Fwd: Armi e PIL, le novità dal 2014 e due promemoria






-------- Messaggio originale --------
Oggetto: 	Armi e PIL, le novità dal 2014 e due promemoria
Data: 	Sun, 21 Oct 2012 12:01:34 +0200
Mittente: 	Alberto <media.rossa at tiscali.it>
A: 	<media.rossa at tiscali.it>



/Giusto per non dimenticare: ecco come si prepara la ripresaeconomica.
Ciao
Alberto/
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*Armi di distruzione nel PIL, le novità dal 2014*
http://amisnet.org/agenzia/2012/10/19/armi-di-distruzione-nel-pil-le-novita-dal-2014/

Dal 2014 la fabbricazione di armi di distruzione verrà conteggiata a
pieno nel computo del PIL dei singoli paesi. “Apparentemente si tratta
di un cavillo tecnico”, commenta Roberta Carlini, giornalista e
collaboratrice di Sbilanciamoci, “ma la modifica apporterà dei
cambiamenti sostanziali, dato che fino ad oggi esisteva una differenza
tra le spese militari che potevano avere anche un’utilizzo civile
(caserme, strutture di vario genere) e quelle destinate invece a
materiali che si distruggono nell’uso. Fino ad ora le spese di questo
secondo ordine venivano calcolate nel PIL per una percentuale che non
superava il 60%, dal 2014 lo saranno nella loro interezza. ”

La modifica viene dalle Nazioni Unite e i diversi istituti statistici
(Eurostat ed Istat per quanto riguarda Europa ed Italia) sono già al
lavoro per darle applicazione. Gli effetti che è possibile prevedere
parlano per un verso di un incredibile potere consegnato alle lobby di
produttori, potere che potrà ragionevolmente orientare le politiche
industriali e belliche. D’altro canto bisogna capire cosa questo
determinerà sui PIL dei diversi paesi e sul rapporto tra deficit e PIL.
“In un primo momento”, continua Roberta Carlini, “questo potrebbe
alleviare i conti di molti paesi, ma in prospettiva potrà avere effetti
nefasti. Questa vicenda va inquadrata nel dibattito a livello europeo
sulle spese fatte per investimenti e sulla possibilità di sottrarle al
computo del deficit. Se la produzione di armi di distruzione verrà
iscritta a tutti gli effetti nelle spese per investimenti, equiparandola
alla costruzione di ospedali e infrastrutture, saranno avvantaggiati i
paesi che producono armi.”

La produzione di armi gode di un generale occhio di riguardo anche in
epoca di spending review e di tagli alla spesa pubblica. Ad esempio
nessuno ha chiesto alla Grecia di ridurre la propria spesa militare,
piuttosto ingente. L’orizzonte che più concretamente si profila è quello
di un ulteriore scollamento tra gli indicatori economici e il reale
tasso di benessere e sviluppo di un paese.


  Sulle spese militari, il Ministro dà i numeri
  Gianni Alioti - Fonte: Unimondo - 27 febbraio 2012

Nel documento sui cento giorni del Governo Monti si sostiene che la
spesa per la Difesa in Italia, in rapporto al PIL, è la più bassa
d’Europa. Da un Governo fatto di tecnici e professori ci si
aspetterebbe, almeno, che sappiano “far di conto”. Invece in questo
caso, come sul costo dei caccia-bombardieri F35
<http://www.disarmo.org/rete/a/34753.html>e sulle ricadute occupazionali
del programma, stanno “dan do i numeri”.

Con un’operazione contabile che ricorda molto la “finanza creativa” con
la quale si è portato il nostro debito pubblico al 120 per cento del
PIL, nel documento si afferma - con “bocconiana” altezzosità - che le
spese militari in Italia sarebbero solo lo 0,90 per cento del PIL contro
una media Ue del 1,61 per cento.

Quale sia la fonte e il modello comparativo adottato non è dato saperlo.
Possiamo, però, intuirlo e dare una “picconata” alla presunta serietà di
questo Governo, almeno in faccende militari e di armamenti
<http://www.unimondo.org/Guide/Guerra-e-Pace/Armamenti>.

*Questo numero magico (lo 0,9 per cento) non è nuovo*. Lo stesso
Ammiraglio Di Paola, passato in tutta fretta dal comando della NATO al
ruolo di Ministro della Difesa lo aveva usato in precedenti occasioni,
per cercare che la scure del rigore non si abbattesse pesantemente sulle
“alte uniformi” e sugli approvvigionamenti militari.

