[Disarmo] Jean-Loup Amselle e le generazioni mandate al macero



- Marco Dotti, 21.11.2015

Intervista. Gli attentati a Parigi hanno svelato l’avvenuta «etnicizzazione» dei conflitti sociali. E
hanno anche favorito l’affermazione di uno «stato di guerra» per difendere la Francia come paese
«bianco» e «cristiano». Parla l’antropologo francese

«Un atto di guerra». François Hollande, presidente a fine mandato, non ha dubbi : «Quanto accaduto
a Parigi e Saint-Denis è un atto di guerra e, di fronte alla guerra, il Paese deve prendere decisioni
appropriate. (…) Un atto di guerra preparato, organizzato, pianificato all’esterno con complicità
all’interno che l’inchiesta metterà in luce».

Nel frattempo, mentre Hollande attende le sue elezioni e la sua inchiesta, con altri mezzi la guerra
è cominciata. I fatti, forse, non sono ancora chiari, ma le opinioni hanno preso a circolare. La
tragedia di Parigi ha inevitabilmente colpito tutti. Molto si è insistito sulle emozioni e le impressioni
dei singoli: testimonianze, racconti, lacrime e il famigerato storytelling che si è già accartocciato su
se stesso. Al lutto, mai elaborato, è conseguito il panico – elaborato fin troppo. Nascono qui, in una
zona grigia troppo a lungo sottovalutata, le reazioni dei «deputati a reagire», gli intellettuali
disorganici alle accademie, ma organici rispetto ai media che in Francia chiamano intellos. E qui il
discorso diventa diverso, perché rischia di contribuire – se già non l’ha fatto – a costruire un terreno
comune dentro il quale far slittare un conflitto e rendere la clash of civilisation una profezia che tutti
abbiamo contribuito a autoavverare. Ne parliamo con l’antropologo Jean-Loup Amselle, che insegna
all’Ecole des Hautes études en sciences sociales (Ehess) di Parigi, e da tempo lavora sui fenomeni di
«etnicizzazione» del conflitto in seno alla società europea.

Lo scorso anno, proprio sulle pagine del «manifesto» (19/12/2014), parlava di una
categoria da lei introdotta nel dibattito: i «rosso-bruni». I rosso-bruni sono «nuovi»
intellettuali abilissimi nel costituire una falsa opposizione critica, sempre ben
«mediatizzata» ma sempre capace di presentarsi come irregolare e fuori dagli schemi.
Dopo i fatti parigini, lei vede un riposizionamento dei «rouge-bruns»?

Ci troviamo nello stato di confusione più totale in ragione del fatto che siamo davvero in difficoltà
nell’analizzare la natura dello Stato islamico. Questo possiede caratteristiche ambigue: è uno «Stato»
di tipo fascista, animato da una pulsione di morte, ma al tempo stesso è la sola forza
contro-egemonica di fronte all’Occidente. Parliamo quindi di uno Stato nazionalista-musulmano ma,
al contempo, internazionalista. Questo semplice fatto rende fragili le classiche analisi ortodosse
dell’estrema sinistra. La posizione del Npa (il Nuovo partito anticapitalista), ad esempio, che legge
negli attentati del 13 novembre una reazione all’imperialismo, illustra bene a tale riguardo le
difficoltà di sviluppare una risposta marxista coerente fuori da antichi schemi che, oramai, non
funzionano più.
La confusione «rosso-bruna» nasce da questo problema ed è ben rappresentata da Michel Onfray,
filosofo da scrivania e tastiera, vicino d’altronde alle posizioni del Npa, che ha di recente attribuito al
Corano la responsabilità della violenza jihadista, sostenendo, allo stesso tempo, che gli attentati di
Daesh sono una risposta all’imperialismo occidentale.
Un altro rappresentante della sfera di influnza «rosso-bruna», Jean-Pierre Chevènement, chiama a sé
una «Repubblica energica», mentre Jean-Paul Brighelli, vecchio personaggio dell’estrema sinistra
passato all’estrema destra antisemita, autore di un libro in uscita significativamente titolato Voltaire
ou le Jihad chiede da par suo che certe libertà pubbliche vengano sospese e si instauri uno Stato
forte. Infine, last but not least, Michel Houellebecq, vecchio gauchiste, autore islamofobo di
successo – pensiamo al suo Sottomissione – che in un articolo del Corriere della Sera fustiga tanto la
destra, quanto la sinistra preparando il terreno a Marine Le Pen. In un senso generale, potremmo
dire che tutta una frangia dell’intelligentsia sta per virare al razzismo, ma dietro copertura.

