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L'ipocrisia, un affare di guerra
- Subject: L'ipocrisia, un affare di guerra
- From: "rossana123 at libero.it" <rossana123 at libero.it>
- Date: Tue, 15 May 2012 16:37:04 +0200 (CEST)
TOMMASO DI FRANCESCO - il Manifesto | 15 Maggio 2012 Parla il generale Fabio Mini: «Il problema moderno è l'individuazione di ciò che degenera in guerra e che conduce gli strumenti militari pubblici a servire interessi di privato profitto» Un lucido e attualissimo pamphlet «Perché siamo così ipocriti sulla guerra» (ed. Chiarelettere, 84 pp, 7 eur)o di cruda denuncia dello strumento della guerra, a partire dal suo impianto ingannevole ed «ipocrita»; scritto da un «tecnico» che più politico e più controcorrente non si può: il generale Fabio Mini, già comandante generale della Nato in Kosovo. A lui abbiamo rivolto alcune domande, mentre la guerra conferma ad ogni ora la sua attualità e con essa l'inesistenza della sinistra (vecchia e nuova) che nemmeno si accorge di questa centralità. Se, come lei scrive, l'ipocrisia è l'ombra sporca che precede, gestisce e memorizza la guerra legittimandola dentro una nuvola di buoni sentimenti e scopi «umanitari», com'è possibile che questa evidenza, troppo spesso supportata da «media indipendenti», alimenti i governi e i potenti sostenuta dai poteri sovranazionali che su questa ipocrisia dovrebbero vigilare? L'ipocrisia non ha limiti e soprattutto fa comodo sia a chi ha la coscienza sporca sia a chi vorrebbe non sporcarsela. Di questi tempi è anche diventata un placebo per la pubblica opinione che conta molto e per questo è diventata l'obiettivo privilegiato delle manovre di manipolazione dell'informazione. Lei elenca molti fatti bellici della storia del XX secolo, dalla atomiche americane su Hiroshima e poi su Nagasaki, ma anche eventi degli ultimi venti anni (dall'Iraq alla Somalia, dal Kosovo all'Afghanistan, fino alla Libia) che hanno contrassegnato spesso il trionfo della menzogna, l'assassinio della verità come prima vittima di guerra, con l'emergere dei falsi pretesti... Come generale della Nato voglio ricordare in particolare i colloqui di Rambouillet che nel 1999 avrebbero dovuto e potuto evitare la guerra in Kosovo ma sono saltati per la strumentalizzazione di un falso massacro: quello di Racak. I cadaveri c'erano davvero ma non erano i tragici resti di una esecuzione di massa di civili innocenti. Erano il frutto di una sceneggiatura da parte dell'Uck, che in quel periodo già godeva del sostegno di molte diplomazie e servizi segreti occidentali. In una notte, una cinquantina di corpi di combattenti e di civili morti negli scontri con le forze di sicurezza serbe furono ammucchiati in un fosso. Il capo della Missione di Verifica dell'Osce Walker non aspettò né di vedere i corpi né di verificare le cause dei decessi. Rilasciò dichiarazioni di fuoco parlando di eccidio, genocidio e massacro. La stampa internazionale fece il resto, ma sembrava che tutti non aspettassero altro per iniziare la guerra. Le condizioni imposte ai serbi a Rambouillet con il pretesto di Racak erano semplicemente inaccettabili. Lei scrive che la scelta dell'ipocrisia da parte dei governi nell'approccio alla guerra deriva dal fatto che essa rappresenta un grosso affare. È possibile che stiamo andando verso una mega-ipocrisia, vale a dire la preparazione di un'altra guerra (qualcuna già si annuncia) «umanitaria», ma in realtà considerata proficua e necessaria come innesco di un trend di investimenti utili ad una sortita dalla crisi del capitalismo globale? Questo è in effetti lo scenario più probabile per tutte le attuali crisi internazionali, dall'affare della Corea del Nord alla Siria passando ovviamente per l'Iran e tutto il Mediterraneo. Gli affari sono una costante delle cause delle guerre e l'attuale crisi economica globale può essere collegata ai grossi affari fatti dai promotori delle guerre ai danni sia delle vittime sia degli attori principali. Il discutibile principio economico che vede il debito come uno strumento di raccolta di risorse è diventato un' ideologia ancora più ipocrita e dannosa inventando il «debito sovrano» proprio per finanziare le guerre. L'ipocrisia è anche un po' ironica perché un debito non rende nessuno sovrano, ma fa diventare schiavi. Se poi la guerra viene intesa in senso lato e «senza limiti» materiali e concettuali allora la stessa crisi globale è una guerra in cui le istituzioni statali, anche le più forti, sono vittime di