Peccato che sia proprio la NATO (e non Anonymous) a smentire quel numero.

La NATO nel suo report, /“/Financial and Economic Data Relating to NATO
Defence
<http://www.nato.int/cps/en/SID-0BB334A0-EADB6787/natolive/news_71296.htm?selectedLocale=en>/”
/pubblicato il 10 marzo 2011 e accessibile a chiunque, confronta la
spesa militare dei paesi che partecipano all’Alleanza Atlantica dal 1990
al 2010. Ovviamente lo fa riclassificando i criteri contabili e
gestionali di ciascun paese in modo che le voci di spesa incluse
nell’analisi comparativa siano le stesse. Non c’è bisogno di avere un
dottorato in Economia alla Bocconi per sapere che non si possono
comparare “mele con pere”.

La NATO per dare maggiore attendibilità al confronto tra i paesi, oltre
a calcolare il peso delle spese militari sul PIL su base annuale, fa una
comparazione dei valori medi in un arco temporale di cinque anni.

Che cosa è evidente dai dati forniti dalla NATO?

1. *La spesa militare in Italia in rapporto al PIL (a prezzi correnti)
non è la più bassa dell’Unione Europea, *come scritto nel documento
ufficiale della Presidenza del Consiglio, /“Governo Monti: attività dei
primi cento giorni”/. Non solo è maggiore del “magico” 0,9%, ma è
superiore al dato di Germania e Spagna (per restare ai paesi
territorialmente comparabili al nostro). E’ vero che Francia e Regno
Unito spendono di più dell’Italia, ma non possiamo dimenticare che
questi paesi, oltre ad essere membri permanenti del Consiglio di
Sicurezza dell’ONU, hanno propri arsenali nucleari i cui costi di
semplice mantenimento e messa in sicurezza sono enormemente alti. Rimane
la Grecia, il paese più spendaccione - in campo militare - dell’intera
UE in rapporto al proprio PIL. Non mi sembra, però, un caso virtuoso da
prendere ad esempio per riformare il sistema di Difesa in Italia e
ridurre il debito pubblico.

2. Anche i dati per l’anno 2010 (i più recenti in ambito NATO)
confermano che la spesa militare in Italia in rapporto al PIL (a prezzi
correnti), pur escludendo la quota destinata all’Arma dei Carabinieri,
non è la più bassa dell’UE. *L’Italia è al 1,4%, come la Germania e più
della Spagna (1,1%)*, mentre la media NATO dei paesi europei è al 1,7%,
di poco superiore a quella italiana.

3. Infine, se compariamo non i valori statici, ma il trend - cioè la
variazione nel te mpo - *l’Italia è uno dei paesi europei che meno hanno
ridotto il peso delle spese militari in rapporto al PIL nell’arco di
venti anni*: in Francia questo rapporto si è ridotto del 30%, in
Germania del 38%, in Grecia del 28%, nel Regno Unito del 32%, in Spagna
del 25%, mentre in Italia del 20%.

Se permangono dei dubbi sulle fonti, consiglio di verificare non il sito
della Rete Italiana Disarmo, ma quello della Central Intelligence Agency
(sì, proprio la CIA). Nella sua pubblicazione /“/The World Factbook/”,
/c’è l’elenco della spesa militare di ciascun paese (non solo NATO) in
rapporto al proprio PIL. L’Italia - secondo la CIA - spende l’1,8% del
proprio PIL.

Il dato curioso è che, mentre i valori per molti paesi sono aggiornati
al 2009, quello dell’Italia è fermo al 2006. Non certo perché la CIA non
ha accesso alle tabelle NATO. Più semplicemente perché non ha ritenuto
corretto che dal 2007 la NATO non abbia più considerato le spese per
l’Arma dei Carabinieri. Scelta alquanto discutibile fintanto che
quest’ultima dipenderà dal Ministero della Difesa e sarà impiegata in
scenari di guerra, come i contingenti di Esercito, Marina e Aeronautica.

