[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
Guerra in Libia, costi e conseguenze
- Subject: Guerra in Libia, costi e conseguenze
- From: glry at ngi.it
- Date: Sun, 20 Mar 2011 22:27:53 +0100
- Priority: normal
Guerra in Libia. Quali costi e conseguenze?
I motivi possibili di un attacco, presentato ancora una volta come
umanitario, che minaccia di tradursi in un disastro di lungo
periodo, alle porte di una Europa che rischia di pagare un conto
elevatissimo.
di Carlo Ruta
In Libia è partita una guerra, che i governi dell’Occidente e gran
parte dei mezzi d’informazione presentano ancora una volta come
umanitaria. Di cosa si tratta realmente? Per comprendere quanto sia
credibile tale motivo, è utile partire da un paio di dati storici
recenti. Israele alcuni anni fa ha pianificato e attuato in
Palestina una operazione che ha denominato con coerenza «piombo
fuso». L’esito è stato di qualche migliaio di morti, quasi tutti
civili. Ma nessuno ha minacciato una guerra «umanitaria». Nessuno si
è guardato bene dal metterla in opera, come nessuno si era esposto a
tanto già nella precedente operazione «Pace in Galilea», dagli esiti
analoghi. Altro caso istruttivo è quello dello sterminio delle
popolazioni cecene pianificato e attuato da circa venti anni dai
governi della Russia, prima con Eltsin poi con Putin. Si tratta per
certi versi di una guerra infinita, che ha provocato centinaia di
migliaia di morti, in massima parte civili. Fino ad oggi nessuno
Stato ha invocato però l’avvio di guerre «umanitarie». Nella Libia
di Gheddafi tale tipo di azione, in difesa dei diritti delle
popolazioni, è stata invece voluta risolutamente dalle nazioni forti
dell’Occidente, su input degli Stati Uniti e con la convalida del
consiglio di sicurezza dell’ONU. A quali costi, in termini di vite
umane?
In Libia è in atto una virulenta repressione di regime, che in un
mese ha fatto centinaia di morti, forse qualche migliaio. Ma
l’attacco «umanitario» promette di tradursi in una ecatombe, con
numeri di vittime di molto superiori. Gli strateghi della Nato e del
Pentagono sono troppo avvertiti per non mettere nel conto esiti di
questo tipo, trattandosi di disarticolare una forza militare che,
allo stato delle cose, non è di poco conto. Non solo. È prevedibile
che occorra neutralizzare le reti militari non convenzionali, anche
queste non indifferenti, costituite anzitutto dalle unità
terroristiche e mercenarie del regime di Gheddafi. E, come
testimoniano le casistiche belliche degli ultimi decenni, se si
intende centrare quest’ultimo obiettivo, le stragi di civili, dette
comunemente «effetti collaterali», tanto più difficilmente saranno
evitabili. Nelle prime fasi della guerra preventiva in Iraq, per
eliminare cellule del regime deposto, i comandi americani non hanno
esitato a pianificare a Baghdad la distruzione di interi isolati in
cui risultavano annidate, con l’uccisione di tutti i civili che li
abitavano. E, come attestano numerose cronache, tale regola non
scritta ha funzionato e vige ancora in Afghanistan.
Le guerre «umanitarie» hanno avuto fino ad oggi un decorso
istruttivo. Se ne ricordano due recenti, per certi versi
emblematiche: quella in Somalia, nel 1992-93, e quella in Kosovo del
1999. La prima, un po’ per convincimenti strategici errati, un po’
per imperizia dei comandi sul terreno, è degenerata presto in una
carneficina «umanitaria» che ha raggiunto l’acme nella battaglia del
Checkpoint del 2 luglio 1993, chiusasi, secondo fonti ufficiose, con
centinaia di morti civili. Le folle somale, di cui si facevano scudo
i miliziani di Aidid e di altre fazioni, hanno saldato poi il conto,
con stragi dei «benefattori» occidentali. Infine questi ultimi,
resisi conto della palude in cui erano sprofondati, con un nemico
che finiva con il combaciare in tutto e per tutto con l’intera
popolazione, hanno dovuto uscirsene, lasciando una situazione
tragica. Ancora oggi la Somalia, come il Darfur, costituisce una
terra di nessuno, in ostaggio ai signori della guerra, ai pirati e
alle reti islamiche. La «guerra umanitaria» del Kosovo, condotta
dalla Nato, non è stata da meno. È stata scatenata per impedire le
stragi etniche di Milosevic, che avevano prodotto alcune centinaia
di morti. Si è verificato però un inconveniente. Le stragi di civili
compiute dagli alleati atlantici, note appunto come effetti
collaterali, hanno superato di gran lunga quei numeri. Sono state
fatte stime di decine di migliaia di morti. Non solo. È stato
certificato che i medesimi hanno fatto impiego, per fini offensivi,
di uranio impoverito, con effetti dannosi sulle popolazioni che
insistono ancora oggi. Infine una nota ugualmente tragica. Come ha
dovuto riconoscere di recente la stessa Unione Europea, il Kosovo,
sottratto con la forza a Milosevic e riconosciuto di recente come
paese sovrano, costituisce il primo narco-Stato d’Europa, sotto
l’egida di un personale tipicamente criminale. Questo paese,
incuneato nel centro esatto del continente, tra Oriente e Occidente,
suggerisce altresì norme di comportamento ai paesi contigui, come
l’Albania, invasa anch’essa dall’eroina e finita intanto, come altri
paesi, alle soglie del default.
