Il
26/04/2017 06:23, Elio Pagani (via disarmo Mailing List)
ha scritto:
Bruno Segre, la Resistenza della Nonviolenza
Intervista. Partigiano
e avvocato, paladino dei diritti civili: «Ho
difeso centinaia di obiettori in tutti i
Tribunali militari d’Italia, perché mi convinsi
che la nonviolenza è forza non debolezza. La
Storia ha bisogno a volte di punti di rottura»
Bruno
Segre legge «L’incontro», mensile indipendente
che ha fondato nel 1949
Nel
suo studio settecentesco è stratificato il
secolo breve. Qui lavora Bruno Segre,
partigiano e avvocato. Novantotto anni di vita
spesi come in un romanzo, tra pallottole
bloccate da un portasigarette in metallo, alla
Torino di Natalia Ginzburg e di Cesare Pavese,
alle primissime cause in difesa degli
obiettori di coscienza fino alla battaglia
civile per il divorzio. Bruno Segre nella sua
lunga vita ha vissuto tutto.
Partiamo da Torino,
e dal suo cambiamento nel corso dei decenni.
Un immenso cambiamento. Ricordo una città
piccola e gentile, con le lampade a gas nelle
vie del centro, poi diventata grande e
caotica, che ora torna ad essere più
attraente, simile a quella che ho vissuto da
ragazzo. Cambiano la cultura, nelle città come
nella morale: per baciare una ragazza qui a
Torino ci volevano mesi, corteggiamenti
serrati. Ora, non è più così: tutto è divenuto
più veloce. Una città cosmopolita, lo è sempre
stata. Cosmopolita e industriosa, che ha fatto
del lavoro un primato morale. Io ce l’avevo
con la Fiat: i benefici del lavoro operaio li
hanno avuti gli Agnelli, che hanno fatto ben
poco per accogliere i nuovi lavoratori che
giungevano dal Sud, e non solo, nella seconda
metà del Novecento. Le spese per rendere la
vita civile a queste persone (trasporti,
ospedali, scuole, ecc.) se le accollò il
Comune di Torino.
E gli Agnelli chi
sono stati?
I padroni della città.
Cosa furono le leggi
razziali a Torino?
Mi colpì l’indifferenza della gente: gli ebrei
in Italia erano circa quarantamila, molti
occupavano cattedre universitarie, alcuni
erano filantropi che avevano gratificato con
donazioni le Istituzioni cittadine. Ci fu una
sorta di umiliazione collettiva. Una celebre
caffetteria del centro espose il cartello:
«Qui gli ebrei non sono graditi». Molte ditte
dovettero chiudere o cambiare denominazione.
Constatai un diffuso egoismo, la gente
approfittava dell’emarginazione e
discriminazione degli ebrei per prendere il
loro posto. Cosa ancor peggiore fu
l’espulsione dalle scuole. Quando furono
attuate le normative antisemite, gli studenti
ebrei all’università potevano terminare gli
studi (io mi laureai con Einaudi) ma non
proseguire altri corsi universitari. Viceversa
gli ebrei tedeschi dovettero cessare subito il
corso di studi senza laurearsi. Ciò palesa la
sudditanza del fascismo agli ordini del
nazismo. I fascisti emergevano per ignoranza e
stupidità. Molti ebrei che non sapevano di
essere tali, lo scoprirono solo quando furono
perseguitati.
Cesare
Pavese
Perché entrò nella
Resistenza?
Sono sempre stato antifascista: da ragazzo fui
cacciato dall’aula scolastica perché mi
dichiaravo contro la guerra in Etiopia.
Nell’inverno del ’42 sono stato tre mesi
incarcerato alle Nuove perché accusato di
disfattismo.
Il momento
dell’arresto?
Nel ‘42, avevo scritto l’unico articolo
antirazzista apparso in Italia sulla rivista
torinese L’igiene e la vita, subito soppressa.
Nelle carceri Nuove la vita era terribile,
quell’inverno fu il più freddo del secolo. I
vetri delle celle erano rotti dai
bombardamenti. Fu il “generale inverno” a
bloccare l’avanzata dei carri armati tedeschi
in territorio russo. Ci trattavano come
animali, alla domenica ci davano pezzi di
carne tratti da un sacco con la forchetta. Nel
1944 mi spararono addosso. Finii in via Asti,
volevano sapere come avevo avuto un
lasciapassare tedesco. Prima però mi sporsero
su una finestra, e urlavano: «O parli o ti
buttiamo giù». Non parlai, sotto c’era gente
che passeggiava. Inoltre ignoravo chi, in sede
clandestina, mi aveva donato il documento.
Cosa fu la fine
della guerra?
La gente ballava per le strade, angloamericani
e francesi vendevano le loro pubblicazioni di
propaganda. C’erano grandi speranze di
rinnovamento. Io volevo uccidere l’ex prete
fascista Gino Sottochiesa che aveva scritto
sui giornali nazifascisti articoli contro gli
ebrei fomentando la propaganda antisemita. Per
fortuna non lo trovai. S’era nascosto in un
convento.
Carlo
Levi
Chi si poteva
incontrare a Torino negli anni ’50?
Presentai il libro di Pimo Levi, La tregua:
era un personaggio solitario, malinconico. Ho
frequentato Carlo Levi, Cesare Pavese e Leone
Ginzburg: Pavese diceva che Carlo Levi era un
po’ esibizionista. Natalia Ginzburg era mia
compagna di classe al liceo Alfieri: a scuola
scriveva componimenti erotici. Spiccava per la
sua intelligenza.
Aldo
Capitini
Perché ha iniziato a
difendere gli obiettori di coscienza?
Conobbi Aldo Capitini alla fine anni Quaranta.
Mi fece conoscere il giovane sardo, Pietro
Pinna, che aveva rifiutato di impugnare le
armi e io lo difesi il 31 agosto 1949 dinnanzi
al Tribunale Militare di Torino. Fu un
processo clamoroso, vennero giornalisti
dall’estero. Da allora ho difeso centinaia di
obiettori in tutti i Tribunali Militari
d’Italia, perché mi convinsi che la
nonviolenza è forza non debolezza. Lo stesso
ho fatto con i giudizi per il divorzio. Oggi è
tutto normale. La Storia ha bisogno, a volte,
di punti di rottura.