Lanciatori missilistici in dotazione alle navi da guerra che l’Arabia Saudita ha disposto nel blocco navale contro lo Yemen. Elicotteri italiani che sparano sui civili ad Afrin, nel Kurdistan siriano. Sistemi per la mira in movimento di carri armati in uso nella campagna pro-Assad nella Siria meridionale. Sono solo alcuni dei casi di armi italiane usate in zone di conflitto, nonostante la legge italiana sull’export delle armi impedisca di vendere a Paesi in guerra.
Un gruppo di giornalisti – tra cui l’autore di questo articolo – e di ricercatori, Italian Arms,sta tracciando gli effettivi utilizzatori finali delle armi autorizzate ad uscire dall’Italia con l’intento di dimostrare possibili violazioni delle normative internazionali in tema di esportazioni.
Armi italiane nel mondo: il mercato internazionale
Secondo la legge 185/90, le esportazioni sono vietate
«quando sono in contrasto con la Costituzione (che all’articolo 11 ripudia la guerra come mezzo per risolvere le crisi internazionali, ndr), con gli impegni internazionali dell’Italia, con gli accordi concernenti la non proliferazione e con i fondamentali interessi della sicurezza dello Stato, della lotta contro il terrorismo e del mantenimento di buone relazioni con altri Paesi, nonché quando mancano adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali di armamento».
La realtà, però, è più complicata. Le condizioni politiche di un Paese non sono immutabili. Così finisce che armamenti venduti a un governo in tempo di pacediventino strumento di repressione o per attacchi contro civili. Quando un’arma viene venduta anche non direttamente a Paesi in guerra ma in aree ad alta instabilità, inoltre, è facile che finisca per alimentare i conflitti dell’area.
E qui si arriva a una delle palesi ipocrisie del mercato delle armi italiane e non solo: quando sono i governi che acquistano, c’è spesso dietro un interesse bellico o repressivo. Soprattutto quando i grossi ordini si ripetono negli anni, è difficile che gli armamenti servano per il sistema di difesa, mentre è più probabile che saranno usate per l’attacco o per fermare proteste.
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Foto: wiltshirespotter (via Wikimedia Commons)Armi italiane all’Arabia Saudita usate in Yemen
Immagini del 30 gennaio 2017 mostrano che al largo del porto di Hudaya, Yemen occidentale, la fregata saudita Al Madinah (a volte riportata come al Madiah) è in fiamme. Si sentono di sottofondo voci che inneggiano gli slogan dei ribelli yemeniti.
Secondo l’agenzia di stampa saudita, la fregata Al Madiha ha subito un attentato dal gruppo ribelli houthi che ha provocato almeno due morti a bordo. Gli houthi sono i principali nemici delle forze saudite che cercano di imporsi in Yemen, dove dal 2015 è in corso una guerra civile.
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Nel Paese è attivo un blocco navale mai legittimato dalla comunità internazionale per le sue conseguenze sui civili nel Paese. Diciotto milioni di persone non hanno alcuna sicurezza alimentare e 400 mila bambini soffrono di grave malnutrizione. Al Madinah era una delle navi dispiagate dal governo saudita in questo blocco navale non legittimato.
A novembre i governi di Germania, Danimarca, Finlandia e Paesi Bassi hanno dichiarato di non voler più vendere le armi a Ryhad, proprio in risposta alla carestia in corso in Yemen. Già nel 2017 una risoluzione dell’Europarlamento spingeva per un embargo nella vendita di Armi all’Arabia Saudita, che non è però mai stato adottato.
L’Italia, da parte sua, come Osservatorio Diritti ha più volte raccontato, è coinvolta nella vendita di bombe attraverso Rwm Italia, succursale italiana del gigante tedesco delle armi Rheinmetall.
Il video della Al Madinah però mostra che altri armamenti di manifattura italiana sono coinvolti anche nel blocco navale. Secondo i documenti della Relazione al Parlamento sulla vendita delle armi, infatti, l’Italia ha esportato dei lanciatori per missili Otomat Mk2, autorizzati la prima volta nel 2014 e completati poi nel 2016.