Sul terreno, le guerre «umanitarie» presentano in definitiva un
saldo negativo. Restano poi un affare complesso, e dai contenuti
vaghi. Anche quella del Vietnam, da cui sono scaturiti circa 3
milioni di morti, di cui i due terzi civili, è stata giustificata
alla vigilia dello scatenamento come tale. E si è oltre il
paradosso. È legittimo allora un interrogativo: escludendo la
guerra, si sarebbe potuto adottare altro mezzo per soccorrere le
popolazioni colpite dal regime di Gheddafi? Si direbbe di sì. L’Onu
avrebbe potuto deliberare, per esempio, una soluzione pacifica e
realmente umanitaria, come quella adottata nell’ultimo mezzo secolo
in numerosi casi, dal Libano al Ruanda, dalla Bosnia all’Ossezia.
Avrebbe potuto sancire, in particolare, l’impiego, per quanto
possibile, di una forza d’interposizione tra le parti in conflitto,
tale da fare scudo anzitutto sulle popolazioni, propedeutica altresì
a un possibile cessate il fuoco. L’inaffidabilità del Raìs è
evidentemente un aspetto che non può essere minimizzato. Ma si
sarebbe potuto tentare. Un contributo forte sarebbe potuto venire
poi dalle regioni interessate. l’Unione Africana, l’organizzazione
sovranazionale cui fanno riferimento tutti i paesi africani ad
esclusione del Marocco, ha assunto una posizione netta, contraria
all’attacco militare degli Usa e di altri paesi forti
dell’Occidente. Si candidava in questo modo a intervenire sulla
vicenda, in modo autonomo, sul piano diplomatico e non solo. Ma, a
dispetto della decolonizzazione, la parola del continente nero non
ha contato praticamente nulla.
La decisione bellica era già presa? È quanto sembrano suggerire, tra
l’altro, i deficit operativi della vigilia. Dopo la risoluzione
dell’Onu sarebbe dovuto ripartire, con perentorietà, il pressing
diplomatico dei governi, per indurre il dittatore libico a fare dei
passi indietro, se non addirittura a riporre il potere nelle mani
del popolo. Ma, saltando a piè pari le prassi più coerenti con il
motivo umanitario, è scattato l’attacco dopo poche ore. Cosa ha
sollecitato allora gli Stati Uniti, la Francia, l’Inghilterra e
altri paesi europei a questa guerra, che si annuncia appunto più
sanguinosa di quanto sia stata fino a oggi la repressione di
Gheddafi? Il bottino del petrolio e dei gas naturali costituisce un
buon movente, per le problematiche energetiche chi investono i paesi
più industrializzati. La situazione sembra presentare tuttavia
aspetti più compositi. Di primo acchito, la crisi del Maghreb, che
ha fatto aumentare di molto il prezzo del greggio, ha generato
apprensione nei governi europei che per decenni, in un quadro di
stabilità strategica, avevano fatto affari con i regimi di Ben Ali,
Mubarak e Gheddafi. Passata però la concitazione delle prime
settimane, nei medesimi ambienti sono andate manifestandosi logiche
di vario genere, incluse quelle di livello egemonico. I fatti del
Nord Africa, da quel che è emerso dalle cronache, non sembrano
invece aver colto di sorpresa la Casa Bianca e il Pentagono, che sin
da subito hanno mostrato l’intenzione di intervenire sui processi in
atto. Ma per quali scopi?
A prescindere da tutto, l’arroccamento degli Stati Uniti in Libia,
anche a costi di vite umane elevatissimi, come in Afghanistan e in
Iraq, suggerisce un disegno strategico oltre che economico, di
controllo dell’area, atto a impedire, verosimilmente, che nei paesi
interessati dalla rivolta popolare, dal Maghreb al Medio Oriente,
possano prevalere nel medio periodo politiche antiamericane. E tale
linea, adottata in tutte le regioni del globo, appare compatibile
con le mire degli Stati europei interventisti. La Francia governata
da Sarcozy, finita negli ultimi anni zero dietro l’Italia per
Prodotto interno lordo, tanto più attirata quindi dalle risorse
energetiche del Nord Africa, e non solo, ha motivi per rinegoziare
il proprio ruolo di potenza. L’Italia di Berlusconi, come ostentano
le testate governative, ritiene che l’adesione al conflitto sia un
passo necessario, per poter contare in Europa e far valere il
settimo posto tra le potenze industriali del globo. L’Inghilterra di
Cameron, che ha registrato nel biennio 2008-2009 un vero e proprio
crollo del Pil, da cui non riemergerà facilmente, ha buoni motivi
per ampliare i propri interessi economici nel Nord Africa e,
soprattutto, in chiave geopolitica, per riprendere quota lungo la
regione mediterranea, dopo oltre cinquanta anni dall’umiliazione di
Suez. Ma forse, come è accaduto in Iraq e in Afghanistan, tali
convitati, pur destinati a vincere in poco tempo la guerra
convenzionale, hanno fatto male i conti. La presa di distanza della
Germania di Angela Merkel appare al riguardo significativa, come in
Italia la dissociazione della Lega di Bossi, che pure partecipa al
governo. In definitiva, si vorrebbe stabilizzare l’area sotto
l’egida delle potenze occidentali, ma l’esito potrebbe essere quello
di un disordine lungo e tragico, alle porte dell’Europa, e, forse,
dentro l’Europa.
------------ end
- Prev by Date: le prove del nesso tra haarp e terremoti
- Next by Date: dieci domande contro le logiche di guerra (anche questa)
- Previous by thread: le prove del nesso tra haarp e terremoti
- Next by thread: Libia: un’ottima vetrina per i prodotti del complesso militare industriale
- Indice: