Il 26/04/2017 06:23, Elio Pagani (via
disarmo Mailing List) ha scritto:
Bruno
Segre, la Resistenza della Nonviolenza
Intervista. Partigiano e
avvocato, paladino dei diritti civili: «Ho difeso
centinaia di obiettori in tutti i Tribunali militari
d’Italia, perché mi convinsi che la nonviolenza è forza
non debolezza. La Storia ha bisogno a volte di punti di
rottura»
Nel suo
studio settecentesco è stratificato il secolo breve. Qui
lavora Bruno Segre, partigiano e avvocato. Novantotto
anni di vita spesi come in un romanzo, tra pallottole
bloccate da un portasigarette in metallo, alla Torino di
Natalia Ginzburg e di Cesare Pavese, alle primissime
cause in difesa degli obiettori di coscienza fino alla
battaglia civile per il divorzio. Bruno Segre nella sua
lunga vita ha vissuto tutto.
Partiamo da Torino, e dal suo
cambiamento nel corso dei decenni.
Un immenso cambiamento. Ricordo una città piccola e
gentile, con le lampade a gas nelle vie del centro, poi
diventata grande e caotica, che ora torna ad essere più
attraente, simile a quella che ho vissuto da ragazzo.
Cambiano la cultura, nelle città come nella morale: per
baciare una ragazza qui a Torino ci volevano mesi,
corteggiamenti serrati. Ora, non è più così: tutto è
divenuto più veloce. Una città cosmopolita, lo è sempre
stata. Cosmopolita e industriosa, che ha fatto del
lavoro un primato morale. Io ce l’avevo con la Fiat: i
benefici del lavoro operaio li hanno avuti gli Agnelli,
che hanno fatto ben poco per accogliere i nuovi
lavoratori che giungevano dal Sud, e non solo, nella
seconda metà del Novecento. Le spese per rendere la vita
civile a queste persone (trasporti, ospedali, scuole,
ecc.) se le accollò il Comune di Torino.
E gli Agnelli chi sono stati?
I padroni della città.
Cosa furono le leggi razziali
a Torino?
Mi colpì l’indifferenza della gente: gli ebrei in Italia
erano circa quarantamila, molti occupavano cattedre
universitarie, alcuni erano filantropi che avevano
gratificato con donazioni le Istituzioni cittadine. Ci
fu una sorta di umiliazione collettiva. Una celebre
caffetteria del centro espose il cartello: «Qui gli
ebrei non sono graditi». Molte ditte dovettero chiudere
o cambiare denominazione. Constatai un diffuso egoismo,
la gente approfittava dell’emarginazione e
discriminazione degli ebrei per prendere il loro posto.
Cosa ancor peggiore fu l’espulsione dalle scuole. Quando
furono attuate le normative antisemite, gli studenti
ebrei all’università potevano terminare gli studi (io mi
laureai con Einaudi) ma non proseguire altri corsi
universitari. Viceversa gli ebrei tedeschi dovettero
cessare subito il corso di studi senza laurearsi. Ciò
palesa la sudditanza del fascismo agli ordini del
nazismo. I fascisti emergevano per ignoranza e
stupidità. Molti ebrei che non sapevano di essere tali,
lo scoprirono solo quando furono perseguitati.
Perché entrò nella Resistenza?
Sono sempre stato antifascista: da ragazzo fui cacciato
dall’aula scolastica perché mi dichiaravo contro la
guerra in Etiopia. Nell’inverno del ’42 sono stato tre
mesi incarcerato alle Nuove perché accusato di
disfattismo.
Il momento dell’arresto?
Nel ‘42, avevo scritto l’unico articolo antirazzista
apparso in Italia sulla rivista torinese L’igiene e la
vita, subito soppressa. Nelle carceri Nuove la vita era
terribile, quell’inverno fu il più freddo del secolo. I
vetri delle celle erano rotti dai bombardamenti. Fu il
“generale inverno” a bloccare l’avanzata dei carri
armati tedeschi in territorio russo. Ci trattavano come
animali, alla domenica ci davano pezzi di carne tratti
da un sacco con la forchetta. Nel 1944 mi spararono
addosso. Finii in via Asti, volevano sapere come avevo
avuto un lasciapassare tedesco. Prima però mi sporsero
su una finestra, e urlavano: «O parli o ti buttiamo
giù». Non parlai, sotto c’era gente che passeggiava.
Inoltre ignoravo chi, in sede clandestina, mi aveva
donato il documento.
Cosa fu la fine della guerra?
La gente ballava per le strade, angloamericani e
francesi vendevano le loro pubblicazioni di propaganda.
C’erano grandi speranze di rinnovamento. Io volevo
uccidere l’ex prete fascista Gino Sottochiesa che aveva
scritto sui giornali nazifascisti articoli contro gli
ebrei fomentando la propaganda antisemita. Per fortuna
non lo trovai. S’era nascosto in un convento.
Chi si poteva incontrare a
Torino negli anni ’50?
Presentai il libro di Pimo Levi, La tregua: era un
personaggio solitario, malinconico. Ho frequentato Carlo
Levi, Cesare Pavese e Leone Ginzburg: Pavese diceva che
Carlo Levi era un po’ esibizionista. Natalia Ginzburg
era mia compagna di classe al liceo Alfieri: a scuola
scriveva componimenti erotici. Spiccava per la sua
intelligenza.
Perché ha iniziato a difendere
gli obiettori di coscienza?
Conobbi Aldo Capitini alla fine anni Quaranta. Mi fece
conoscere il giovane sardo, Pietro Pinna, che aveva
rifiutato di impugnare le armi e io lo difesi il 31
agosto 1949 dinnanzi al Tribunale Militare di Torino. Fu
un processo clamoroso, vennero giornalisti dall’estero.
Da allora ho difeso centinaia di obiettori in tutti i
Tribunali Militari d’Italia, perché mi convinsi che la
nonviolenza è forza non debolezza. Lo stesso ho fatto
con i giudizi per il divorzio. Oggi è tutto normale. La
Storia ha bisogno, a volte, di punti di rottura.