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Sent: Tuesday, April 10, 2012 6:06
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Subject: La «riforma» dell’Articolo 11
di Manlio Dinucci da il Manifesto
Una «riforma strutturale
profonda»: così il ministro Di Paola definisce la revisione dello strumento
militare, presentata dal governo Monti su sua proposta. Che sia profonda non
c’è dubbio. Da oltre vent’anni talpe bipartisan stanno scavando sotto l’Art.
11 della Costituzione, che «ripudia la guerra come strumento di offesa alla
libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali».
I lavori in galleria iniziano nel 1991, dopo che la
Repubblica italiana ha combattuto la sua prima guerra, quella lanciata dagli
Usa in Iraq. Sotto dettatura del Pentagono, il governo Andreotti redige il
«nuovo modello di difesa» che stabilisce, quale compito delle forze armate,
non solo la difesa della patria (art. 52), ma la «tutela degli interessi
nazionali ovunque sia necessario».
Nel 1993 – mentre l’Italia
partecipa all’operazione militare lanciata dagli Usa in Somalia, e al governo
Amato subentra quello Ciampi – si dichiara che «occorre essere pronti a
proiettarsi a lungo raggio» al fine di «garantire il benessere nazionale
mantenendo la disponibilità delle fonti e vie di rifornimento dei prodotti
energetici e strategici».
Nel 1995, durante il governo Dini, si afferma
che «la funzione delle forze armate trascende lo stretto ambito militare per
assurgere a misura dello status del paese nel contesto internazionale». Nel
1996, durante il governo Prodi, si sostiene che quello militare deve essere
«uno strumento della politica estera».
Nel 1999 – dopo che il governo
D’Alema ha fatto partecipare l’Italia, sotto comando Usa, alla guerra contro
la Jugoslavia – si enuncia «la necessità di trasformare lo strumento militare
dalla sua configurazione statica ad una più dinamica di proiezione esterna»,
compito per cui è adatto «il modello interamente volontario». ossia l’esercito
di professionisti della guerra. Che si rivela prezioso per gli interventi
militari in Afghanistan e Iraq, sotto il governo Berlusconi.
Qui si
innesta il concetto strategico pentagoniano enunciato nel 2005 da Di Paola, in
veste di capo di stato maggiore. Di fronte alla «minaccia globale del
terrorismo», occorre «sviluppare capacità di intervento efficace e tempestivo
anche a grande distanza dalla madrepatria». Le forze armate italiane devono
operare nelle zone di «interesse strategico» che comprendono i Balcani,
l’Europa orientale, il Caucaso, l’Africa settentrionale, il Corno d’Africa, il
vicino e medio Oriente e il Golfo persico.
La guerra contro la Libia,
di cui Di Paola è nel 2011 uno degli artefici quale presidente del comitato
militare Nato, conferma la necessità che l’Italia costruisca uno «strumento
proiettabile», con spiccata capacità «expeditionary», attraverso una organica
pianificazione. Quella che Di Paola vuole ora istituzionalizzare con il
decreto legge, per creare forze armate più piccole ma più efficienti, con
mezzi tecnologicamente più avanzati (tra cui l’F-35) e più risorse per
l’operatività.
Ciò è dovuto non alla «necessità di contenere i costi» a
causa della crisi finanziaria, ma, come per l’Art. 18, alla necessità delle
oligarchie economiche e finanziarie, artefici della crisi, di rafforzare i
loro strumenti di dominio. Con l’aggravante che si vuole smantellare, insieme
a uno dei cardini dello Statuto dei lavoratori, uno dei principi fondamentali
della Costituzione.