IL COLORE DELLA NUOVA CASA BIANCA



IL COLORE DELLA NUOVA CASA BIANCA
A sinistra DI OBAMA
I retroscena della nomina di Hillary, il ruolo della «generazione Clinton», i dilemmi intorno alle forze armate e all'inevitabile taglio delle spese militari, la spinta che dovrebbe venire (e probabilmente non verrà) dalla sinistra e dai movimenti. Una tavola rotonda de «il manifesto» a Washington con i vertici dell'Institute for Policy Studies
Marco d'Eramo
INVIATO A WASHINGTON

In un grigio primo pomeriggio, il vento soffia freddo sulla 16° strada che sbocca a sud nei giardini della Casa bianca, in Pennsylvania avenue. In quest'ampia via, quasi di fronte al palazzo del Washington Post, ha sede l'Institute for Policy Studies (Ips), uno dei più importanti centri studi (think tanks, «serbatoi di pensieri») della sinistra americana. Nella saletta riunioni con John Feffer, condirettore per la politica estera, e Marcus Raskin, cofondatore dell'Istituto, parliamo dell'avvio della nuova amministrazione. La prima domanda è sulla nomina di Hillary Clinton a ministra degli esteri (segretaria di stato): lo sport più in voga a Washington è scavare nei retroscena di questa nomina e capire come mai Hillary ha accettato. RASKIN: Che altro poteva fare? Ha capito che non potrà mai più essere presidente. Almeno così ha l'occasione di dare una sua impronta alla politica mondiale nei prossimi anni. E se fa un buon lavoro può persino essere candidata alla vicepresidenza nel 2012. Personalmente pensavo che lei volesse diventare giudice alla Corte suprema, ma la giurisprudenza l'annoia. FEFFER: Barack Obama ha calcolato il proprio futuro politico. Se si vuole ripresentare fra quattro anni, deve fare i conti con i Clinton. Il suo obiettivo primario è far sì che Hillary non sia tanto scontenta da costituire una minaccia per lui. È anche nel carattere di Obama di unire il partito. E Hillary, se le gira, può dividere il partito democratico più di ogni altro. Obama doveva offrirle un posto abbastanza appetitoso da indurla a cedere il proprio insediamento sul territorio. Certo ci sarà un problema con Joe Biden che è stato scelto come vicepresidente proprio per la sua competenza in politica estera. E poi incombe anche Bill Clinton che - non c'è dubbio - sarà assai ingombrante.

Obama si è circondato di clintoniani, ha nominato Hillary segretaria di stato e di fatto ha lasciato entrare Bill: insomma, non è ostaggio dei Clinton? FEFFER: Devi fare compromessi se non vuoi spezzare il partito. I Clinton sono stati al potere per otto anni e il partito democratico non aveva avuto una simile esperienza di governo dagli anni '60. Non c'è altro a disposizione che la generazione Clinton. Della generazione più giovane, più radicale, ci sarà solo uno spruzzo nell'amministrazione Obama. Pensa alla politica estera. La scelta di Hillary è stata determinata in primo luogo da ragioni di politica interna al partito. Ma una seconda ragione per cui non è stato scelto John Kerry è che, se lui fosse diventato segretario di stato, automaticamente presidente della commissione esteri del Senato sarebbe diventato il nostro amico Russ Feingold, senatore del Wisconsin, che è troppo radicale, la pensa quasi come noi, e quindi bisognava trovare il modo di escluderlo da questa posizione. Vedi come ogni scelta si porta dietro altre scelte. RASKIN: Bisogna tenere conto dei vari strati della politica. Non c'è solo il massimo livello. Qui parliamo non di una decina, ma di 5-8.000 posizioni che cambieranno di mano. Sono un sacco di posti. Quale politica sarà davvero attuata e messa in pratica dipende da tutta questa massa di persone ed è al loro livello che bisognerà misurare l'influenza della sinistra sulla nuova amministrazione. Ecco perché è una fase politica interessantissima da osservare, magari non quanto Berlusconi, ma lo stesso appassionante. E poi, al vertice, bisogna guardare più da vicino: prendi l'uomo più potente della nuova amministrazione, il capo dello staff della Casa bianca. Rahm Emmanuel è amicissimo dei Clinton, ma viene da Chicago, dove vige una peculiare concezione di cosa è il potere in politica. Subito dopo la sua nomina, suo padre Benjamin ha rilasciato un'intervista a un giornale israeliano (Ma'ariv) in cui diceva: «Certo che mio figlio influenzerà il presidente in senso pro-israeliano. Perché non dovrebbe? Non è mica un arabo, non sta andando alla Casa bianca per lavare i pavimenti». La comunità araba-americana insorge e subito Obama impone a Emmanuel di scusarsi pubblicamente. Lo fa per chiarire che la politica estera la decide lui e solo lui.