bande di affaristi. Com'è che nella coscienza collettiva e nell'opinione pubblica, questi fenomeni, pur manifestandosi come un dejà vu, diventino la normalità, perché «così è la guerra...», dimenticando che le armi possono ritorcersi contro chi le usa (come addestrare fuori casa terroristi che poi tornano, in proprio, a saldare il conto; o come la gran quantità di spostati sociali che ormai sono diventati i veterani di guerra)? E com'è che, nel confronto e vanto delle civiltà, i nostri crimini occidentali di guerra, siano cancellati? Lei ricorda in particolare i bombardamenti con le cluster bomb sulle città jugoslave e il fosforo su Falluja... La gente di tutto il mondo sta vivendo nello smarrimento. Molti principi sono caduti, i miti non servono più a unire patos, etos ed etnos, ma diventano disgreganti e fallaci. La gente ha bisogno di «normalità» e grazie all'ipocrisia cade facilmente nella trappola di considerare normale anche ciò che non lo è. La guerra è sempre stato un fatto eccezionale, ma il bisogno di normalità rende la stessa guerra un evento normale, consueto, utile e perfino eticamente giustificato. Da questo punto ogni eccesso è somatizzato e tutto ciò che avviene in guerra è normale: dall'eroismo al massacro. Noi occidentali per definizione ci riteniamo esenti dai crimini di guerra collettivi: attribuiamo questi reati agli avversari di turno e processiano i nostri criminali come semplici «mele marce». La soglia di «normalità» è spacciata per sicurezza. Lei sottolinea i limiti del pacifismo, che arriva sempre dopo - anche se negli Stati uniti contro la guerra del Vietnam, per vastità e intensità, diventò «fronte interno». Dobbiamo tentare allora il «pacifismo preventivo»? E quanto vale ancora l'impianto della nostra Costituzione che, alla fine della Seconda guerra mondiale e del ruolo ambiguo che in essa ha giocato l'Italia, bandisce la scelta della guerra «nel dirimere le controversie internazionali»? Intanto dobbiamo denunciare le mistificazioni e non ci dobbiamo stancare di ragionare con la nostra testa. Il pacifismo preventivo è un concetto analogo alla guerra preventiva. Entrambi vorrebbero prevenire la guerra ma in realtà ne accettano la normalità. La guerra è normale anche perché gli strumenti di guerra, gli eserciti, sono stati banalizzati, i soldati si sentono pacifisti e vengono impiegati per ogni esigenza non tanto eccezionale, ma che non conviene o non si vuole risolvere con altri mezzi. La pletora di «emergenze» che vengono militarizzate, i commissari straordinari, le leggi speciali, gli «stati di eccezione» hanno reso le forze armate dei normali esecutori ai quali si può chiedere tutto e comodi alibi per l'impotenza o l'incapacità. Allo stesso tempo hanno reso comune quell'intervento militare che sanzionava ogni vera emergenza nazionale. La nostra Costituzione ha ripreso un concetto del nuovo diritto internazionale e ripudia la guerra «come strumento di risoluzione delle controversie» fra stati. E infatti non ci sono più guerre fra stati, quindi l'articolo 11 fa il suo mestiere. Tuttavia con la complicità dell'ipocrisia molte operazioni militari e alcune missioni «d'ingerenza umanitaria» finiscono per assolvere gli stessi compiti che un tempo avevano le guerre coloniali, di aggressione e di conquista. Il problema moderno non è più la dichiarazione formale di guerra, ma l'individuazione di ciò che «de facto» è guerra, ciò che degenera in guerra e ciò che conduce gli strumenti militari pubblici a servire interessi di privato profitto. Anche il pacifismo dovrebbe servire a questo e non semplicemente a denunciare il militarismo che è comunque una deviazione ideologica. Da militare rivendico il diritto della guerra di essere un fatto eccezionale che riguarda tutti i cittadini e di riservare ai militari il rispetto che si deve a coloro che s'impegnano a rischiare la vita per garantire la sicurezza. Rivendico anche il dovere dei militari di delineare le caratteristiche «de facto» delle missioni che la politica intende assegnare. Spetta a noi verificare i limiti di liceità, modalità e normalità delle operazioni militari. Abbiamo il dovere di definire la fattibilità delle missioni in base alle risorse disponibili e soprattutto la probabilità di successo nel raggiungimento degli scopi. Sempre a noi spetta il dovere di dirlo chiaramente sapendo che averlo detto non esonera nessuna catena decisionale o di comando dalle responsabilità.
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