Dove ci
stiano trascinando le politiche antimigratorie era già
stato scritto in un documento del Pentagono del 2004,
riassumibile in questi termini: «Le prossime guerre
saranno combattute per ragioni di sopravvivenza».
Una
tragedia destinata a continuare: «Milioni di persone
moriranno per guerre o carestie finché gli abitanti
del pianeta non saranno stati ridotti a un numero
sostenibile. I paesi più ricchi, come gli Stati uniti
e l’Europa si trasformeranno in “fortezze virtuali”
per impedire l’arrivo di milioni di migranti espulsi
dalle loro terre sommerse o non più in grado di
produrre cibo per mancanza di acqua. I Governi
incapaci di difendere i propri confini verranno
spazzati via dal caos e dal terrorismo».
L’orizzonte
mentale di Salvini e Trump, di Kurz e Orbán, ma anche,
con maggiore ipocrisia, di Macron o Minniti, è questo;
ma se quella catastrofe è ancora lungi dal verificarsi
nei termini previsti, la soluzione prospettata – la
“Fortezza Europa”, cioè la distruzione di democrazia,
libertà e diritti di tutti – è già andata molto avanti
senza che i nostri governanti si chiedano se, e come,
si possa invertire quella deriva.
D’altronde
non esserselo chiesto e cercato delle risposte a un
problema che riassorbe in sé tutti gli altri – dal
lavoro al futuro dell’Unione europea e, ovviamente,
dell’euro, che certo non vive di vita propria, e di
tutto ciò che dall’euro consegue – è la principale
causa dell’annichilimento di ogni prospettiva di
cambiamento sociale; e della fine delle tante
sinistre: poca cosa rispetto allo tsunami di quegli
umori rancorosi e feroci che Salvini ha solo portato
alla luce, ma che covava da tempo. Quelle domande e
risposte non possono però attendere.
Innanzitutto,
è possibile e realistico concepire un’accoglienza che
non sia una forma mascherata e selettiva di
respingimento, come lo sono tutte le politiche
adottate o proposte finora? Ne va della nostra
umanità; della nostra capacità di costruire relazioni
sociali e personali basate sul rispetto reciproco: che
una volta perso nei confronti dei migranti, è perso
per tutti. Sì, è possibile: a condizione che
l’accoglienza sia decente – oggi non lo è quasi mai, e
lo è ovunque sempre meno – e che all’accoglienza
facciano seguito processi di inclusione; che per chi
viene da fuori e non conosce nessuno non possono che
basarsi sul lavoro.
Il lavoro
non è un bene in sé; non “nobilita” l’uomo; è anzi una
condanna; per lo meno finché non si trasformerà in
un’attività scelta liberamente – sganciando reddito e
lavoro – e consensualmente – facendone un “bene
comune” da gestire in modo condiviso. Ma le politiche
di inclusione, tanto di “stranieri” che di “nativi”,
non possono che basarsi sul lavoro. Dal lavoro oggi
nascono le relazioni sociali, la possibilità di avere
casa e famiglia, e anche l’accettazione da parte del
prossimo, mentre senza lavoro nasce solo che rancore
da entrambe le parti.
Oggi
profughi e migranti sono ancora pochi rispetto alla
popolazione europea; resterebbero pochi anche
allargando le maglie degli ingressi, perché la maggior
parte degli esuli dell’Africa e del Medioriente si
ferma ancora ai confini dei propri territori. Quelli
che “osano” affrontare un viaggio sempre più
pericoloso, ma anche una vita, o un suo pezzo, in un
mondo estraneo sono una minoranza: i più giovani, i
più intraprendenti, spesso i più istruiti delle loro
comunità; un tesoro che noi bistrattiamo fino al
massacro invece di valorizzare.
Ma non
sarà sempre così, a meno di invertire almeno in parte
la direzione di quel loro “cammino della speranza” con
un processo di rientri volontari. Le migrazioni di
oggi si distinguono da quelle del secolo scorso
perché, almeno nelle intenzioni, non sono “per
sempre”; molti profughi, ma anche molti cosiddetti
“migranti economici” contano di ritornare nel proprio
paese appena se ne presentino le condizioni: pace,
risanamento del proprio territorio, recupero delle sue
risorse.
Sono solo
loro a poterle realizzare, forti sia delle conoscenze
e delle relazioni – il “capitale sociale” – che
possono acquisire in Europa se verranno accolti e
inclusi nel nostro tessuto sociale, sia delle
relazioni che mantengono con le comunità di origine,
dove sono soprattutto le donne, rimaste a casa, a
mantenerne insieme il tessuto sociale.
Ma come si
fa a creare inclusione, cioè lavoro, per milioni di
nuovi arrivati, quando il lavoro manca già per molti
cittadini e cittadine europee? Occorre investire
migliaia di miliardi di euro – quelli che le politiche
di austerità hanno riservato alle banche – e non per
creare lavoro purchessia, bensì per fare nei prossimi
decenni quello che comunque va fatto: la conversione
ecologica.
Un grande
piano di finanziamento degli investimenti necessari,
mettendo per sempre da parte l’austerità; un insieme
di programmi che leghino l’assegnazione di quei fondi
all’impiego di una quota di migranti (senza migranti,
niente fondi: si farebbe a gara per “accaparrarseli”).
Migliaia di progetti di “piccole opere” di risanamento
di città e territori e di conversione energetica,
agricola, alimentare e della mobilità: progetti messi
a punto e sottoposti alla verifica delle comunità
territoriali, perché senza partecipazione la
conversione ecologica non si può fare.
Non è un
discorso nelle nuvole; se non si parte da qui
resteremo impantanati nel rancore dei tanti Salvini
che stanno impadronendosi non solo dell’Europa, ma
anche delle nostre vite.