Se la guerra corrisponde alla pace, la neutralità non può che essere «di parte». Così il ministro della difesa Pinotti, pervasa dal neopensiero, propone candidamente l’Italia come portabandiera del peacekeeping in un conflitto, quello ucraino, provocato proprio dalla Nato di cui l’Italia stessa è membro fervente. Chi manderebbe un incendiario a spegnere un incendio?
La ministra sembra non considerare minimamente il fatto che dopo il 1989 l’Italia è diventata un paese belligerante e pesantemente schierato, senza se e senza ma. Questa belligeranza si fonda su sei punti di forza: il persistente cieco atlantismo; la cessione di sovranità a favore delle esigenze militari e strategiche Usa; la creazione di un esercito professionale da offrire come corpo di spedizione per le peggiori avventure; il ricorso ai mercenari o contractors che dir si voglia; la volontà di convertire Finmeccanica alla sola produzione militare; le «porte scorrevoli» attraverso le quali sempre più alti ufficiali passano dai comandi ai consigli di amministrazione. Il «che fare» di un pacifismo conseguente ed incisivo non può prescindere da una lettura chiara ed organica di questi aspetti: purtroppo mi sembra che la linea espressa all’iniziativa dell’Arena di Verona mostri taluni limiti analitici e di proposta nonché una eccessiva fiducia nel libro bianco che la stessa Pinotti si appresta a varare. Il tema della riduzione delle spese militari (F35 compreso), se si risolve in se stesso, può persino trasformarsi in uno strumento utile a rendere più sostenibile la guerra nel quadro di un grande corpo di spedizione europeo al traino degli interessi statunitensi o del big businnes neocoloniale (v. il ruolo della Francia in Africa).
Le nostre forze armate sono state riorganizzate sul modello anglo-americano ed il reclutamento della truppa volontaria ha attinto dalla disoccupazione, tra le classi sociali più disagiate e non a caso principalmente nel mezzogiorno. Da un punto di vista democratico e costituzionale ed in tempi di cavalcante autoritarismo istituzionale, questa dinamica concreta è sommamente pericolosa; anche perché si è deciso di trasformare la truppa in un corpo sociale sostanzialmente separato all’interno dell’organizzazione militare dello stato.
Il nuovo esercito professionale è stato concepito per fornire la cornice giuridica adeguata alla necessità di essere integrato nel sistema operativo Nato ed essere proiettato ovunque nel mondo in un nuovo contesto operativo multinazionale interforze. L’esercito professionale trae il suo stesso senso d’esistere dall’essere impiegato come corpo di spedizione e occupazione con la missione di presidiare (e combattere in) territori situati al di fuori dei confini nazionali; da qui la necessità di una ferma volontaria di almeno quattro anni.
Non è più sufficiente proporre riduzioni di spesa — doverose — senza vincolarle alla proposta di una nuova e diversa forma di esercito. Non considerare la questione «perché gli eserciti andrebbero aboliti» è un grosso errore. Il modo in cui questi — ormai tutt’altro che aboliti — sono organizzati non è mai neutro e buono per ogni cosa. Ad ogni tipo di organizzazione corrisponde un peculiare uso e l’uso (strutturalmente costosissimo) dell’esercito professionale non è di tipo difensivo/territoriale ma offensivo da spedizione (con o senza F35, con o senza paralleli «dipartimenti di difesa civile» e servizi civili obbligatori).
Per una politica di «riduzione del danno» e per disinnescare concretamente le nostre responsabilità di guerra sarebbe ragionevole studiare e promuovere la formazione di un nuovo esercito costituzionale, di leva ma «civile», e con l’opzione dell’obiezione di coscienza, aperto a donne e uomini e che sia organizzato per integrare subito importanti funzioni logistiche e di supporto alla Protezione civile e per questo strutturalmente inservibile alla Nato.
Andrebbe studiato un nuovo concetto di difesa territoriale/ambientale, anche in ambito europeo, che metta le forze armate nelle condizioni di gestire direttamente sia aspetti di manutenzione e messa in sicurezza, sia soprattutto le ricorrenti e devastanti fasi d’emergenza (incendi, alluvioni, terremoti, dissesto idrogeologico) ossia le vere minacce alla sicurezza dei cittadini. Dentro queste nuove sinergie sarebbe anche possibile ripensare le strategie industriali di Finmeccanica.