A metà maggio il governo italiano ha presentato al parlamento la relazione annuale sulla vendita di armi verso paesi stranieri (PDF), con l’usuale ritardo rispetto alla scadenza prevista dalla legge. Nella relazione sono contenute molte informazioni sulle esportazioni autorizzate nel 2018 dal governo alle aziende produttrici di armi, e sui paesi destinatari. È venuto fuori che la stragrande maggioranza dei sistemi di armamenti che esporta l’Italia è diretta verso paesi che non fanno parte né della NATO né dell’Unione Europea, ma di aree del mondo considerate molto instabili. La relazione mostra anche come finora il Movimento 5 Stelle, da sempre molto critico verso la vendita di armi italiane all’estero, non abbia voluto o non sia riuscito a cambiare le cose, allineandosi con quanto fatto dai governo precedenti.
Diverse organizzazioni esperte sull’argomento, come la Rete italiana per il disarmo, sostengono da tempo che le informazioni contenute nella relazione siano insufficienti per farsi un’idea precisa su cosa vende l’Italia e a chi. Nel documento, comunque, ci sono diverse informazioni utili che aiutano a capirci qualcosa di più.
Di che leggi si parla e chi è responsabile di cosa
In Italia, come in tutti i paesi del mondo, un’azienda che produce armi
da guerra e relativa tecnologia può esportare i propri prodotti solo
dopo avere ottenuto l’autorizzazione dal suo governo. Di mezzo, infatti,
non ci sono soltanto molti soldi, ma anche questioni di politica estera
e di sicurezza nazionale, oltre che eventuali embarghi sulla vendita di
armi imposti dall’ONU o dall’Unione Europea. Il governo italiano
concede così ogni anno le autorizzazioni alle aziende produttrici, con
tipologia di arma e destinatario: la principale società che produce armi
in Italia è Leonardo, più nota con il suo vecchio nome Finmeccanica, il
cui principale azionista è il ministero italiano dell’Economia e delle
Finanze.
La legge che regola la vendita di armi italiane all’estero è la 185/90, che è stata integrata nel 2012 con un decreto legislativo approvato per semplificare i trasferimenti di armi all’interno dell’Unione Europea e per rafforzare i controlli sulle aziende produttrici.
La legge dice alcune cose importanti: per esempio che le concessioni delle licenze per la produzione di armi «devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia» e devono rispettare «i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (il noto articolo 11 della Costituzione). In uno dei passaggi più importanti, quello che negli ultimi anni ha provocato più discussioni, si legge che l’esportazione e il transito di armi sono vietati «verso i paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite [quello che prevede il diritto di uno stato a usare la forza in caso di legittima difesa, ndr]»: ovvero sono vietati nei casi in cui il destinatario sia uno stato che ha dichiarato guerra a un altro stato per motivi diversi dalla legittima difesa.
In Italia il principale responsabile degli scambi nel settore della Difesa è il ministero degli Esteri, che però collabora anche con il ministero della Difesa, dello Sviluppo economico e con la presidenza del Consiglio. Nel 2012 è stata inoltre creata l’Autorità nazionale – UAMA (Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento), cioè un organo formato dal personale di vari ministeri e forze di sicurezza italiane incaricato di controllare alcuni aspetti dell’applicazione delle leggi sull’esportazione delle armi. In sintesi: in Italia la decisione su che armi vendere e a chi spetta al governo.
Vendiamo più o meno armi? E a chi?
Nella relazione riferita al 2018 è anzitutto confermato che l’armamento
più esportato dall’Italia sono gli elicotteri da guerra. Dei 5,2
miliardi di euro di autorizzazioni totali date nel 2018 dal governo
italiano alle aziende produttrici e esportatrici di armi, la metà (2,6
miliardi) riguarda diversi modelli di elicotteri d’attacco e multiruolo.
Al secondo posto (459 milioni) c’è la categoria «bombe, siluri, razzi,
missili ed accessori». La relazione non specifica quali armi siano state
destinate a ciascun paese, e si limita a fare una lista dei paesi che
spenderanno di più per comprare le armi italiane. Al primo posto c’è il
Qatar, con un gran margine sul secondo: il governo qatariota otterrà
armi italiane per 1,9 miliardi di euro, davanti al Pakistan e alla
Turchia, con rispettivamente 682 e 362 milioni di euro di commesse.
