Insostenibile il cimitero navale NATO nell’Arsenale di Messina



 Insostenibile il cimitero navale NATO nell’Arsenale di Messina

di Antonio Mazzeo

La conversione dell’Arsenale di Messina in Centro d’eccellenza NATO dove 
demilitarizzare e smaltire le unità navali militari sino a 2.000 tonnellate è, 
tuttora, “nella fase istruttoria da parte dell’Agenzia Industrie Difesa (AID)”. 
Così ha risposto il ministro della difesa Giampaolo Di Paola all’interrogazione 
parlamentare presentata dall’on. Americo Porfidia di Noi Sud lo scorso mese di 
luglio.

“Affermare che il progetto sia sposato dalla NATO Maintenance and Supply 
Agency (NAMSA), l’agenzia logistica con sede a Capellen (Lussemburgo), è ancora 
prematuro”, ha aggiunto Di Paola. “Il progetto potrà passare alla fase 
propositiva solo dopo tutti gli accertamenti di sicurezza e di convenienza. 
Anche nel caso in cui gli approfondimenti da parte dell’AID portino a riscontri 
complessivamente positivi, non è detto però che NAMSA giudichi accettabile la 
candidatura dell’Arsenale di Messina”.

Ancora tutto da decidere insomma sul futuro della struttura industriale 
militare peloritana, in crisi produttiva ed occupazionale da ormai lungo tempo. 
A volere la realizzazione nella centralissima zona falcata di Messina di un 
grande cimitero-pattumiera del naviglio da guerra NATO è soprattutto il 
direttore generale dell’Agenzia Industrie Difesa, Marco Airaghi, pure 
presidente della Consulta Nazionale per l’Aerospazio e vicepresidente dell’
Agenzia Spaziale Italiana (ASI). “L’AID, avendo come compito istituzionale il 
conseguimento dell’autosufficienza economica delle unità produttive assegnate 
alla sua gestione deve necessariamente prendere in esame progetti di 
riconversione, totale o parziale, allo scopo di portare le attività a livelli 
sufficienti per il loro mantenimento in funzione”, spiega il ministro Di Paola. 
“La via della riconversione presenta le maggiori probabilità di conseguire un 
risultato positivo, in particolare, proprio per l’Arsenale militare di Messina, 
tenuto conto della profonda crisi del settore della cantieristica”. Per il 
cosiddetto progetto NAMSA saranno necessari investimenti per un importo di 
circa 25-30 milioni di euro, che consentiranno la costruzione all’interno dell’
arsenale di “aree per l’accumulo di materiali da smaltire” e degli impianti 
necessari per la sicurezza ambientale.

Durante le operazioni di dismissione delle unità NATO i lavoratori opereranno 
a stretto contatto con innumerevoli agenti inquinanti, rifiuti tossici e 
speciali, ma ciò non sembra preoccupare le autorità di governo. “È opportuno 
precisare che lo smontaggio e lo smaltimento di navi militari radiate dal 
servizio, comporta operazioni su unità completamente scariche e asciutte, 
quindi con esclusione della presenza di prodotti chimici e di idrocarburi, e 
trattamenti secondo legge di taluni materiali di allestimento”, afferma Di 
Paola escludendo dunque i rischi di inquinamento ambientale. “Le modalità 
operative sono sostanzialmente riconducibili a quelle delle operazioni di 
raddobbo e di riparazione navale usualmente svolte dall’arsenale. Qualora si 
dovessero realizzare nuove opere, in particolare connesse ad attività 
concernenti la gestione di materiali pericolosi, è evidente che si dovrà 
acquisire il parere del comitato misto paritetico regionale costituito ai sensi 
del decreto legislativo n. 66 del 2010”. Strano gioco di parole quello del 
ministro: prima si esclude l’esistenza di prodotti inquinanti, poi invece si 
ipotizzano nuove infrastrutture per la loro gestione. Di Paola omette inoltre 
di rilevare che il comitato paritetico ha meri poteri consultivi sui “problemi 
connessi all’armonizzazione tra i piani di assetto territoriale e di sviluppo 
economico e sociale e i programmi delle installazioni militari”. Inoltre l’
organo regionale non possiede alcuna competenza tecnico-scientifica per poter 
valutare i rischi per l’ambiente e la salute di eventuali nuove attività e 
impianti.

La versione ultratranquillizzante del ministro della Difesa sugli interventi 
di dismissione e smaltimento delle unità da guerra è smentita però dai 
contenuti di uno specifico studio della Commissione dell’Unione Europea 
risalente al maggio del 2007. Il Libro Verde - Per una migliore demolizione 
delle navi, presentato in vista della preparazione di una strategia comune 
“finalizzata alla tutela dell’ambiente e della salute umana” e alla “promozione 
di strutture di riciclaggio ecologiche”, si apre con l’affermazione che la 
demolizione è un’attività “pericolosa”. “Nell’epoca della globalizzazione, la 
demolizione delle navi è motivo di preoccupazione”, aggiunge il Libro Verde. 
“Per il momento è sostenibile sotto il profilo strettamente economico, ma 
presenta costi elevati per la salute umana e per l’ambiente. Occorre dunque al 
più presto un cambiamento radicale”.