Dello stesso parere è il SIPRI (Stockholm International Peace Research
Institute <http://www.sipri.org/>) - il prestigioso istituto svedese
indipendente - che nel monitorare le spese militari nel mondo, secondo
una metodologia corretta, che stabilisce di includere ed escludere le
stesse cose nei dati di ciascun paese, certifica che l’Italia spende in
media nel periodo 2005-2009 l‘1,8% del PIL. E' solo lo 0,2% in più dei
dati NATO ma un valore doppio rispetto a quello dichiarato dal Governo
italiano.

*Com’è possibile un divario così ampio? *La ragione è semplice. Lo 0,9%
è il risultato di una manipolazione contabile che sottrae dal calcolo
delle spese militari, le voci del bilancio del Ministero della Difesa
destinate alle pensioni e accantonamenti obbligatori, alle funzioni
esterne (es. l’impiego dei militari in interventi di protezione civile)
e all’Arma dei Carabinieri (in totale più di un terzo del budget). Nello
stesso tempo non computa né il fondo per le missioni internazionali
(1,640 miliardi di euro nel 2011), ascritte in bilancio al Ministero
dell’Economia e Finanze, né i fondi ascritti al Ministero dello Sviluppo
Economico per finanziare programmi di nuovi sistemi d’arma (2,248
miliardi di euro nel 2011).

*Lo 0,9% corrisponde, quindi, solo alle spese di personale, esercizio e
investimento a bilancio del Ministero della Difesa, mentre le spese -
pur espressamente militari - sostenute da altri dicasteri non sono
calcolate.*

Non si tratta, qui, di discutere sulla necessità di una
riclassificazione della spesa militare per arrivare ad una definizione
standard comunemente accettata a livello internazionale. Ciò che non si
può accettare è l’operazione strumentale con cui il Governo italiano,
mentre arbitrariamente esclude dal calcolo delle spese militari la voce
pensioni e non include i fondi delle missioni internazionali, lo fa solo
per l’Italia e non per gli altri paesi, finendo per comparare “mele con
pere”.

*/Gianni Alioti/*. Ufficio Internazionale Fim-Cisl <http://www.fim.cisl.it/>

*Vola il prezzo degli F-35 *

Eleonora Martini, il manifesto 17 ottobre 2012

Decollano verticalmente i prezzi dei cacciabombardieri che l'Italia ha
programmato di acquistare. Per pagare, si risparmia sulla scuola
pubblica. Il segretario generale del ministero ammette: «Ci costeranno
il doppio»

Debertolis rettifica i dati ufficiali del governo presentati alla Camera
nel febbraio scorso La notizia ora è ufficiale: i 90 cacciabombardieri
Lockheed Martin F-35 che l'Italia ha deciso di comperare costeranno più
del doppio di quanto dichiarato dal ministero della Difesa in
un'audizione ufficiale alla Camera nello scorso febbraio. Lo ha ammesso
con nonchalance lo stesso segretario generale del ministero della Difesa
e direttore nazionale degli Armamenti, il generale Claudio Debertolis,
raccontando in un'intervista pubblicata dal magazine Analisi Difesa i
dettagli del nuovo programma italiano di acquisto del Joint Strike
Fighter, dopo il taglio di 41 unità deciso a febbraio dal governo Monti.

Debertolis chiarisce che il prezzo di 80 milioni di dollari per ciascuno
dei primi tre F-35 di tipologia A, quelli a decollo convenzionale
(previste 60 unità), si riferiva «a una pianificazione ormai superata
dalle vicende del programma e verteva sul solo aereo "nudo". Aggiornando
i prezzi e aggiungendo tutte le altre voci di spesa - riferisce
Debertolis nell'intervista - il costo di questi primi Jsf italiani in
realtà sarà più del doppio». Non solo: Debertolis ha anche ammesso che
«l'impianto Faco sulla base aerea novarese (Cameri, ndr) partirà a
regime ridotto con inevitabili aggravi di costo cui si aggiunge per il
governo italiano, che li ha spesi, l'onere di recuperare i circa 800
milioni di euro investiti per realizzare la struttura». Chi ci guadagna,
invece, rivela ancora il generale, è Finmeccanica che, insieme alle
altre aziende che partecipano al programma, ha una prospettiva di
«ritorno industriale complessivo entro il 2026 di circa 13 miliardi di
dollari, pari al 77% del nostro impegno finanziario globale nel programma».

