[Disarmo] Del Boca: «In Libia un’altra avventura militare italiana»
- Subject: [Disarmo] Del Boca: «In Libia un’altra avventura militare italiana»
- From: Elio Pagani <eliopaxnowar at gmail.com>
- Date: Thu, 27 Jul 2017 07:07:44 +0200
Intervista a Del Boca: «In Libia un’altra avventura militare italiana»
Libia. Intervista Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano e della Libia. Quella di Gentiloni è per ora una guerra d’immagine. Ma pericolosa, non a caso riceve l’approvazione subito della destra. E si profila come un rischioso blocco navale
Tommaso Di FrancescoIl Manifesto
Ancora una volta per capire la crisi libica e dintorni, ricorriamo ad Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano e della Libia.
Gentiloni ha ricevuto Fajez al Sarraj di ritorno dal vertice con Haftar promosso da Macron a e ha comunicato che il leader di Tripoli «ha chiesto aiuto navale italiano in acque libiche contro i trafficanti di esseri umani»; ora la proposta «viene valutata con il ministro della Difesa». Che significa?
Sembra un nuovo intervento militare, una nuova avventura italiana. Comunicato appena dopo il vertice voluto da Macron. Una specie di guerra d’immagine. Ma pericolosa, Non a caso è stato subito apprezzato dalla destra italiana che da tempo vuole schierare le cannoniere. Certo non è chiaro: si tratta di una sorta di blocco navale in acque libiche, solo della Tripolitania, quasi una sostituzione italiana dell’inutile e corrotta guardia costiera libica? Oppure in acque internazionali? Comunque sulla pelle dei profughi che a quel punto sarebbero sequestrati, dopo l’eventuale cattura dei “trafficanti” e rispediti nelle prigioni libiche o nella disperazione africana. Senza escludere il rischio di come avviene un blocco navale: dovremmo ricordarcelo come Italia: nel 1997 affondammo la barcarola albanese Kater I Rades con una corvetta della Marina e morirono 108 persone.
Qual è il suo giudizio sul vertice di Parigi promosso dal presidente francese?
È come se Macron avesse voluto ricucire, ma solo recitandolo, l’affronto di Sarkozy che, nel marzo 2011 guidò la guerra a Gheddafi forzando la mano a tutti, a cominciare dall’Italia fino agli Stati uniti, un fatto che almeno Obama ha riconosciuto come un tragico errore. Uno strappo tra l’altro costato 30 mila miliardi di dollari in distruzioni di città, fabbriche, infrastrutture, secondo la valutazione fatta dalle Nazioni unite. Attenzione, si tratta di una svolta d’immagine. Macron si muove con l’atteggiamento da piccolo Napoleone, sopravanza l’Italia con un summit realizzato quasi di nascosto e sfotte perfino quando si sente in obbligo di ringraziare «il mio amico Gentiloni». La sua riparazione serve in sostanza ad imporre il primato della Total in terra libica. Se avesse voluto riabilitare davvero la Francia perlomeno doveva annunciarsi come un giovane convinto europeista che ammette gli errori francesi in Africa. Invece paradossalmente si fa forte dei disastri compiuti dai presidenti francesi precedenti e ancora una volta del controllo assoluto che Parigi ha dei paesi della fascia del Sahel, tra cui Niger, Mali, Ciad dei quali controlla economia e valuta con il franco locale Cfa, l’acronimo vuol dire che quei Paesi appartengono alla Communauté Financière Africaine. Il colonialismo sta sempre lì. Ora per il ministro Minniti, il Niger diventa la frontiera sud, il muro da difendere, dell’Europa.
Eppure Sarraj e Haftar si sono stretti la mano per un cessate il fuoco, l’ipotesi di un governo unitario di transizione, elezioni nella primavera del 2018…
Ma se si legge bene, sono gli stessi contenuti dell’incontro tra i due di Abu Dhabi nel maggio scorso. Sui quali Macron ha messo il cappello. Un vertice quello la la mediazione degli Emirati, in realtà schierati con il generale Khalifa Haftar che fa il lavoro sporco per la stessa Francia, l’Egitto e la Russia. Dietro Fajez al Sarraj c’è il riconoscimento dell’Onu e l’Italia, che lo ha insediato con la Marina militare – e quello nemmeno c’informa che va da Macron. Ma il «nostro» leader vive sotto assedio, non controlla a pieno nemmeno la città di Tripoli; tanto meno la Tripolitania divisa tra milizie in parte schierate con Tripoli, come quelle di Misurata che ricattano costantemente Sarraj, in parte con il precedente governo islamista di Khalifa al-Ghweil; ci sono poi l’enclave armata di Zintane che ha detenuto e liberato Seif Al Islam, il figlio di Gheddafi; il Fezzan delle tribù e dei clan e la Cirenaica di Haftar, ancora alle prese con il tentativo di ricostituzione delle milizie jihadiste, a Derna e Bani Walid dopo la sconfitta di Sirte. Dappertutto centinaia di milizie armate. Questo elenco per dire che proprio l’ultimo capitolo dell’accordo di Abu Dhabi – «risolvere il nodo delle milizie» – è fallito facendo fallire tutto il resto. Perché parliamo di controllo del territorio che non c’è. Lo sa bene il generale Haftar che avanza e occupa i decisivi pozzi petroliferi. Non a caso su di lui si spostano ormai le simpatie internazionali, comprese quelle dell’Italia. La pace nella Libia somalizzata dall’intervento militare occidentale, che ha mandato in frantumi un lavorìo di 42 anni per tenerla insieme, non può avere come interlocutori soltanto due protagonisti. Le forze in campo sono molte di più. A cominciare da quelle internazionali, perché la Libia è diventata il cuore del neocolonialismo mondiale.
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