Tutti dicono che Obama deve fare qualcosa e rapidamente, visto le attese che ha suscitato. FEFFER: Certo, e per ciò deve disporre di persone che sanno come operare nel sistema e conseguire gli obiettivi. A questo livello le politiche sono relativamente irrilevanti. È la ragione per cui ha confermato al Pentagono Robert Gates (ministro uscente dell'amministrazione Bush), non perché è d'accordo su tutto. Prima della nomina, Gates ha tenuto un discorso di appoggio alla nuova generazione di armi atomiche, ben sapendo che Obama è in totale disaccordo. Cioè, Gates, sapendo di essere candidato alla difesa, quasi deliberatamente ha tenuto questo discorso, come per dire: accetto il ministero, ma alle mie condizioni. C'erano altri candidati con altrettanta esperienza militare e più consoni con Obama: per esempio, l'ex generale Eric K. Shinseki (scelto poi come ministro per i veterani, ndr). Se si è preso Gates, è sempre per la stessa ragione, perché ha bisogno che le decisioni vengano attuate e non ostacolate. Ricorda l'errore commesso all'inizio da Clinton, quando cercò d'imporre ai militari di riconoscere i gay. Il suo errore non fu di agire, ma di non reagire quando i generali si opposero: lì capirono che a loro bastava puntare i piedi, capirono che era debole. Obama non ha esperienza militare, e perciò deve chiarire subito chi comanda: deve avere qualcuno che gli copre le spalle di fronte ai generali, qualcuno capace di costruire un'alleanza tattica con i repubblicani moderati sui tagli alle spese militari. Il Pentagono sta già spingendo per ottenere un aumento delle spese militari di 400 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni. Nel frattempo il Homeland Security & Defense Business Council, uno dei collegamenti tra il Pentagono e l'industria bellica, ha pubblicato un rapporto in cui si dice che le spese militari vanno non scorciate qua e là, ma decurtate di brutto, e questo da un punto di vista puramente di business, non di geopolitica. Alla fine si avrà un compromesso con tagli qua e aumenti di spesa là, e un risultato totale più o meno uguale.

Ma Obama si è impegnato a restaurare il potere e l'influenza americana nel mondo. Non sembra un proclama pacifista. FEFFER: Se vuole aumentare gli effettivi dell'esercito, procedere all'escalation in Afghanistan, Obama dovrà trovare qualcosa da tagliare nella spesa militare. Ha promesso modernizzazione, quindi dovrà procedere a solo tagli mirati sui nuovi armamenti, come il nuovo supercaccia F-35 Lightning. Né potrà tagliare sulle basi militari in patria, perché su di esse si regge l'economia di intere regioni, in particolar e nel sud. Dove potrà tagliare in modo deciso sarà sulle basi militari all'estero, in Germania, Giappone, Italia, persino in Corea del Sud. Se così, sarà un segno - magari imposto e non voluto, ma importantissimo - di ridimensionamento del progetto imperiale. RASKIN: Obama vuole rafforzare l'esercito di 97.000 unità ma il problema è dove troverà i soldi per farlo. Perché lui è già in debito con Ted Kennedy che lo ha appoggiato da subito e che prima di morire vuole vedere approvata la riforma sanitaria che perciò sarà sul tappeto fin da gennaio. Ma se vuole più truppe in Afghanistan, la riforma sanitaria e gli investimenti nei lavori pubblici, non può farlo senza un sostanziale aumento delle tasse.

