriva l’età della macellazione, i bovini vengono uccisi
e ne vengono separate le varie parti. Viene
staccata la pelle che alimenta il ciclo produttivo
dell’industria della concia che fornisce
pelli e cuoio; viene ricuperato il sangue che viene
essiccato e in parte usato come concime,
ricco di azoto; vengono separati i grassi, che in
parte possono essere sottoposti a trattamenti
per ricavarne grassi industriali; vengono separate
le ossa che possono essere trattate chimicamente
per ricuperarne sostanze ricche di fosforo,
anch’esse utilizzabili come concimi. 2 Allevamento
e macellazione sono tutte operazioni che comportano
inquinamenti dell’aria e delle acque. Le parti
adatte alla produzione della carne sono poi
trasportate nelle macellerie nelle quali avviene
un’ulteriore separazione delle frazioni di “carne”
destinata all’alimentazione umana e restano
varie parti che in qualche modo vengono riutilizzate,
per lo più sotto forma di scarti di basso valore
commerciale. Eppure le frazioni dei carnicci, del
sangue, delle ossa, gli scarti sono ricchi di
sostanze proteiche, sali e grasse che potrebbero
essere usati, se non proprio per l’alimentazione
umana, almeno per l’alimentazione del bestiame,
in aggiunta ai mangimi vegetali i quali
forniscono, si, proteine e sostanze caloriche, usando
però i costosi mais, soia, erba medica essiccata. Perché
quindi non ricuperare, come suggerisce l’ecologia, anche
gli scarti della macellazione, essiccandoli,
macinandoli e trasformandoli in farine, ricche di
proteine, da addizionare ai mangimi
vegetali? È vero che i bovini sono, a rigore, animali
erbivori, ma che cosa volete che ne sappiano se
nei mangimi ci sono anche residui essiccati di
altri animali, dei loro babbi e figli? Il ciclo è
così molto più efficiente: i macellatori e i
macellai riescono a vendere gli scarti con maggiori
profitti rispetto ai destini meno nobili; gli
allevatori riescono a far aumentare di peso gli animali
utilizzando le meno costose farine animali e tutti sono
felici. Fino a
quando qualcuno non ha scoperto la storia dei prioni e
ha avuto il sospetto, poi la certezza, che quel
ben-di-dio, dal punto di vista del profitto, di scarti
animali, potesse far ammalare i boviniche se ne
nutrono, rendendoli immangiabili e invendibili.
Davanti al fondato pericolo che la malattia
della BSE potesse passare, attraverso la carne, negli
esseri umani, sono crollate le vendite di
carne e sono aumentati vincoli e divieti. L’avidità
privata ricadeva così non solo sulla collettività,
ma sugli stessi soggetti avidi. A questo
punto le autorità governative si sono rese conto che
nessuno sa esattamente chi importava
farine animali per mangimi, con quali scarti di
macellazione erano state fatte, in quali momenti
della catena venivano trasmessi i prioni agli animali
da allevamento, da dove venivano gli animali
destinati alla allevamento e alla macellazione. E non si sa
neanche da dove viene la malattia, quando e come la
malattia viene trasmessa agli umani e da
chi. Improvvisamente è stato necessario organizzare
in fretta e furia controlli per la ricerca dei
prioni negli animali, nei mangimi, nella carne in
commercio. Sono state emanate frettolose
leggi a livello europeo e nazionale, sotto la
pressione di interessi settoriali, degli allevatori
che cercano generosi risarcimenti statali per i
mancati guadagni, dei macellai che hanno visto
diminuire le vendite, perfino dei ristoratori che temono
di non poter fornire ai clienti i prelibati
piatti tradizionali. E del resto gli allevatori, i
macellatori, i macellai, i ristoratori hanno operato,
secondo le leggi dell’economia capitalistica, del
libero mercato, per assicurarsi il massimo
guadagno: non era loro dovere guadagnare di meno per
evitare la diffusione di malattie fra i
cittadini. Evitare la
diffusione di malattie avrebbe dovuto essere compito
“dello stato”, se esso operasse pro bono
publico, come
sarebbe il suo dovere.