Nella relazione ci sono almeno tre questioni che vale la pena segnalare, ha scritto l’esperto Giorgio Beretta su Osservatorio Diritti, sito specializzato in analisi sul tema dei diritti umani in Italia e nel mondo.
Prima: nel documento si segnala che nel 2018 il valore delle autorizzazioni concesse dal governo per l’esportazione di armi è quasi dimezzato rispetto ai dati riferiti al 2017: è passato da un valore di 10 a un valore di 5,2 miliardi di euro. Questo calo potrebbe far pensare a una strategia più prudente del governo guidato da Giuseppe Conte rispetto agli ultimi di centrosinistra (governo Conte che peraltro si è insediato solo a giugno 2018). In realtà, scrive Beretta, è un calo «fisiologico», dovuto agli enormi ordini di armi ricevuti negli ultimi anni dall’Italia: «si tratta di oltre 32 miliardi di euro nel triennio 2015-2017, in gran parte per sistemi militari complessi (aerei, elicotteri, navi, ecc), la cui produzione sta impegnando e terrà impegnate le nostre aziende militari per diversi anni».
Le aziende italiane che producono armi hanno infatti lavorato a pieno ritmo anche nel 2018, fornendo sistemi militari a più di 90 paesi per una spesa complessiva di oltre 2,22 miliardi di euro.
Seconda: la grande maggioranza delle autorizzazioni riguarda armi che finiranno a paesi che non appartengono né alla NATO (l’alleanza difensiva guidata dagli Stati Uniti e nata dopo la fine della Seconda guerra mondiale) né all’Unione Europea, ovvero le due più importanti alleanze internazionali dell’Italia: si parla del 72,8 per cento del valore totale delle autorizzazioni, una percentuale che conferma una tendenza già riscontrata negli ultimi anni e che si è confermata nel 2018 (l’ultimo anno in cui l’Italia vendette di più dentro la NATO e l’UE che fuori fu il 2015).
Tra i paesi extra NATO ed extra UE che ricevono armi italiane ce ne sono alcuni che si trovano in zone instabili del mondo: è il caso del Pakistan, che ciclicamente attraversa periodi di tensione e crisi con l’India, ma anche alcune monarchie del Golfo Persico, che seppur controllino il potere in maniera molto salda sono in mezzo alla costante competizione tra Iran sciita e Arabia Saudita sunnita (oppure vi partecipano direttamente, come nel caso degli Emirati Arabi Uniti).
La vendita di armi a paesi “a rischio”, molto lucrativa per l’Italia e non solo, è stata contestata da alcune organizzazioni che si occupano di pace e disarmo, ma finora non è mai stata davvero messa in discussione da governo e aziende. Ci sono però due casi particolari che da qualche anno attirano più attenzioni di altri, e che hanno implicazioni politiche e legali rilevanti: sono quelli che riguardano Egitto e Arabia Saudita.
I casi di Egitto e Arabia Saudita
Per ragioni diverse, la vendita di armi italiane a Egitto e Arabia
Saudita è stata molto criticata negli ultimi anni: nel primo caso per l’omicidio di Giulio Regeni,
compiuto dalle forze di sicurezza egiziane; nel secondo per l’uso che
l’Arabia Saudita continua a fare delle bombe italiane in Yemen, dove è
in corso dal 2015 un conflitto molto violento e una crisi umanitaria gravissima.
Per quanto riguarda l’Egitto, il dibattito attorno alla vendita di armi è più un tema politico che legale.
Nel 2018 l’Italia ha autorizzato sei nuove esportazioni di sistemi militari dal valore di oltre 69 milioni di euro, rendendo il regime egiziano il terzo acquirente assoluto di armi italiane tra gli stati extra NATO ed extra UE. La decisione di concedere nuove autorizzazioni per armi destinate all’Egitto è stata accolta con grande frustrazione da tutti coloro che si aspettavano una qualche forma di ritorsione dell’Italia per l’uccisione di Regeni, soprattutto dopo la quasi totale inazione diplomatica degli ultimi tre anni. C’è inoltre da considerare che il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha progressivamente trasformato l’Egitto in un paese molto autoritario e repressivo: c’è quindi il rischio che alcune delle armi e tecnologie vendute al regime egiziano – tra cui armi leggere e apparecchiature per la direzione del tiro – possano essere usate per la repressione interna contro i dissidenti.
Il discorso per l’Arabia Saudita è un po’ diverso, e più complicato.
