[Disarmo] Fwd: L’Italia in Libia, dalla cabina di regia al salto della quaglia
- Subject: [Disarmo] Fwd: L’Italia in Libia, dalla cabina di regia al salto della quaglia
- From: Elio Pagani <eliopaxnowar at gmail.com>
- Date: Mon, 29 Apr 2019 07:02:10 +0200
Da:Elio Pagani <eliopaxnowar at gmail.com>
Date: dom 28 apr 2019, 07:17
Subject: L’Italia in Libia, dalla cabina di regia al salto della quaglia
To: Elio Pagani <eliopaxnowar at gmail.com>
L’Italia in Libia, dalla cabina di regia al salto della quaglia
Contrordine giallo-verde. Per evitare un’altra clamorosa sconfitta come quella del 2011 con la caduta di Gheddafi, l’Italia obbedisce a Trump e invoca l'aiuto di Putin
I soliti sospetti: degli italiani non ci si può fidare. Cominciano con un alleato e finiscono con un altro. Il salto della quaglia in Libia è arrivato quando ormai da tempo si era capito che Serraj – sbarcato a Tripoli nel 2016 proprio dagli italiani – non lo voleva più nessuno di quelli che contano sulla scena internazionale punta più sul premier di Tripoli. A partire da Trump, cosa di cui si è accorta con un impercettibile ritardo persino la stampa americana.
Apprendiamo quindi da Conte a Pechino che «non stiamo né con Sarraj né con Haftar ma con il popolo libico».
Così per evitare un’altra clamorosa sconfitta come quella del 2011 con la caduta di Gheddafi, quando bombardammo il nostro maggiore alleato nel Mediterraneo, ricevuto soltanto sei mesi prima a Roma in pompa magna, l’Italia dello sbiadito governo giallo-verde afferra il messaggio di Trump, favorevole al generale Khalifa Haftar, e tratta con Putin e il generale al Sisi, accontentandosi delle solite parole di circostanza sul caso Regeni.
È inutile girarci troppo intorno con le usuali parole pietose impiegate dalla nostra stampa per spiegare che eravamo rimasti isolati e con il cerino in mano. Soltanto degli illusi come i nostri governanti e un corteo di lacchè potevano pensare che ci avrebbero davvero affidato la «cabina di regia» in un Paese dove siamo stati potenza coloniale sconfitta nella seconda guerra mondiale e poi nuovamente battuti dalla defenestrazione di Gheddafi.
Forse qui non se lo ricorda più nessuno ma quando nel 1992 si trattò di andare in Somalia, altra ex colonia italiana precipitata del caos e nella carestia, gli americani non volevano neppure che sbarcassimo a Mogadiscio a difendere l’ambasciata e la sede della Cooperazione. Per tre giorni non diedero il permesso di atterrare sulla pista e quasi tutta la missione fu costellata di episodi in cui gli Usa mostrarono una forte diffidenza nei confronti del contingente italiano.
Da noi gli americani vogliono obbedienza non sovranismo da quattro soldi. Cosa che abbiamo prontamente fatto nel 2011 quando abbiamo dato subito le nostre basi per facilitare i raid su Gheddafi di Francia, Usa e Gran Bretagna. Una decisione del presidente della repubblica Napolitano che poi unì l’Italia ai bombardamenti della Nato. Anche per questo siamo i soliti sospetti.
A Tripoli abbiamo sostenuto un governo appoggiato dai Fratelli musulmani, cioè da un Islam politico uscito sconfitto dal colpo di stato in Egitto di al Sisi, dalla guerra in Siria e dall’isolamento del Qatar che ospita il capo della Fratellanza ed è stato sigillato dalle potenze del Golfo mentre diventava il nostro maggiore acquirenti di armi: gli abbiamo fornito 10 miliardi di euro tra navi, elicotteri e aerei in un anno e mezzo. Non è che gli altri, dagli Usa alla Francia, non facciano lo stesso ma a noi non sono consentiti gli stessi spregiudicati margini di manovra.
La stessa Turchia di Erdogan che appoggia Serraj è reduce – non da sola ovviamente – dalla sconfitta in Siria dove ha persino sostenuto il Califfato di al Baghadi pur di abbattere Assad. E infatti al vertice di Palermo dello scorso anno quando abbiamo ospitato il generale Haftar, i turchi se ne sono andati sbattendo la porta.
Il blitz del generale per conquistare rapidamente la capitale di al Serraj per il momento è fallito, ma prosegue l’accerchiamento diplomatico di un governo riconosciuto dalle Nazioni unite ma osteggiato da grandi potenze e attori regionali.
La prova dell’isolamento italiano è lo stallo al Consiglio di sicurezza. Gli Usa all’inizio della crisi avevano sostenuto una risoluzione britannica per chiedere lo stop dell’offensiva di Haftar, poi hanno cambiato posizione: da allora tutto è bloccato. L’Ue è riuscita ad approvare un appello alla fine delle ostilità ma non ha nominato Haftar dopo che la Francia ed altri Paesi si erano opposti.
