[Disarmo] Fwd: [noguerranonatogenova] Genova. Chi fa la guerra: non va lasciato in pace.





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Da: luciano oliveri <lucioli3131 at gmail.com>
Date: lun 20 mag 2019 alle ore 18:50
Subject: [noguerranonatogenova] Genova. Chi fa la guerra: non va lasciato in pace.
To: <noguerranonatogenova at googlegroups.com>


Ciao a tutt*,
mando art.
Genova: chi fa la guerra non va lasciato in pace!
di Giacomo Marchetti - Genova


Ultim’ora. SOLO LA LOTTA PAGA! I componenti militari che erano in
banchina – shelter per il controllo dei droni – pronti ad essere
caricati sono stati portati via nel magazzino CSM scortati dalla
polizia, e non sono stati caricati come previsto. Si sta svolgendo
altresì un incontro in prefettura. È un precedente importante e che fa
storia, ed è gravissima la militarizzazione del porto dentro i varchi
nel momento di uno sciopero e di un presidio di sostegno.

*****

Nel mentre scriviamo la nave Bahri Yanbu, della maggiore compagnia di
navigazione saudita e vettore consolidato del traffico di armi che
alimenta la più grande catastrofe umanitaria mondiale (secondo la
definizione dell’ONU) ovvero la guerra in Yemen è nella rada del porto
di Genova ed entrerà – se entrerà – nello scalo ligure lunedì mattina
alla sei circa.

Per quell’ora è convocato un presidio – anticipato di alcune ore
rispetto all’indizione precedente – di fronte al varco portuale
Etiopia, su lungomare Canepa, uno dei principali accessi all’area
portuale nella delegazione di Sampierdarena.

La nave è salpata ad aprile dagli States e ha imbarcato il 4 maggio
container di munizioni al porto di Anversa, e sarebbe dovuta entrare
l’8 maggio nel porto di Le Havre per caricare 8 cannoni semoventi
Caesar da 155 mm prodotti da Nexter, rinunciandovi per la decisa
opposizione e l’azione intrapresa nello scalo francese da associazioni
pacifiste e dockers.

Questi sistemi d’arma, non caricati nello scalo francese sarebbero
stati spostati su rotaia per essere poi imbarcati dallo scalo ligure
di La Spezia.


L'”accoglienza” di Genova alla nave
Nello scalo iberico non previsto, nel porto di Santander, dov’è
approdata dopo il mancato arrivo a Le Havre, ha incontrato
l’opposizione di forze che ne hanno denunciato la funzione militare,
ma nonostante le denunce e gli esposti alla magistratura delle
associazioni pacifiste “avrebbe caricato armi e munizioni solo
destinate ad una esposizione negli Emirati Arabi Uniti”, come riporta
l’OPAL, prendendo spunto da ciò che era accaduto nello scalo francese.

Il porto di le Havre è stato uno dei maggiori epicentri
dell’opposizione all’approvazione della Lois Travaille durante la
presidenza Hollande – “il job act” francese – e le immagini della
marea umana che costantemente usciva in sciopero dallo scalo è ancora
viva nella memoria di chi ha seguito quel movimento di lotta.

Allo stesso tempo la città portuale è stata uno dei punti di forza e
di congiunzione dei gilets jaunes e delle “giacche rosse” del
sindacato – insieme a Tolosa, Marsiglia, Parigi, Bordeaux, ecc. –
durante questi sei mesi di mobilitazione permanente iniziati il 17
novembre in Francia.

Un movimento che è stato una scuola politica di massa, in cui varie
tematiche sono state conosciute e fatte proprie da un ampio fronte di
lotta in una coniugazione di rivendicazioni politiche e sociali in cui
si sono innestati i temi della transizione ecologica, della parità di
genere, della condizione abitativa fino alla critica alla tendenza
alla guerra e al coinvolgimento della Francia in conflitti, come
quello Yemenita.

L’Arabia Saudita, che guida la coalizione che dal 2015 ha dato vita
all’escalation militare contro lo Yemen – colpevole in sostanza di
avere defenestrato dalla sua posizione di potere un “uomo dei sauditi”
nel 2014 – è il secondo cliente per i commercio di armi per la
Francia.

L’establishment governativo aveva sempre pervicacemente negato il
coinvolgimento dei dispositivi bellici francesi venduti alla
petromonarchia saudita nel conflitto yemenita, ma una inchiesta
giornalistica (prima del mancato sbarco a Le Havre) ha reso pubblici
alcuni documenti ufficiali che smentiscono clamorosamente le menzogne
di Macron e del suo entourage.