Nella politica americana però aumentare le tasse è una bestemmia che si paga con la sconfitta elettorale. E i responsabili che Obama si è scelto per l'economia non sono certo campioni di anticonformismo. RASKIN: La crisi è un'opportunità da non sprecare. Quando le ricette tradizionali falliscono, quando i luoghi comuni si mostrano falsi, c'è un'opportunità per fare qualcosa di nuovo. FEFFER: Il baricentro si è spostato. Paladini del liberismo sostengono oggi l'azione statale, conservatori prendono posizioni progressiste vicine alle nostre: Paul Volcker (ex governatore della Federal reserve, ndr) si è spostato dalla destra al centro. È cambiato il contesto ambientale. Oggi tutti riconoscono l'importanza dell'intervento pubblico. In discussione è solo la dimensione, la forma di questo interrvento. Da questo punto di vista Obama è vicino alle posizioni europee, che non sono straordinarie ma sempre meglio di quelle di Bush. Quando ci sarà un nuovo G20 ad aprile, ci sarà un'atmosfera completamente diversa.

Ma quale pressione può esercitare il fronte progressista su Obama? E come?
FEFFER: Intanto ci sono centinaia di migliaia di persone a sinistra che hanno speso mesi e mesi a cercar di farlo eleggere e ora sono sfinite. Quanto ai movimenti, ancora non sono pronti per uno scontro. Obama è stato assai discreto sui suoi obiettivi. È stato più esplicito sul riscaldamento globale: i gruppi ambientalisti sono stati molto soddisfatti del suo impegno a ridurre le emissioni di anidride carbonica: se mantiene le promesse, la posizione Usa diventerà migliore di quella europea. Quindi i verdi sono contenti e non sentono l'urgenza di spingere a sinistra Obama. E loro sono essenziali per qualunque pressing. Lo stesso vale naturalmente per i neri e per altre persone di colore che saranno assai riluttanti a esercitare una pressione forte su Obama: gli daranno il beneficio del dubbio. E poi c'è il sindacato che è una forza declinante nella nostra politica e può avere un impatto su temi specifici: vedremo come andrà sui due accordi di libero commercio, quello con la Colombia e quello con la Corea del Sud. Ma il problema è che non ci sarà più un'amministrazione Bush a tenere insieme tutti quanti, a cementare una coalizione. La nuova amministrazione disferà questa coalizione, non perché lo vorrà - non siamo un bersaglio così importante - ma perché una parte sarà paga, un'altra riluttante e una terza attenta solo ai suoi interessi specifici. Sarà arduo mobilitare la gente. Già adesso il movimento pacifista sta cercando di capire cosa fare, si chiede: «e adesso»? Credo che il nodo centrale dovrà essere la spesa militare, per unire politica estera e politica interna, il portafoglio della gente e la pace. Ma opporsi all'escalation in Afghanistan sarà difficile.

Insomma, la sinistra è inerme, i verdi sono già contenti, i neri non si muoveranno neanche a cannonate, i sindacati sono preoccupati solo dalla loro cucina; e non c'è più un Bush a tenere insieme la coalizione progressista... RASKIN: Non sono così pessimista. Ricorda la storia. Pensiamo al 1959-60: in quel momento i bianchi si sentivano abbastanza tranquilli rispetto ai neri e l'establishment si sentiva al sicuro da ogni contestazione. Quando Kennedy si candidò non si vedeva all'orizzonte un movimento in grado di premere sulla classe politica. Eppure bastarono quattro ragazzini di Greensboro (North Carolina) che nel febbraio 1960 andarono a sedersi in una tavola segregata della mensa del college (solo i bianchi potevano sedervisi, mentre gli studenti neri dovevano mangiare in piedi, ndr.), perché il movimento dei diritti civili crescesse a valanga. Oggi noi non sappiamo quel che succederà, ma è assai probabile che Obama si trovi come Kennedy quando fu eletto: seduto su un terremoto ancora impercettibile. FEFFER: Un altro modo per premere da sinistra è l'influenza intellettuale. Oggi sono all'ordine del giorno tematiche che noi abbiamo proposto per anni ma non avevano mai avuto diritto di cittadinanza nel dibattito politico ufficiale. Adesso altri le fanno proprie, anche se non ci citano. Magari non sarà gente di sinistra ad attuare misure di sinistra, ma l'importante è che i nostri temi siano ora all'ordine del giorno. Per noi dell'Institute for Policy Studies è un'occasione irripetibile: potremo diventare nella nuova fase quello che è stato l'American Enterprise Institute (il più importante think thank conservatore) per il potere repubblicano. Sarà compito nostro nutrire di idee questa fase politica.