Ma i governi, nazionali, europei,
globali, pensano a tutelare
ben altri interessi, oggi come ai tempi di Marx, e
le leggi mostrano ”la massima delicatezza
verso ogni commerciante che cerca di guadagnare
qualche meritato soldo mediante la compravendita
di merci sofisticate. Il libero commercio
significa commercio di materiali 3 sofisticati,
con quella specie di ”sofistica” che sa fare nero
del bianco e bianco del nero, meglio diProtagora, e
sa dimostrare ad oculos che ogni
realtà è pura apparenza, meglio degli Eleati”. E lo si è
visto con i governanti che non sapevano quello che
era noto da anni (ma ai ministri i funzionari
non dicono mai niente ? e agli eurocrati che vagano
da Roma a Bruxelles nessuno racconta mai
niente ?); lo si è visto con le strutture di
controllo chimico e biologico prese di sorpresa,
incapaci di parlare e di dire la verità ai cittadini
e agli stessi operatori economici - governanti
che hanno scoperto, quando qualcuno ha messo gli
occhi nel settore delle carni, frodi e
inadeguatezze, e poi ritardi o silenzi nelle stesse strutture
scientifiche nel quinto paese industriale
del mondo. Sono state
smantellati e dispersi i vecchi laboratori di
controllo delle attività che influenzano la salute
pubblica; i controlli sulle merci e sugli alimenti sono
stati dispersi fra laboratori dipendenti dalle
aziende sanitarie, dalle polizie, dall’ambiente, dalle
regioni, dall’agricoltura. Ma anche le università
dove erano mentre si stava addensando la tempesta
esplosa in questi mesi ? E uno.
L’altroieri
Ieri l’altro gli abitanti del paese di Profittopoli si sono
svegliati con la notizia che alcuni loro figli, impiegati
nelle guerre di pace - curiosa contraddizione in
termini - in Bosnia e Kosovo sono stati esposti a
polveri radioattive e tossiche dovute ai nuovi
straordinari proiettili contenenti uranio impoverito
usati dall’esercito americano. Ne parlo qui
perché si tratta di una storia merceologica simile
a quella della mucca pazza. L’uranio è
la materia di base per la fabbricazione dei
“combustibili” per le centrali nucleari e dell’”esplosivo”
per le bombe atomiche. L’uranio naturale, un
metallo presente in natura in molte rocce, sotto
forma di sali o ossidi, esiste in vari isotopi,
atomi con uguale comportamento chimico, ma
con una struttura diversa del nucleo; i principali
isotopi sono l’uranio-238, con 92 protoni
(sono loro che “governano” il comportamento chimico
dell’atomo) e 146 neutroni, e l’uranio-235,
con i soliti 92 protoni ma solo 143 neutroni. Se si
“bombardano” dei nuclei di uranio con neutroni, i due
isotopi si comportano diversamente: l’uranio-238,
ma solo in particolari condizioni, ingloba un
neutrone e si trasforma nell’elemento nettunio che
a sua volta si trasforma nell’elemento plutonio.
L’uranio-235 assorbe più facilmente i neutroni e
subisce una “fissione”, come si suol dire,
trasformandosi in due nuclei più piccoli e in vari
neutroni e liberando enormi quantità di calore. Calore che
può essere ricuperato e trasformato
in elettricità commerciale vendibile, come avviene
nelle centrali nucleari, o che può essere fatto
liberare in forma esplosiva e devastante, come
avviene nelle bombe atomiche. L’unico
inconveniente sta nel fatto che l’uranio-235 è presente
nell’uranio naturale in piccola quantità,
solo 7 atomi rispetto a 993 atomi di uranio-238: le
centrali nucleari funzionano soltanto se i
neutroni bombardano dell’uranio nel quale l’isotopo-235 è
in concentrazione di almeno 30 atomi per
mille; le bombe nucleari richiedono uranio contenente
circa 900 atomi di uranio-235 per mille. 4 Poiché la
prima applicazione ”merceologica” dell’uranio è stata
la fabbricazione delle bombe atomiche, a
partire dal 1942 sono stati messi in funzione
giganteschi impianti industriali per la separazione
dei due isotopi. Si tratta di far passare un gas
costituito da fluoruro di uranio attraverso
degli enormi setacci con fori piccolissimi;
attraverso tali fori passa “più facilmente” l’uranio-235,
quello utile, che è “un po’ più piccolo” come
dimensione, di quello 238. Dopo innumerevoli
passaggi si ottiene, alla fine, una corrente di
uranio “arricchito” in cui è presente una maggiore
quantità di uranio-235, e un residuo di uranio
“impoverito” costituito in prevalenza da
uranio-238. Nel corso di
mezzo secolo si sono accumulate centinaia di
migliaia di tonnellate di uranio ”impoverito”
come sottoprodotto e scoria degli impianti di
diffusione gassosa. Altro uranio impoverito è
stato ottenuto dal trattamento del combustibile
che deve essere estratto dalle centrali nucleari
ogni pochi mesi di funzionamento. In tale combustibile
“irraggiato” è presente uranio-238 insieme
a piccole quantità residue di uranio-235,
contaminato da plutonio, da altri elementi transuranici
e dai prodotti di fissione, tutti altamente
radioattivi.