Quale copertura? Sembra che i nomi da lei fatti siano solo l’avanguardia esposta di un
riposizionamento generare oramai prossimo…

La copertura della legittimità del dibattito, della libertà di espressione, della lotta contro il
«politicamente corretto», della difesa della laicità, cose che portano a difendere nient’altro che
i valori di una Francia «bianca» e «cristiana», persino nell’ambito culinario come nel caso del
fenomeno che alcuni chiamano «kebabofobia».
Dopo il 13 novembre, abbiamo visto spuntare su Facebook ritratti e immagini di profilo su sfondo
tricolore. Ma il nazionalismo non è unicamente francese, è anche europeo e regionalista. Tutto
questo non fa che portare acqua al mulino di Hollande, che si sta rappresentando come un George
Bush in salsa francese, puntellando così le fondamenta di uno Stato sicuritario e liberticida.
Vedremo un Patriot Act à la française, insomma uno «Stato di guerra».

Forse ci siamo già dentro, ma ancora non lo sappiamo. In fondo, ogni guerra, oggi, è una
guerra impura che si svolge con ogni mezzo, e ogni mezzo, rovesciando la celebre massima
di Clausewitz, altro non è che una protesi di guerra…

Ciò a cui assistiamo è l’accelerazione dello scivolamento del paesaggio politico verso la destra
e verso l’estrema destra, favorendo le posizioni più paradossali. Correndo appresso a Sarkozy
e Marine Le Pen, Hollande rischia semplicemente di far guadagnare terreno a entrambi alle
prossime elezioni presidenziali.

Anche l’idea di «multiculturalismo» liberale è entrato in crisi, in Europa. Molti di coloro
che si trovano a militare per Daesh vengono da seconde o terze generazioni di migranti.
Sono cioè persone che sul piano formale hanno vissuto tutto il processo dell’integrazione
liberale…

Ufficialmente, in Francia il multiculturalismo non ha diritto di cittadinanza, anche se è presente nei
dispositivi di Stato. Ma non è solo e soltanto il multiculturalismo liberale che ad essere saltato.
Ricordiamo un punto critico spesso lasciato in ombra nella discussione: molti jihadisti provengono da
famiglie non musulmane. Il problema, allora, è che le società occidentali, la Francia tra le altre, non
offrono alcuna prospettiva e alcun futuro ai giovani. Non parlo solo in termini di impiego e lavoro,
ma anche in termini di incardinamento intellettuale. Non c’è più un «racconto nazionale» coerente,
non ci sono più partiti, niente sindacato, niente scuola, niente servizio civile o militare, niente che sia
capace di dare un senso all’esistenza di questi ragazzi. In un contesto simile, il culto del denaro
promosso dal liberalismo non basta per dare ordine alla vita di queste generazioni. Questo vuoto
spalanca le porte a ideologie di tipo spiritualistia e new age che oggi sono rigogliose e fiorenti. Allo
stesso modo, la seduzione esercitata da Daesh nei riguardi di un certo numero di ragazzi e ragazze
può spiegarsi così, anche se questo li conduce agli atti più orribili.

Persino il discorso sulla «laicità» come antidoto al «fanatismo» diventa parossistico in
questa situazione…

La laicità secondo il modello francese non si poteva compredere se non in rapporto alla lotta contro
una religione egemonica: il cattolicesimo, considerato alla stregua di un «oppio del popolo». Oggi, la
religione o, meglio, il religioso è visto come «il sospiro della creatura oppressa», per riprendere
l’espressione di Marx. L’islam si inscrive in questa prospettiva e tutto questo ovviamente si lega allo
sviluppo delle idee postcoloniali.