«Le bugie volano basse», è il commento della Rete italiana per il
Disarmo che dà grande risalto alla notizia e rivendica giustamente di
sostenere «da sempre una forte e sospetta sottostima dei costi
dichiarati dal nostro governo per l'acquisto di questi aerei». Per la
campagna «Taglia le ali alle armi» contro l'acquisto degli F-35, la Rete
per il Disarmo aveva raccolto le firme di 77 mila cittadini, 660
associazioni e il sostegno di oltre 50 enti locali, tra regioni,
province e comuni. Eppure il ministero della Difesa, e l'Aereonautica in
particolare, avevano sempre «cercato di gettare acqua sul fuoco delle
polemiche e delle richieste di chiarimento provenienti in particolare
dalla nostra Campagna», come ricorda Francesco Vignarca, coordinatore di
Rete Disarmo.

«In 11 anni - afferma ancora Debertolis nell'intervista rilasciata ad
Analisi Difesa - il costo del programma Jsf è aumentato a una media
giornaliera di 40 milioni di dollari». L'Italia, spiega il generale di
Squadra aerea, comincerà ad acquistare i 30 esemplari di F-35B, i
cacciabombardieri a decollo corto e atterraggio verticale, «il cui
contratto d'acquisto è previsto nel 2015» - e per il quale, è il caso
ora di ribadirlo, non esistono penali in caso di rescissione del
contratto - «quando, secondo le previsioni del bilancio della Difesa
2013 dalla Casa Bianca, il costo medio dell'aereo "nudo" sarà di 137,1
milioni di dollari (106,7 milioni di euro, ndr), per scendere poi a
125,1 nel 2016 e a 118.8 nel 2017». Mentre per gli F-35A, i cui primi
tre esemplari usciranno dalla catena di montaggio di Cameri nei primi
mesi del 2015, «per la sola configurazione standard (quindi con tutta
una serie di elementi ancora da aggiungere) - puntualizza la Rete per il
Disarmo - si parla di un costo tra i 100 e i 107 milioni di euro, cioè
oltre il 25% in più di quanto dichiarato a febbraio 2012 dagli stessi
esponenti della Difesa».

Purtroppo, è un vecchio vizio italiano che ha contagiato anche il
governo dei super-tecnici votati al rigore (degli altri), quello di
veder crescere costantemente i costi dichiarati ufficialmente al
Parlamento italiano per giustificare la decisione: «È già avvenuto nel
passato per altri aerei, come a suo tempo il Tornado e poi
l'Eurofighter», ricorda Maurizio Simoncelli dell'Archivio Disarmo che
chiede ora al governo di riferire con urgenza al Parlamento e di
«mostrare senso di responsabilità almeno nei confronti dei cittadini
italiani costretti a forti sacrifici, terminando questa serie di dati
parziali e rivendendo la propria decisione». Anche perché, come spiega
sempre il segretario della Difesa Debertolis, «il Pentagono è
preoccupato fra l'altro per le difficoltà di sviluppo del software
dell'aereo, la non corretta pianificazione dei collaudi, la
vulnerabilità ai cyberattack del sistema logistico integrato, e da
ultimo, dopo la distruzione in Afghanistan di 8 Harrier schierati su una
base avanzata da parte di una pattuglia appiedata di Talebani, per le
prospettive operative della versione Stovl (F-35B, ndr)».

Insomma, «aumenta proprio tutto, pure gli F-35», è la reazione ironica
di Nichi Vendola che su twitter si chiede: «Quante altre scuole
occorrerà chiudere? Di quanti docenti dovrà fare a meno l'istruzione
pubblica e l'università?». Dello stesso tono anche il presidente vicario
dei deputati dell'Idv Fabio Evangelisti, che definisce «inutile e
dannoso» il programma d'acquisto «che ci costa circa 15 miliardi di
euro». Mentre il Consiglio regionale della Toscana ha approvato
all'unanimità una risoluzione per chiedere al governo di rivalutare il
programma, «anche in considerazione di quanto queste risorse potrebbero
essere utili per la difesa dello stato sociale, dei cittadini più
deboli, per la ricerca, l'istruzione, l'innovazione ecologica».

Tornano però alla mente le parole del ministro della Difesa Giampaolo Di
Paola quando, nel dicembre scorso, ai giornalisti che gli chiedevano se
non fosse il caso di fare cassa tagliando le spese militari rispondeva:
«Non credo proprio». E probabilmente non ha cambiato idea.