Per molti anni questo “combustibile”
usato è stato sottoposto a processi di
estrazione chimica per ricuperare il plutonio, utile per la
costruzione di altre bombe atomiche, ma ormai di
bombe atomiche nel mondo ce ne sono tante
che anche il plutonio si vende poco . È un delitto
buttare via tutti questi residui di uranio-238,
dopo aver fatto tanta fatica e aver spesotanti solidi
per l’estrazione del minerale, la sua purificazione,
l’arricchimento, eccetera: perché non
riciclarlo, sempre come suggerisce l’ecologia? “Per
fortuna” le fertili menti degli ingegneri militari
hanno scoperto che l’uranio, anche quello “impoverito”,
molto pesante (pesa quasi il doppio del
piombo, quasi come il più costoso tungsteno), quando
urta ad alta velocità un corpo metallico
(per esempio la corazza di un carro armato), sviluppa
un’altissima temperatura alla quale
l’uranio si ossida e si incendia facendo fondere la
corazza e bruciando i soldati dentro il carro
armato.
Ecco quindi un “utile” impiego per riciclare
l’uranio impoverito - promosso a merce
oscena, di morte, il “metallo del disonore”, secondo il
titolo di un recente libro - come componente
dei proiettili per cannoni e missili.
Il primo impiego dell’uranio impoverito si è avuto su larga
scala, da parte degli Stati uniti, nella guerra del
Golfo nel 1991 (ne sono state usate circa 500
tonnellate), poi in Bosnia nel 1995 e, nel 1999, è
stato usato nella Serbia e nel Kosovo dalle forze Nato.
La guerra è sempre terribile e ciascun paese, per vincere, deve uccidere i
soldati nemici e distruggere
le armi nemiche e i beni nemici: nell’intero secolo
passato le guerre hanno sterminato i nemici al
di là di ogni ragionevole necessità, hanno ucciso e
dilaniato i corpi di centinaia di milioni di
civili inermi, hanno usato le armi più raffinate per
arrecare dolore e morte. Se si escludono le
contaminazioni, della durata di secoli, con scorie
radioattive conseguenti le esplosioni
di bombe atomiche, e quelle delle giungle del
Vietnam con pesticidi persistenti inquinati da
diossina, finora le armi impiegate in guerra hanno
danneggiato e devastato soldati e civili senza
compromettere le future condizioni ecologiche dei
territori di guerra. Le polveri
di ossido di uranio che si spargono sui carri armati
e sugli edifici colpiti da bombe all’uranio
impoverito ricadono al suolo e lì restano per
sempre. Nel territorio contaminato passano sia
i soldati vincitori, sia gli abitanti quando
tornano alle loro case e ciascuno assorbe dal5 suolo e
respira una parte della polvere di uranio con danni
alla salute che durano per decenni e si cominciano a
riconoscere soltanto adesso. Solo di
recente è stato accertato che nella guerra del Golfo
(1991) il terreno dei combattimenti è stato
contaminato da 300 mila chilogrammi di finissima polvere
di ossido di uranio e che da anni i reduci
della guerra hanno manifestato delle misteriose
malattie (la sindrome del Golfo); però fino al
gennaio 1998 il ministero della difesa americano ha
negato che circa 90 mila soldati americani
siano stati esposti alla polvere di uranio impoverito
velenosa e radioattiva. Nella ricca America i
veterani possono fare causa al loro governo, e
chiedere indennizzi e risarcimenti (alcuni
soldati si trovavano entro carri armati che sono stati
colpiti con proiettili all’uranio lanciati per
errore da cannoni del loro stesso esercito). Ma
chi aiuterà a riconoscere le malattie, dovute ad
una così subdola causa, quando compaiono negli
abitanti dell’Iraq meridionale, o agli abitanti
della ex-Jugoslavia, tornati nelle loro terre; chi li
aiuterà a guarire? Una
fotografia diffusa anche da Internet mostra dei bambini che
in Kosovo giocano su un carro armato
distrutto da un proiettile all’uranio impoverito e
coperto dalla polvere dell’arma micidiale: chi sono
quei bambini, che sarà della loro salute ? Che sarà
della salute di tutte le vittime di questo altro
“brillante” frutto dell’economia industriale che
non pone freno, se si tratta di risparmiare
nelle forniture militari, ai danni sulla salute e
la vita di persone inermi?
