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[Disarmo] Bentornata a Sarajevo lotta di classe
- Subject: [Disarmo] Bentornata a Sarajevo lotta di classe
- From: "rossana123 at libero.it" <rossana123 at libero.it>
- Date: Thu, 13 Feb 2014 14:35:11 +0100 (CET)
- Reply-to: "rossana123 at libero.it" <rossana123 at libero.it>
Tommaso Di Francesco L'analisi. In Bosnia Erzegovina, nei luoghi della sanguinosa guerra interetnica degli anni Novanta, torna la protesta dei lavoratori. E l’Occidente minaccia «l’invio di truppe» Da una settimana ormai dilaga la protesta dei lavoratori in Bosnia Erze govina, significativamente nelle stesse località, a partire da Sara jevo, che poco più di 20 anni fa hanno visto lo scatenarsi della guerra inte retnica che dissolse nel sangue la Federazione jugoslava. Ce n’è abba stanza ormai per trarne alcune considerazioni che non riguardano solo il sud-est europeo che, chissà perché, ci ostiniamo a considerare lontano. Perché quel che accade rimette probabilmente in discussione un paradigma storico e politico. Tutto iniziò con la crisi economica Con la protesta sociale diffusa in tutti i Balcani — solo a gennaio è ripresa l’iniziativa dei lavoratori serbi contro una draconiana legge sul lavoro voluta dal governo di Belgrado, per non parlare di altre proteste in Croazia, Montenegro, Macedonia e nello stesso ancora conteso Kosovo — assistiamo ad una sorta di «ritorno al futuro». La crisi dell’ex Jugoslavia fu infatti prima di tutto crisi economica e sociale e poi arrivò il cancro dei nazionalismi separatisti, anche grazie alla debolezza della Costi tuzione di Tito e Kardelj del 1974 che autorizzava il diritto di veto delle rappresentanze istituzionali delle varie Repubbliche anche equamente ripartite. Quando la crisi economica irruppe, a metà degli anni 80, comin ciò a sgretolarsi il sistema della solidarietà tra le varie Repubbliche (e regioni autonome) che componevano il delicato mosaico jugoslavo. Con le regioni più «ricche» pronte a difendere i propri cittadini, ma invise a soccorrere le aree più arretrate, regioni che spesso corrispondevano quasi strutturalmente ad altrettanti nodi istituzionali e politici legati ai diritti delle minoranze che lì vivevano. Come fu il caso del Kosovo. Come si può capire, fu quasi un anticipo del conflitto inter-europeo che contrappone oggi i vari paesi dell’Unione in equilibrio paritetico di poteri solo nella rappresentanza di turno nella presidenza Ue. Proprio come fu per la Jugoslavia. A quel conflitto sociale che puntava a salvaguardare la condizione dei lavoratori e il welfare garantito, minimo, infimo ma importante, invece che un’azione autonoma e indipendente dei sindacati e un ruolo decisivo dell’istituzione dell’autogestione — entrambe realtà sostanzialmente margi nali, senza poteri effettivi e subalterne rispetto all’emergere dei diritti nazionali — maturò una gestione nazionalista della protesta diffusa. Fu così per il complesso agroindustriale dell’Agrokomerc in Bosnia, così per le fabbriche in Croazia, Slovena e Serbia, così per le miniere in Kosovo e per i cantieri montegrini. Alla fine più che la lotta di classe contò ancora una volta lo scontro tra interessi identitari più o meno mascherati. Esi ziale fu la gestione dell’Unione europea (allora si chiamava ancora Cee) quando, piuttosto che salvaguardare l’unità della Federazione jugo slava, legittimò la guerra, intanto esplosa, con il riconoscimento di Slo venia e Croazia come nazioni sovrane dopo la loro autoproclamazione in stati autonomi sulla base etnica della «slovenicità» e della «croati cità». Preparando il baratro del conflitto in Bosnia dove ogni naziona lità, lingua e religione erano rappresentate. Questo ruolo di Bruxelles — ma anche della Nato, siamo nel 1992 a tre anni dall’89 — mostra quale fu da quel momento in poi il ruolo dell’Unione europea. Con il miraggio dell’ingresso nell’Ue offerto a questi nuovi stati nazio nali, fu di sostanziale compartecipazione alla guerra, con l’ accaparramento di influenza contrapposte: la Francia diventava filo-serba, la Gran Bretagna filo-bosniaca, la Germania filo-croata e via dicendo. Il tutto con l’avvento nell’area della «diplomazia» statunitense. Alla fine decisiva, sia per la risoluzione della guerra in Bosnia con la pace di carta di Dayton a fine 1995, e in seguito con l’intervento armato aereo della Nato per la «risoluzione» dell’irrisolta crisi kosovara nel 1999. La coazione a ripetere occidentale Che c’entra tutto questo con la protesta sociale in corso? Varrà la pena riflettere sul fatto che l’unica risposta che è venuta in questi giorni dall’ Occidente sulle agitazioni dei lavoratori e le proteste sociali in tutti i Balcani, a cominciare dalla Bosnia, sia stata ancora una volta la minaccia dell’uso della forza. L’Unione europea, pare di capire, non può permettersi di veder fallire la finta sicurezza definita nel sud-est — colonie d’ oltremare? — con vere e proprie occupazioni militari, proprio ora che è alle prese con la crisi di senso e di solidarietà del suo status fonda tivo. E allora che fa? L’Alto rappresentante della Comunità internazio nale in Bosnia Erzegovina Valentin Inzko, preso da un attacco di coazione a ripetere, minaccia: «Se la situazione dovesse peggiorare dovremmo ricor rere all’invio di truppe dell’Unione europea». Lo «spazio jugoslavo» Quel che è sotto gli occhi di tutti è il fatto che, proprio grazie alla pro testa diffusa dei lavoratori, sta tornando lo «spazio jugoslavo». Per ché se tutto è nato dalla crisi economica degli anni Ottanta, non fu certo la guerra interetnica a risolverla. Anzi, la guerra l’ha aggravata, i poveri sono diventati più poveri e ad arricchirsi sono state tutte le mafie che la guerra hanno voluto e alimentato. La massa che la guerra ha combattuto è ferita, mutilata e senza nemmeno sostegni, i salari sono di fame, la disoc cupazione vale per metà della popolazione. Una situazione se possibile peggiore della Grecia. E nel centenario della Grande guerra che ebbe ori gine, ufficialmente, proprio a Sarajevo, mentre la città resta, come allora, sospesa tra le strategia delle grandi potenze dell’area. Ieri è «occa sionalmente» arrivato in visita anche il ministro degli esteri turco Davutoglu. L’Unione europea per legittimare l’ingresso degli stati balcanici nel suo «allargamento» insiste ad amministrarli con il Fondo monetario interna zionale che ha avviato da tempo mega-privatizzazioni di tutto, servizi e com plessi industriali. Che ormai falliscono, dopo avere arricchito élite e mafie locali. E si accende la rivolta sociale. Già la disinformacjia dei regimetti e i corvi ultranazionalisti arrivano per riproporre l’ ennesima strumentalizzazione della protesta, pronti ad impadronir sene, a Mostar, a Banja Luka, a Sarajevo, dove emerge anche una rottura gene razionale. Ci raccontano da Sarajevo che molti cittadini restano sgo menti e dolorosamente ammettono: «Il palazzo della presidenza noi l’ abbiamo difeso con le armi dai cetnik, ora i nostri figli lo bruciano…che sta accadendo?». In piazza a Tuzla gli operai delle cinque fabbriche fallite dopo la privatizzazione dichiarano: «Restituite le fabbriche ai lavora tori» e il primo giorno hanno scritto sui muri della città «Morte al naziona lismo». Nema problema, è davvero una buona notizia. Bentornata lotta di classe.
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