Il lanciatore è prodotto da Mdba Italia, succursale italiana del consorzio europeo per la produzione di missili. Valore della commessa: 2,3 milioni di euro in totale. Dalle foto analizzate della al Madiah e da quanto riportano da siti specializzati, è possibile vedere che la nave montava la tecnologia missilistica italiana (qui la ricostruzione di Italian Arms)
Fuoco sui civili nel Kurdistan siriano
Non si può dire che il governo di Recep Tayyip Erdogan non sia riconosciuto sul piano internazionale. Chi lo considera un dittatore, deve però ammettere che la Commissione europea ci ha pure siglato un accordo, nel 2016, per fermare i migranti siriani diretti in Grecia.
Sul piano geopolitico, Erdogan non ha mai nascosto di sentirsi il comandante di una superpotenza, anche militare, nella regione. E di voler avere un ruolo nel conflitto in Siria. È il 20 gennaio del 2018 quando il presidente turco lancia “Ramoscello d’ulivo”, un’operazione che nulla aveva di pacifico e che invece mirava ad accerchiare la città di Afrin, roccaforte delle milizie curde Ypg. Il governo di Ankara le considera un gruppo terroristico, principalmente a causa del loro stretto rapporto con i curdi turchi che militano nel Pkk.
Il 29 gennaio l’elicottero T129 Atak, prodotto dall’italiana Leonardo (ex Finmeccanica), ha sparato sui villaggi intorno ad Afrin. Il video è stato messo in rete dall’ufficio stampa delle truppe Ypg. Il team Italian Arms lo ha geolocalizzato e conferma che si trovava in una zona abitata nella regione, prima dell’inizio dell’offensiva, per spianare la strada alle truppe di terra.
Tra il 2008 e il 2017 sono stati dieci i velivoli di questo genere venduti alla Turchia. L’Italia ha anche fornito l’addestramento necessario per il loro utilizzo. Secondo Human Rights Watch ad Afrin «le forze armate turche non hanno adottato precauzioni per evitare vittime civili».
Armi italiane vendute all’estero: tecnologia nei carri armati siriani
I vecchi carri armati sovietici T72 a disposizione dell’esercito siriano sono stati dotati fino al 2008 di un sistema per mirare e colpire in movimento. Si chiama Turms-t e lo produceva Galileo Avionica, oggi Gruppo Leonardo. La commessa ha fruttato alla società in totale 229 milioni di euro.
In un video di propaganda dell’Isis di marzo 2018 si vedeva uno dei carri armati dell’esercito in fiamme, dopo il conflitto nella città di Damasco. Geolocalizzando l’evento, come è documentato nel video qui sotto, è stato possibile stabilire che la carcassa del mezzo si trova ancora nel quartiere di Al Qadam.
Un altro mezzo con montato il Turms-t è stato ripreso da una tv russa a maggio del 2018. Faceva parte di un convoglio diretto a Daraa, città siriana dove poi è avvenuto in effetti un attacco dei lealisti di Assad, con il supporto aereo della Russia. Il 27 giugno 2018 l’allora inviato Onu per la Siria Staffan De Mistura parlava di 750 mila vite in pericolo in quell’operazione militare.
Italian Arms: il team e il metodo di ricerca
Il gruppo di lavoro di Italian Arms è stato promosso da Lighthouse reports, collettivo di giornalisti di base ad Amsterdam che si dedica a inchieste collaborative internazionali. Partner giornalistici poi sono Bellingcat, gruppo che si dedica a inchieste su fonti aperte; la trasmissione televisiva di Rai 3 “Report” e il centro di giornalismo investigativo italiano Irpi.
La ricerca, in particolare sui documenti governativi italiani, è stata resa possibile dall’Osservatorio permanente sulle armi leggere (Opal), di cui fa parte il blogger di Osservatorio Diritti Giorgio Beretta. Il gruppo ha lavorato insieme per dieci giorni consecutivi a Brescia, nella sede di Opal.
Il punto di partenza di ogni caso sono stati i documenti governativi con licenze e commesse destinate all’estero per le armi. Da lì, poi, l’inchiesta ha proseguito su fonti aperte: dai social network ai video di Youtube per localizzare tracce di questi armamenti. La verifica dei luoghi dove sono stati girati i video è possibile attraverso programmi come Google Earth.