In Italia il problema è scoppiato perché qualcuno ha denunciato
le possibili malattie, dovute all'uranio
impoverito, in reduci delle missioni militari in
Bosnia e Kosovo. Ricordate lo sbalordimento
di ministri e generali? Non sapevano, nessuno,
neanche gli alleati Nato, li aveva informati, o
forse si; se qualcosa sapevano non pensavano che
potessero essere compromesse le vite dei
soldati italiani?
Ma forse le malattie dei soldati non
dipendono dalla polvere di uranio impoverito.
Le analisi sui campi di battaglia non riescono
neanche a dire se l’uranio impoverito dei
proiettili usati in battaglia veniva dai processi di
arricchimento o dai processi di estrazione del combustibile
irraggiato delle centrali. Con tutte i
servizi segreti nessuno ha avvertito i ministri sui
pericoli delle armi usate dai loro stessi
alleati, quando tali pericoli erano descritti in
centinaia di articoli e pubblicazioni, accessibili da anni
perfino su Internet?
In una società capitalistica
nessuno tocchi il complesso militare industriale.
E due.
Il giorno ancora prima
Il giorno ancora prima di questi eventi, gli abitanti del
solito paese di Profittopoli si sono svegliati con la
notizia che gli ”scienziati” hanno scoperto il modo di
modificare vegetali e animali intervenendo
sul loro patrimonio genetico, sono cioè in grado
di ”fabbricare” nuove “cose” - esseri
viventi? Merci? - intervenendo con le “biotecnologie”
sulle basi stesse della vita. La genetica
tradizionale riesce a ottenere ibridi dall’incrocio
di piante e animali differenti, talvolta con
grandi successi; si pensi alle selezioni che hanno
permesso di ottenere ibridi di mais con una resa
per ettaro doppia, o frumento che non si lascia
abbattere dal vento, o agli incroci che hanno
permesso di ottenere mucche ad alta produzione di latte,
eccetera. 6 Ma la
biotecnologia va molto al di là di questo. La natura ha
“fabbricato”, attraverso lenti processi
evolutivi, piante e animali senza pensare che
dovessero “servire” un giorno alle fabbriche e
ai commerci, e quindi molti organismi vegetali e
animali sono “economicamente” scadenti.
Alcune piante, le leguminose, sono capaci di fissare
direttamente l’azoto dell’aria trasformandolo
in proteine, grazie a microrganismi presenti
nelle radici; altre, commercialmente preziose,
come i cereali, possono crescere soltanto portando
via azoto dai sali presenti nel terreno e per questo
richiedono l’apporto di costosi concimi, Un
vecchio sogno, che appariva fantascientifico,
immaginava di inserire nei cereali i batteri
azotofissatori in modo da evitare l’impiego di
concimi nella loro coltivazione. Le biotecnologie
vanno in tale direzione. Le
manipolazioni genetiche sono percepite in modo molto diverso
dall’opinione pubblica. L’aspetto
che ha destato maggiore interesse, e anche rigetto, è
l’idea che, con tali manipolazioni, sia un
giorno possibile “fabbricare” esseri viventi, e quindi
anche esseri umani, entro certi limiti apiacere.
