[Disarmo] Fwd: Haftar perde la base di Gharyan e l’appoggio russo
- Subject: [Disarmo] Fwd: Haftar perde la base di Gharyan e l’appoggio russo
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- Date: Fri, 28 Jun 2019 08:22:50 +0200
Da: Elio Pagani <eliopaxnowar at gmail.com>
Date: ven 28 giu 2019, 06:14
Subject: Haftar perde la base di Gharyan e l’appoggio russo
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Haftar perde la base di Gharyan e l’appoggio dell’alleato russo
Libia. Oltre 40 soldati uccisi e in rotta per l’attacco di droni turchi e forze di Misurata, l'offensiva lanciata il 4 aprile dal generale cirenaico su Tripoli perde il suo quartier generale
Avranno molto da discutere oggi a Roma il ministro degli Esteri italiano Enzo Moavero Milanesi e l’inviato speciale delle Nazioni Unite Ghassam Salamé sulla situazione in Libia. Salamé, solo tre giorni fa, aveva incontrato a Bengasi il generale Haftar e di seguito il suo politico di riferimento, Aguilah Saleh per sondare il terreno su come raggiungere una tregua e rilanciare il dialogo, ma da allora lo scenario della guerra – che è già costata 739 vite umane, di cui 42 civili, e 4.400 feriti secondo le ultime rilevazioni Oms – è radicalmente cambiato. Le forze di Haftar hanno subito una disfatta nella strategica cittadina di Gharyan dove avevano il loro quartier generale, comprensivo di ospedali da campo, base di rifornimento e pista di elicotteri.
L’ATTACCO è stato coordinato su tre assi, quello con cui forze misuratine della controffensiva denominata «Vulcano di Rabbia» hanno avuto ragione delle truppe del cosiddetto Esercito nazionale libico (Lna) al comando dell’anziano generale della Cirenaica nella città di Gharyan a 90 chilometri dalla capitale. In base alla ricostruzione più plausibile, mentre erano in corso i combattimenti frontali tra Lna e forze di Misurata, gruppi di cecchini hanno iniziato a sparare alle spalle dell’Lna, dal centro urbano, e contemporaneamente si sono interrotti i collegamenti con il comando del generale Abdul Saleh al Hassi. I soldati del Libyan national army si sono confusi, senza ordini precisi, attaccati su due fronti, a quel punto è sopraggiunto un terzo attacco dal cielo ad opera dei droni di cui la Turchia ha rifornito le forze fedeli al «governo di accordo nazionale» del premier Serraj. Le truppe di Haftar hanno subìto pesanti perdite, si parla di 35 soldati uccisi negli scontri a fuoco di mercoledì a Gharyan più altri dieci persi durante la ritirata e di almeno altri 15 fatti prigionieri.
ESALTATO dalla vittoria, il portavoce delle forze di Misurata che dal 4 aprile contrastano l’offensiva di Haftar, Mohamed Qannunu, ieri ha dichiarato alla tv quatariota Al Jazeera che adesso non si fermeranno «fino a Bengasi». Il premier Serraj da parte sua dice che «questo è solo l’inizio» e fa appello ai residenti di Gharyan perché collaborino a respingere gli occupanti, forte dell’appoggio già incassato del sindaco della cittadina Yusuf Badri.
Dalla parte di Haftar la sconfitta è attribuita a non meglio precisate «cellule dormienti» e al voltafaccia di ex capi di Alba nella Libia, la coalizione dei ribelli del 2011 anti Gheddafi, di cui i cirenaici si erano fidati a Gharyan. E intanto il vice comandate dell’Lna, Al Majoub, cerca di rialzare il morale dei soldati promettendo una rapida riconquista della cittadina grazie a «decine di migliaia di rinforzi».
LA VERITÀ è che la sconfitta è cocente se non ancora definitiva, l’ultima postazione su cui può contare l’Lna nei sobborghi meridionali di Tripoli è Tarouna. E intanto gli alleati russi iniziano a prendere le distanze: Lev Dengov, a capo del gruppo di contatto russo sulla Libia affida al sito Sputnik un parere non molto lusinghiero sull’intera operazione di Haftar. Per Dengov «se si vuole risolvere con mezzi politici» la situazione in Libia appare «illogico» posticipare il ritorno al dialogo a dopo la conquista di Tripoli. Non può dimenticare, tra l’altro, che proprio in questi giorni Mosca sta concludendo una partita decisiva nell’area mediorientale: la vendita alla Turchia, grande alleata anche sul piano militare del governo Serraj e di Misurata, dei nuovi sistemi antimissile S400, in aperta sfida all’amministrazione Trump e alla Nato, di cui Ankara fa ancora parte.
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