Gli interessi in gioco, dal petrolio a quelli militari, e le alleanze trasversali, sullo sfondo della contrapposizione tra i filo islamisti di Tripoli e i loro avversari, stavano tagliando fuori l’Italia. Così adesso ricorriamo a Putin: il Cremlino si è sempre detto pronto a difendere gli interessi dell’Eni in Libia di cui è partner da tempo immemore. La conferma ulteriore che la caduta del Colonnello Gheddafi nel 2011 è stata la più grande sconfitta del Paese dalla seconda guerra mondiale.
Contrordine giallo-verde. Per evitare un’altra clamorosa sconfitta come quella del 2011 con la caduta di Gheddafi, l’Italia obbedisce a Trump e invoca l'aiuto di Putin
I soliti sospetti: degli italiani non ci si può fidare. Cominciano con un alleato e finiscono con un altro. Il salto della quaglia in Libia è arrivato quando ormai da tempo si era capito che Serraj – sbarcato a Tripoli nel 2016 proprio dagli italiani – non lo voleva più nessuno di quelli che contano sulla scena internazionale punta più sul premier di Tripoli. A partire da Trump, cosa di cui si è accorta con un impercettibile ritardo persino la stampa americana.
Apprendiamo quindi da Conte a Pechino che «non stiamo né con Sarraj né con Haftar ma con il popolo libico».
Così per evitare un’altra clamorosa sconfitta come quella del 2011 con la caduta di Gheddafi, quando bombardammo il nostro maggiore alleato nel Mediterraneo, ricevuto soltanto sei mesi prima a Roma in pompa magna, l’Italia dello sbiadito governo giallo-verde afferra il messaggio di Trump, favorevole al generale Khalifa Haftar, e tratta con Putin e il generale al Sisi, accontentandosi delle solite parole di circostanza sul caso Regeni.
È inutile girarci troppo intorno con le usuali parole pietose impiegate dalla nostra stampa per spiegare che eravamo rimasti isolati e con il cerino in mano. Soltanto degli illusi come i nostri governanti e un corteo di lacchè potevano pensare che ci avrebbero davvero affidato la «cabina di regia» in un Paese dove siamo stati potenza coloniale sconfitta nella seconda guerra mondiale e poi nuovamente battuti dalla defenestrazione di Gheddafi.
Forse qui non se lo ricorda più nessuno ma quando nel 1992 si trattò di andare in Somalia, altra ex colonia italiana precipitata del caos e nella carestia, gli americani non volevano neppure che sbarcassimo a Mogadiscio a difendere l’ambasciata e la sede della Cooperazione. Per tre giorni non diedero il permesso di atterrare sulla pista e quasi tutta la missione fu costellata di episodi in cui gli Usa mostrarono una forte diffidenza nei confronti del contingente italiano.
Da noi gli americani vogliono obbedienza non sovranismo da quattro soldi. Cosa che abbiamo prontamente fatto nel 2011 quando abbiamo dato subito le nostre basi per facilitare i raid su Gheddafi di Francia, Usa e Gran Bretagna. Una decisione del presidente della repubblica Napolitano che poi unì l’Italia ai bombardamenti della Nato. Anche per questo siamo i soliti sospetti.
A Tripoli abbiamo sostenuto un governo appoggiato dai Fratelli musulmani, cioè da un Islam politico uscito sconfitto dal colpo di stato in Egitto di al Sisi, dalla guerra in Siria e dall’isolamento del Qatar che ospita il capo della Fratellanza ed è stato sigillato dalle potenze del Golfo mentre diventava il nostro maggiore acquirenti di armi: gli abbiamo fornito 10 miliardi di euro tra navi, elicotteri e aerei in un anno e mezzo. Non è che gli altri, dagli Usa alla Francia, non facciano lo stesso ma a noi non sono consentiti gli stessi spregiudicati margini di manovra.
La stessa Turchia di Erdogan che appoggia Serraj è reduce – non da sola ovviamente – dalla sconfitta in Siria dove ha persino sostenuto il Califfato di al Baghadi pur di abbattere Assad. E infatti al vertice di Palermo dello scorso anno quando abbiamo ospitato il generale Haftar, i turchi se ne sono andati sbattendo la porta.
Il blitz del generale per conquistare rapidamente la capitale di al Serraj per il momento è fallito, ma prosegue l’accerchiamento diplomatico di un governo riconosciuto dalle Nazioni unite ma osteggiato da grandi potenze e attori regionali.
La prova dell’isolamento italiano è lo stallo al Consiglio di sicurezza. Gli Usa all’inizio della crisi avevano sostenuto una risoluzione britannica per chiedere lo stop dell’offensiva di Haftar, poi hanno cambiato posizione: da allora tutto è bloccato. L’Ue è riuscita ad approvare un appello alla fine delle ostilità ma non ha nominato Haftar dopo che la Francia ed altri Paesi si erano opposti.
Gli interessi in gioco, dal petrolio a quelli militari, e le alleanze trasversali, sullo sfondo della contrapposizione tra i filo islamisti di Tripoli e i loro avversari, stavano tagliando fuori l’Italia. Così adesso ricorriamo a Putin: il Cremlino si è sempre detto pronto a difendere gli interessi dell’Eni in Libia di cui è partner da tempo immemore. La conferma ulteriore che la caduta del Colonnello Gheddafi nel 2011 è stata la più grande sconfitta del Paese dalla seconda guerra mondiale.
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