Così si sono lette strane estrapolazioni fantascientifiche
sulla possibilità di riprodurre intere
falangi di ariani nazisti tutti uguali, o magari anche
di scienziati come Einstein, tutti uguali. Un secondo
aspetto riguarda l’etica: è possibile modificare
artificialmente quello che dio ha predisposto
nella sua infinita saggezza ? Poiché nessuno sa
quale sia tale saggezza, la risposta ”si” o “no”
a questa domanda resta aperta a qualsiasi opinione
o credenza personale. La
“correzione” artificiale dei “difetti” delle piante e degli
animali può essere ispirata anche a fini nobili:
l’aumento delle rese agricole potrebbe contribuire a
ridurre la fame nel mondo; la disponibilità
di piante geneticamente modificate resistenti ai
parassiti potrebbe far diminuire la richiesta di
pesticidi e i conseguenti effetti negativi sugli
ecosistemi; una maggiore resistenza dei prodotti
agricoli al degrado nei processi di trasformazione e
conservazione potrebbe facilitare il trasporto e
la durata degli alimenti. Alcune di
queste correzioni sono possibili con delicate e
costose tecniche - biotecnologiche, appunto -
“inventate” negli ultimi venti anni e che consentono
di “tagliare” dei pezzetti del patrimonio
genetico che governa i caratteri delle cellule
viventi, inserendoli nelle cellule di altre piante o
animali. Queste operazioni richiedono grandi
investimenti e possono essere fatte soltanto da industrie
specializzate, in pratica dai grandi gruppi
multinazionali dell’industria agroalimentare
e chimica. Per
proteggere dai concorrenti i risultati di tali costose
ricerche, le industrie che le hanno condotte li stanno
brevettando: chi vuole sementi resistenti, per
esempio, ad un certo parassita o ad un erbicida
dannoso, deve acquistare la conoscenza delle
rispettive procedure di manipolazione genetica da
chi le ha realizzate per primo. E si è subito posto
il problema se si può brevettare “la vita”, e se
si può accettare che una impresa industriale
diventi, di fatto, padrona esclusiva di conoscenze
da cui potrebbe dipendere la vita di milioni di
persone. C’è il rischio di un nuovo imperialismo
biologico, per cui una società o uno stato
potrebbero negare ad altri paesi la disponibilità
di piante utili o di cure per alcune malattie ?
Ancora una volta la risposta sconfina nel terreno
dell’etica e comunque vengono alla mente altri
tempi e altre persone, come i coniugi Curie che,
un secolo fa, scoprirono l’esistenza del radio e le
sue proprietà curative del cancro e si rifiutarono
di brevettare questa loro scoperta. Un secolo dopo
la ditta americana che ha analizzato il genoma
umano “patteggia” la pubblicazione delle preziose
informazioni a patto di tenerne segrete
alcune, quelle “vendibili”. 7 Quali
possono essere le conseguenze della produzione di piante
transgeniche sull’ambiente, e dell’uso di
organismi transgenici e dei loro derivati sulla
salute umana? Cultori di etica e ambientalisti
dicano pure la loro, ma il mercato risponde
positivamente: si moltiplicano gli agricoltori
che “comprano” sementi di piante transgeniche
resistenti ai parassiti, e vendono i relativi
raccolti. Le piante maggiormente coinvolte sono il
mais, la soia, le patate, i pomodori, la colza, la
barbabietola da zucchero, eccetera. Per quanto
riguarda l’ambiente, uno dei successi dell’ingegneria
genetica consiste nel produrre piante
resistenti ad un potente erbicida, il glifosato. Tale
erbicida distrugge sia le piante indesiderabili,
sia le stesse colture agricole, il che è
scomodo; la Monsanto, la società produttrice,ha così
incaricato gli scienziati di preparare delle varietà di
soia, mais, eccetera, resistenti al glifosato.