I due autori dell’inchiesta giornalistica sono stati interrogati dai
servizi segreti interni francesi e su di loro è stata aperta
un’indagine, suscitando l’indignazione dell’opinione pubblica e degli
altri operatori dell’informazione (che hanno fatto un comunicato più
complessivo sul diritto di informazione citando il caso) per questo
abuso di potere nei confronti di coloro che hanno solo fatto quello
che sarebbe uno dei principali doveri per l’informazione nei confronti
dell’assetto di potere: dire che è il re è nudo.

Questa manovra “a tenaglia” coronata dall’azione di Le Havre ha
contribuito ad una maggiore delegittimazione del “presidente dei
ricchi” e posto in evidenza il ruolo della Francia nei conflitti che
infiammano l’Africa e il Medio Oriente.

Bisogna infatti ricordare che il neo-colonialismo francese, oltra alla
funzione che svolge attraverso il Franco CFA e le sue multinazionali
nel continente africani, agisce anche con una presenza militare ormai
costante nell’Africa Trans-Sahariana, senza che sia stata limitata la
presenza dello “jihadismo” e la strage dei civili – come è avvenuto in
Mali, per esempio – in cui in primavera la popolazione  dopo
l’ennesima strage ha manifestato contro la presenza militare di
Parigi.

Un altro dato importante è la sponsorizzazione del signore della
guerra libica, Haftar, che ha lanciato una escalation militare su
Tripoli, provocando altre immani sofferenze a questo martoriato
popolo, e di fatto mandando all’aria qualsiasi ipotesi di
“pacificazione” del conflitto.

Una ragione in più per sostenere, senza se e senza ma, la “marea
gialla” e l’ampio fronte di lotta contro Macron ed il mondo che l’ha
generato.

La Francia, come l’Italia, è pesantemente coinvolta in questo traffico
di morte grazie agli accordi firmati durante il governo targato PD
(mantenuti dall’attuale governo giallo-verde) ed aveva visto la
ministra Pinotti tra le maggiori responsabili – e allo stesso tempo
negatrici – del coinvolgimento del paese nel conflitto yemenita.

Una partecipata assemblea alla sala chiamata della Compagnia Unica
Lavoratori Merci Varie Paride Battini – la storica cooperativa di
camalli che impiega 1.000 lavoratori dello scalo ligure – promossa dai
delegati sindacali della Filt-CGIL della CULMV, ha fatto il punto
sull’annunciato arrivo della nave e del suo carico, ribadendo il
rifiuto di “lavorare” materiale bellico e chiamando la città a
sostenere questo rifiuto e denunciando il traffico d’armi precedente,
e prendendo una chiara posizione di opposizione all’aggressione
militare al popolo yemenita.

Nei giorni precedenti delegati della FILT CGIL della CULMV e dei
terminal privati dello scalo genovese si erano riuniti e avevano
chiesto formalmente al segretario generale, Natale Colombo, di farsi
carico della situazione e prendere una posizione contraria allo scalo
della nave.

Colombo ha condiviso e sostenuto le preoccupazioni dei portuali
liguri, ribadendo in un lancio dell’ANSA del 15 maggio la richiesta
che in casi come questo il Ministro dell’Interno dovrebbe intervenire,
chiudendo “i nostri porti per evitare che la nave in questione possa
caricare armi anche nel nostro paese”.

Il segretario nello stesso comunicato ha ribadito che “resteremo
vigili e al fianco dei lavoratori portuali di Genova affinché nessuno
utilizzi i nostri porti per alimentare conflitti che violano i diritti
umani”

Bisogna ricordare che l’iniziativa è partita dalla “base” dei
lavoratori portuali più impegnati a vario titolo nell’azione
politico-sindacale in questi anni, e che non è la prima “denuncia” di
un traffico di strumenti di morte che da quattro anni almeno passa per
il maggior porto italiano, cui fino ad ora non era stata dato il
giusto rilievo dalla stampa mainstream e dalle forze politiche
organizzate.

Già nei mesi precedenti, il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali,
un organismo che da anni è protagonista delle mobilitazioni nello
scalo e nella città, aveva denunciato questo genere di traffici
avvenuto nel terminal gestito dalla GMT, continuando una denuncia
puntuale delle condizioni di lavoro in generale nel porto (dalla lotta
contro l’auto-produzione sulle banchine alla precarietà e alla
mancanza di sicurezza che caratterizza ormai anche il lavoro
portuale).