Bruxelles ha stimato che nei dieci anni successivi alla pubblicazione del 
Libro Verde saranno smantellate circa 100 tra navi da guerra e altre unit� 
battenti bandiera di uno Stato dell’UE, “soprattutto francesi e britanniche”. 
Si tratta in buona parte d’imbarcazioni militari costruite tra gli anni ‘60 e i 
primi anni ’80, con quantitativi “relativamente elevati” di materiali 
pericolosi. “Con le navi destinate alla rottamazione tra il 2006 e il 2015, si 
prevede che nei cantieri di demolizione confluiranno circa 5,5 milioni di 
tonnellate di materiali potenzialmente rischiosi per l’ambiente, in particolare 
morchie, oli, vernici, metalli pesanti, PVC, PCB (bifenili policlorurati) e 
amianto”, aggiunge lo studio UE. Sempre secondo la Commissione, le morchie 
derivanti dalle navi da rottamare inciderebbero annualmente per 400.000-
1.300.000 tonnellate, l’amianto per 1.000-3.000 tonnellate, il tributilstagno 
(TBT) per 170-540 tonnellate, le “vernici nocive” per 6.000-20.000 tonnellate.

La lettura del Libro Verde dell’Unione Europea pone inoltre serissimi 
interrogativi sulla reale sostenibilità economica-finanziaria del progetto 
NAMSA per l’Arsenale di Messina. La domanda internazionale di dismissione di 
unità navali non coprirebbe infatti minimante l’offerta d’intervento a basso 
impatto ambientale da parte dei numerosissimi cantieri e arsenali navali già 
esistenti in ambito UE o nei principali paesi partner. “La capacità oggi 
esistente di demolizione ecologica delle navi all’interno dell’UE e in Turchia 
(paese membro dell’OCSE dove è possibile esportare anche rifiuti pericolosi e 
dove sono presenti sul litorale di Aliaga, vicino Smirne, circa 20 cantieri di 
demolizione con una capacità complessiva di quasi 1 milione di tonnellate l’
anno) è sufficiente per le navi da guerra e le altre imbarcazioni di Stato che 
saranno smantellate nei prossimi dieci anni, un centinaio circa, con una 
capacità di oltre 1.000 ldt, per una stazza complessiva di 500.000 ldt”, 
afferma Bruxelles. Se poi si guarda a livello mondiale, la capacità di 
riciclare le navi nel rispetto delle norme di tutela ambientale e di sicurezza 
viene stimata in 2 milioni di ldt/anno, come dire quattro volte in più della 
domanda europea per dieci anni.

A complicare il quadro subentrano però alcuni degli effetti più negativi del 
mercato globale di matrice neoliberista. I costi nettamente più bassi offerti 
dai cantieri navali proliferati soprattutto in Asia meridionale hanno infatti 
reso sempre meno utilizzati e concorrenziali gli impianti ecologici o 
ammodernati degli Stati membri dell’Unione. “Viste le attuali condizioni di 
mercato, per gli operatori dell’UE è impossibile competere con quelli dell’Asia 
meridionale”, annota il Libro Verde. Attualmente oltre i due terzi delle 
imbarcazioni navali sono demoliti sui litorali e sulle rive dei fiumi di 
Bangladesh ed India. In questi paesi i lavoratori guadagnano appena 1-2 dollari 
al giorno, una cifra irrisoria se paragonata a quanto versato ad un operaio nei 
Paesi Bassi (250 dollari) o nella più “economica” Bulgaria (13). Ancora più 
infime le spese che i datori di lavoro devono sostenere per la salute e la 
sicurezza negli impianti industriali asiatici. “Nessuno dei siti impiegati per 
smantellare le navi nel subcontinente indiano è dotato di sistemi di 
contenimento per impedire l’inquinamento del suolo e delle acque, solo pochi 
dispongono di strutture per il conferimento dei rifiuti e il loro trattamento è 
raramente conforme anche a norme ambientali minime”, denuncia la Commissione 
europea. Di conseguenza le condizioni di sicurezza e salute all’interno di 
questi cantieri di demolizione sono ipercritiche. I dati ufficiali riportano 
che nel più grande sito di rottamazione indiano, Alang, tra il 1996 e il 2003 
si sono verificati 434 incidenti con la morte di 209 persone. In Bangladesh 
negli ultimi 20 anni sarebbero rimasti uccisi invece più di 400 lavoratori e 
gravemente feriti 6.000 circa.

“A questi dati vanno aggiunte le migliaia di persone che contraggono malattie 
irreversibili perché entrano in contatto o inalano sostanze tossiche senza la 
minima precauzione o protezione”, aggiunge il Libro Verde. “Secondo un rapporto 
medico presentato alla Corte suprema dell’India nel settembre del 2006, il 16% 
della manodopera che manipola amianto ad Alang risultava affetto da asbestosi e 
correva dunque un rischio elevato di contrarre il mesotelioma”, una forma di 
tumore al polmone che raggiunge il picco di incidenza solo vari decenni dopo l’
esposizione.

“Finché non ci sarà parità di condizioni sotto forma di norme obbligatorie 
efficaci e valide per le attività di demolizione delle navi a livello mondiale, 
gli impianti europei avranno sempre difficoltà a competere sul mercato e i 
proprietari delle navi tenderanno sempre a dirigere le loro navi verso siti 
asiatici che non soddisfano gli standard minimi”, conclude l’UE. Appare dunque 
impossibile che l’Alleanza Atlantica, guardiano armato del capitale finanziario 
globale, possa assumere comportamenti diversi. E comunque se pure non volesse 
scegliere l’India o il Bangladesh per rottamare fregate e sommergibili, sono 
già belli e funzionanti i centri navali della Turchia, pedina chiave NATO per 
il controllo del Mediterraneo e del Medio oriente. Perché allora il governo d’
Italia si ostina a candidare l’obsoleto Arsenale di Messina impedendone nei 
fatti la conversione a bene comune?