In questo modo la massiccia applicazione di
glifosato distrugge bene le piante infestanti ma non
disturba le coltivazioni delle altre piante di interesse
commerciale, una volta che siano geneticamente
modificate, per cui la società proprietaria dei
brevetti può guadagnare sia vendendo “di
più” il proprio erbicida, sia vendendo le sementi
transgeniche; l’ “unico” inconveniente
è che il glifosato, impiegato in dosi elevate,
finisce nel terreno e nelle acque e restanei vegetali
destinati all’alimentazione umana. Un altro
esempio è offerto dal mais transgenico: nelle pratiche
di agricoltura “biologica” alcuni parassiti
vengono combattuti con la tossina presente in un
batterio, il Bacillus thuringiensis, Bt, costoso e
delicato da applicare. Un’altra delle operazioni
biotecnologiche ha permesso di ottenere del mais che
porta “dentro” il proprio patrimonio genetico, le
proprietà pesticide del Bt; i parassiti
non attaccano le piante, ma c’è il rischio che la
tossina passi negli ecosistemi e negli alimenti. È possibile
che i nuovi caratteri acquisiti dalle piante
geneticamente modificate, per esempio la resistenza
ad alcuni antibiotici, vengano trasferiti agli
organismi dei consumatori, siano esseri umani o
altri organismi animali, al punto da rendere inefficace
l’impiego di tali antibiotici nel caso di
malattie ? L’uso alimentare di piante o di animali
transgenici può avere effetti nocivi sulla salute delle
persone ? dopo quanto tempo possono farsi sentire
gli eventuali effetti nocivi ? È in corso
uno scontro di giganti fra le grandi compagnie
agroalimentari e chimiche una parte e, dall’altra
parte, le organizzazioni di difesa dell’ambiente e
dei consumatori, con i governi e i parlamenti,
nazionale ed europei, presi fra questi due fuochi.
Come
è prevedibile, sono più forti e attrezzate le strutture
che “vogliono” dimostrare l’assoluta innocuità
degli ingredienti derivati da organismi transgenici.
E’ la stessa situazione che ha impedito,
per anni, di togliere dal commercio pesticidi come il
DDT o i derivati dell’acido triclorofenossiacetico
o gli oli alimentari contenenti acido
erucico o di vietare gli ormoni nei mangimi:
sono troppo pochi i laboratori che lavorano per la
difesa dei cittadini, rispetto alla gran massa di
laboratori e di “scienziati” impegnati a dimostrare
che non c’era allora, e non c’è oggi, nessun
pericolo per la salute. Davanti
comunque ad una crescente, giusta, domanda, da parte
dei consumatori, di maggiore sicurezza,
alcuni governi europei, in un primo tempo, hanno
considerato l’ipotesi di vietare le importazioni,
dagli Stati Uniti, di sementi di piante
transgeniche, una azione che avrebbe danneggiato
l’agricoltura americana e che si è dimostrata non
praticabile anche perché talvolta i semi di soia
o di mais transgenici rappresentano una frazione
di poche unità percento su enormi 8 partite di
merce. Poi è stata avanzata la proposta di vietare
la coltivazione di piante transgeniche in Europa,
ma anche questa strada è stata rapidamente
abbandonata davanti alle proteste degli agricoltori
che hanno ben presto riconosciuto i vantaggi
economici delle nuove coltivazioni. I soggetti
più importanti, ma anche più trascurati, i
consumatori, rivendicano almeno il diritto di conoscere
che cosa i loro alimenti contengono. I governi dei
vari paesi discutono la possibilità di segnalare ai
consumatori, con una etichetta, gli alimenti che
contengono ingredienti derivati da prodotti
transgenici e in questo caso il consumatore li
sceglierà o eviterà sulla base di proprie considerazioni,
di prezzo, di maggiore o minore convinzione
della loro innocuità. La presenza
di semi di mais o di soia o di pomodoro,
geneticamente modificati, nelle partite che entrano nei
vari cicli produttivi agroindustriali è, entro
certi limiti, riconoscibile; è possibile riconoscere
la presenza di un seme transgenico anche fra mille
o anche diecimila semi normali. I problemi si
fanno più complicati quando si tratta di
ricostruire la “storia naturale” dei derivati, per esempio
delle farine, o della lecitina, o di un grasso,
estratti da mais o soia transgenici e per ora i
governi pensano di imporre l’etichettatura al più agli
alimenti transgenici quando sono facilmente
riconoscibili per via analitica, mentre sarebbero