Nel corso dell’assemblea è stato ribadito che se la nave, come nega
capitaneria portuale e prefettura, ha in stiva o carica materiale a
fine bellico – dopo una ispezione da parte del personale che sarebbe
incaricato delle operazioni di carico-scarico della merce – scatterà
lo sciopero, “rafforzato” dalla presenza solidale che comunque ci sarà
all’accesso dell’area portuale in uno dei principali varchi e che
inizierà all’alba.

Dalle foto della banchina del Ponte Eritrea (terminal Steinweg-GMT)
sono in attesa alcuni imballi di grandi dimensioni. “apparentemente
shelter per generatori elettrici fabbricati da TECKNEL Srl di Roma,
che come hanno affermato l’agenzia delta (Gastaldi) che gestisce la
nave, la prefettura e la capitaneria genovese, non si tratterebbe di
materiale di materiale classificato come militare.

Queste componenti vendute ai sauditi però come riporta il sito
dell’OPAL sono parti essenziali per il controllo dei droni, la cui
consegna iniziata nel 2018 sono ancora in corso.

In più la nave contiene senz’altro materiale bellico imbarcato a Sunny
Point negli USA – maggior terminal militare del mondo – ad Anversa in
Belgio, a Santander e probabilmente a Tibury, in Gran Bretagna e
Bemerhaven in Germania.

La mobilitazione di una parte dei portuali e della città (dalle forze
dell’opposizione politico-sindacale alle reti pacifiste e del mondo
cattolico) è uno dei punti più alti di opposizione alla tendenza alla
guerra ed uno dei rari momenti in cui uno conflitto rimosso come
quello yemenita torna alla ribalta e costringe a pensare a quella
“terza guerra mondiale” di cui parla apertamente da anni il Pontefice.

Una guerra quella in Yemen in cui “la carne da cannone” è costituita
per buona parte da soldati – anche bambino – provenienti dal Sudan, in
particolare dal Darfur che vengono pagati attraverso un istituto
bancario saudita, uno stato che materialmente paga gli sati che
contribuiscono alla coalizione in una sorta di ricatto che si fa forza
grazie ai proventi economici del settore petrolifero (così come
avviene per Pakistan, Giordania, ecc.)

Ma questa “carne da cannone” da mesi si sta ribellando ed ha
defenestrato Bashir – un dittatore sanguinario che dall’89 governava
il paese africano grazie ad un colpo di stato in cui le forze più
retrive dell’islam politico gli hanno dato un fondamentale appoggio ed
hanno fatto diventare la Sharia – introdotta nell’83 in Sudan –
l’architettura del paese, insieme alla feroce repressione degli
oppositori politici ed il razzismo istituzionale delle componenti più
marginalizzate della popolazione ora al centro della protesta insieme
alle donne.

Mentre l’autorità militare che governa transitoriamente il paese
dall’11 aprile dopo la destituzione del presidente avvenuta con un
“colpo di stato” al picco di una storica mobilitazione popolare vuole
continuare l’avventura militare in Sudan (i due suoi principali
esponenti sono vicini all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti),
la coalizione che da metà dicembre ha guidato le proteste – tra cui il
Partito Comunista Sudanese – vuole risolvere conflitti armati interni
e porre fine all’avventura bellica in Yemen.

Una ragione fondamentale in più per sostenere la rivoluzione sudanese.


Al porto, prima ancora dell’alba….
La mobilitazione genovese ha aperto uno squarcio nel velo di ipocrisia
di cui si sono cinti tutti coloro che ad ogni ordine e grado, in
qualsiasi schieramento politico e sindacale, hanno sostenuto e
alimentato il business della guerra, provocando sofferenze indicibili
ad un popolo che da poco tempo aveva conosciuto la riunificazione, in
cui il colera ormai è diventato endemico, e i bambini muoiono di
malnutrizione quando non vengono massacrati dai bombardamenti della
coalizione, a guida saudita, a cui il nostro governo, come quello
francese, vende armi.

I camalli genovesi – come gli attivisti in Francia ed in Spagna prima
di loro – mostrano la via, e inchiodano alle loro responsabilità chi
ha dichiarato di essere al loro fianco e che ha disertato questa
importantissima lotta, e di denunciare il ruolo nefasto che l’Unione
Europea (ed i governi alla testa degli stati che la compongono) svolge
nella spirale bellica perché: chi fa la guerra non va lasciato in
pace.

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