Negli ultimi anni diverse indagini e inchieste giornalistiche, tra cui una del sito Reported.ly e una del New York Times, hanno dimostrato che bombe costruite dall’azienda RWM, di proprietà tedesca ma con sede in Sardegna, sono state impiegate dal regime saudita nella guerra in Yemen, spesso contro i civili. Secondo alcuni esperti e attivisti, le attività di RWM sarebbero illegali, perché la legge 185/90 vieta all’Italia di vendere armi a un paese in guerra, a meno che non stia combattendo per legittima difesa (e non è il caso dell’Arabia Saudita). Questa è stata per diverso tempo anche la posizione del M5S. La situazione è diventata ancora più intricata con l’omicidio del giornalista e dissidente saudita Jamal Khashoggi, ucciso nel consolato saudita a Istanbul lo scorso ottobre, su ordine del regime di Riyadh. Dopo la morte di Khashoggi, diversi paesi europei, tra cui la Germania, hanno sospeso la vendita di armi ai sauditi, come ritorsione: non l’Italia.
Da un punto di vista legale, i governi italiani hanno sempre trovato escamotage per non incappare nei limiti della legge 185/90, sfruttando alcune zone grigie del conflitto: per esempio sostenendo che non si potesse parlare di conflitto vero e proprio, visto che i sauditi sono intervenuti in Yemen senza una dichiarazione formale di guerra, oltretutto per sconfiggere non un altro stato ma un gruppo di ribelli (la questione è stata spiegata più estesamente da Pagella Politica, qui). Il dubbio sulla legittimità e/o legalità dell’azione italiana però è rimasto, soprattutto dopo gli inviti del Parlamento europeo di non vendere armi all’Arabia Saudita e dopo la diffusione del rapporto dell’ONU che parlava di possibili «crimini di guerra» compiuti con le bombe saudite, incluse quelle costruite in Italia.
Ma non dovevano cambiare le cose con il Movimento 5 Stelle?
Per anni il M5S è stato molto critico verso i governi di centrosinistra
che autorizzavano l’esportazione di armi italiane all’Arabia Saudita,
accusandoli di «sporcarsi le mani di sangue». Una volta arrivato al
governo, però, il Movimento non ha avuto la volontà o la forza per
cambiare le cose.
Nella relazione sulla vendita di armi non risultano provvedimenti del governo per fermare le esportazioni di armi verso l’Arabia Saudita, che nel 2018 hanno raggiunto un valore di 108 milioni di euro (PDF). Il governo italiano ha inoltre concesso 11 nuove autorizzazioni, per un valore totale di più di 13 milioni di euro. Ma non c’è solo questo.
Alcune organizzazioni impegnate nel monitorare le esportazioni italiane di armi, come Rete italiana per il disarmo, hanno accusato il governo Lega-M5S non solo di non avere fatto nulla per rivedere le politiche dei precedenti governi di sinistra, ma anche di avere provato a incentivare nuove vendite. All’inizio di gennaio, infatti, è salpata dal porto militare di La Spezia la fregata della Marina militare Carlo Margottini, per una specie di “tour promozionale” dell’industria bellica italiana nei paesi del Golfo Persico. La decisione è stata molto criticata anche perché nel 2013 il M5S era stato una delle voci più dure contro l’allora governo Letta che aveva inviato nei paesi arabi una flottiglia di navi da guerra italiane capitanata dalla Portaerei Cavour, un tour pensato per vendere armi e sistemi militari alle monarchie del Golfo.
Il 7 febbraio 2019 Gianluca Ferrara, senatore del M5S, ha presentato un disegno di legge per modificare la legge 185/90: tra le novità che Ferrara vorrebbe introdurre c’è un fondo «destinato allo sviluppo di progetti di riconversione di attrezzature militari per scopi di pubblica utilità», il divieto di vendita ai paesi che non hanno firmato il Trattato sul commercio delle armi, approvato in sede ONU nel 2013, e il blocco delle esportazioni anche di armi leggere.
Come hanno però osservato alcuni esperti, tra cui Giorgio Beretta dell’Osservatorio Diritti, il governo avrebbe già oggi la possibilità di fermare le esportazioni di armi verso l’Arabia Saudita, senza necessità di cambiare la legge: sarebbero sufficienti un’interpretazione diversa della legge 185/90 e una maggiore considerazione del Trattato sul commercio delle armi. Se finora non è successo è perché al governo non c’è stata la volontà di farlo succedere.