esenti da etichettatura i derivati di organismi
transgenici quando sono “sostanzialmente equivalenti”
ai loro omologhi tradizionali. Una
definizione generica e abbastanza equivoca che esenta dalla
etichettatura molti prodotti di cui al
consumatore potrebbe comunque interessare di conoscere
l’origine. Ma se un
alimento non porta alcuna indicazione, o addirittura
se, come si comincia a fare, per motivi
pubblicitari, un alimento è presentato come “esente” da
derivati di organismi geneticamente
modificati, quali garanzia ha il consumatore
sull’origine dei vari ingredienti ? In questa
confusione e davanti a difficoltà anche analitiche
che credibilità può avere l’affermazione
che una merendina o una maionese o una conserva
di pomodoro non contiene derivati di
piante transgeniche, quando non si è in grado di
garantire l’origine delle lecitine, dei grassi,
delle farine, dell’amido, dei pomodori, dello zucchero,
eccetera, presenti nei vari alimenti? Chi fabbrica
dolciumi, paste, pane, alimenti in scatola,
eccetera, acquista materie prime da produttori
che a loro volta hanno trattato altre materie prime
acquistate da altri ancora, che a loro volta hanno
acquistato mais o soia o pomodori da agricoltori o
importatori. Per sventare
le possibili frodi per i consumatori assume ancora
maggiore importanza la disponibilità
di metodi analitici in grado di svelare le
modificazioni genetiche e di laboratori in grado di
applicare tali metodi in modo affidabile e
convincente; la svolta merceologica che stiamo
vivendo offre quindi anche nuove occasioni di
innovazione, di ricerca scientifica e di occupazione
in settori di avanguardia. E ritorna la
domanda già fatta poco fa: come possono essere
organizzate strutture pubbliche di controllo,
che richiedono apparecchiature sofisticate e costose
per analisi che richiedono tempo, specialisti
e che sono anch’esse costose, quando i laboratori
esistenti non riescono a sconfiggere neanche le
frodi più banali, come la sofisticazione dell’olio
di oliva con olio di nocciole ? E tre.
Domani?
Le storie di
Profittopoli potrebbero continuare se solo ci si
voltasse indietro qualche mese, qualche
anno. Piante geneticamente modificate, i cui derivati
entrano nelle merendine e nella polenta;
abusivismo edilizio con conseguente erosione del
suolo, frane e alluvioni; montagne di rifiuti;
inquinamento delle acque; frodi alimentari e
industriali; scorie radioattive sparse per l’Italia;
importazioni di metalli radioattivi; incidenti nelle
fabbriche, morti sul lavoro; navi che affondano
con i loro carichi di petrolio e di sostanze tossiche
- e poi scelte industriali imprevidenti
e miopi, con devastanti conseguenze economiche e
ambientali: incentivi a chi distrugge le
automobili o i televisori per comprarne di nuovi e
aumentare la massa dei rottami; benzine che
prima sono verdi e poi si rivelano tossiche; le
timidezze nelle campagne contro il fumo per non
disturbare le multinazionali del tabacco e lo
stesso stato venditore di veleni cancerogeni
- è possibile andare avanti così, solo per non
intralciare le leggi del libero mercato? È possibile
continuare con la divinizzazione della pubblicità,
con una società nella quale “ogni uomo si
ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno,
per costringerlo ad un nuovo sacrificio,
nella quale con la massa degli oggetti cresce la
sfera degli oggetti estranei ai quali l’uomo è
soggiogato, nella quale la potenza del denaro sta in
proporzione inversa alla massa della produzione
per cui la sua miseria cresce nella misura in cui
aumenta la potenza del denaro” ? Nessuna
soluzione tecnico-scientifica sarà efficace se non si
mette in discussione il meccanismo che alimenta
i pochi episodi ricordati e tutti gli altri: la
legge del profitto fine a se stesso. Profitto non
destinato a fabbricare merci utili agli esseri umani, non
destinato a far lavorare le persone, a liberare
dalla povertà e dalla miseria gli abitanti dei paesi
poveri e a liberare dall’alienazione gliabitanti dei
paesi ricchi. Ma profitto fino a se stesso, come
vogliono le regole del capitalismo, sempre più
arrogante quanto più è globale, quanto più riesce a
intossicare non solo il corpo ma la mente dei
suoi adoratori, nel nord, nel sud, nell’est del
mondo.
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