Tra gli effetti perversi del postcolonialismo vi sarebbe il rischio di etnicizzare i conflitti.
Ma nell’attuale contesto, anche la questione dei diritti umani e dell’universalismo non
è priva di insidie…

Ciò che fanno i postcoloniali è insorgere contro l’imposizione dei diritti umani all’umanità nel suo
complesso, poiché giudicano questi diritti di ispirazione occidentale. Le porto un esempio: certi
omosessuali dei paesi del sud protestano contro il fatto che le organizzazioni gay occidentali
vogliano imporre il coming out agli omosessuali del sud poggiando sul fatto che nelle loro società
l’omosessualità è un affare privato e non deve essere esposto sulla pubblica piazza.

Nell’«Ethnicisation de la France» lei parla di una frammentazione del corpo sociale.
Frammentazione che mette l’uno contro l’altro due segmenti della popolazione: identità
maggioritaria contro identità minoritarie. Crede che in seguito agli avvenimenti di Parigi si
assisterà a una radicalizzazione di questa divisione?

Penso che la guerra intrapresa contro Daesh bombardando in Iraq e Siria, ma anche gli interventi in
Mali e nella Repubblica Centrafricana, interventi tutti diretti contro l’islam radicale, non può che
alimentere il flusso sempre più importante di jihadisti diretti in Medioriente o operativi sul suolo
francese. Per una serie di ragioni, la Francia è il tallone d’Achille dell’Occidente e per questa
ragione Daesh la attacca. D’altra parte, va detto che gli attentati suscitano già reazioni islamofobe
e accentuano la divisione tra popolazioni venute dal mondo arabo-musulmano, indipendentemente
dalla loro nazionalità francese o meno, che si considerano «Français de souche». Ma questa
islamofobia non impedisce il perpetuarsi di altre forme di razzismo, come l’antisemitismo.

Identità, una parola pericolosa. Ma oggi siamo già oltre anche rispetto a questo pericolo
e nello spazio pubblico, oltre che nel dibattito politico, siamo passati alla questione
dell’identità in guerra. Lo spazio sociale sembra già scomparso dal nostro orizzonte…

Credo che tutto si stia assemblando in modo tale da farci entrare davvero in una «guerra di civiltà».
In questo processo l’identità viene allora messa in primo piano. Il sociale sta lasciando a poco a poco
il posto al razziale. Con grande soddisfazione dei postcoloniali. Questa posizione si è chiaramente
espressa il 31 ottobre, a Parigi, alla «Marcia della dignità contro il razzismo». C’erano tutte le
organizzazioni postcoloniali, tranne le organizzazioni antirazziste universaliste. Ciò che è in
questione in taluni settori delle popolazioni discriminate, almeno attraverso i loro portavoce, è l’idea
che l’universalismo sia «bianco», che esista dunque un «privilegio bianco», che consente di sfuggire
al razzismo. Così facendo ci mettiamo in un vicolo cieco, dobbiamo uscirne. Per questo dobbiamo
combattere.

Dalla vocazione universale dei diritti umani allo studio del meticciato
Antropologo, professore all’Ecole des Hautes études en sciences sociales (EHESS) di Parigi,
Jean-Loup Amselle è redattore capo dei «Cahiers d’études africaines» . Ha studiato le questioni del
meticciato e del multiculturalismo in lavori come: «Logiche meticce. Antropologia dell’identità in
Africa e altrove» (Bollati-Boringhieri, 1999); «Connessioni. Antropologia dell’universalità delle
culture» (Bollati-Boringhieri, 2001); «L’invenzione dell’etnia» (Meltemi, 2008); «Contro il
primitivismo» (Bollati-Boringhieri, 2012). I suoi ultimi libri, editi dalle Editions Lignes, sono
«L’Anthropologue et la politique» (2011), «L’Ethnicisation de la France» (2012) e «Les Nouveaux
Rouges-Bruns» (2014) In apertura di quest’ultimo lavoro, Amselle scrive: «questo libro nasce da un
sentimento di urgenza, di paura davanti all’avanzare di una destra dei valori. (…) Questa
configurazione rosso-bruna ha questo d’inquietante: tende a propagarsi al paesaggio intellettuale nel
suo insieme, perché tende a riempire un vuoto lasciato dalla morte delle ideologie, in particolare
quella che formava il cuore della sinistra, il marxismo».