In volata*Voli di aerei * reti-retate * omicidio politico- caso chiuso



Per non "invadere" e lasciare  "spazio" in rete, unisco  tre  notizie
in volata nazional-internazionali
Doriana Goracci


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Il Governo italiano ha firmato per passare alla fase operativa di
produzione
degli aerei F-35, dopo Usa, Paesi bassi, Canada, Austrialia, Gran
Bretagna,
Turchia e Norvegia.

Vola F35, vola...
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Dalla Rete Disarmo :

COMUNICATO AI MEDIA - Roma, 7 Febbraio 2007

JOINT STRIKE FIGHTER:
"CON LA FIRMA DI OGGI IL GOVERNO COMPIE UN ALTRO STRAPPO AL PROPRIO
PROGRAMMA E NON ASCOLTA IL MONDO DELLA PACE"

Presa di posizione congiunta della Campagna Sbilanciamoci! e della Rete
Disarmo sulla nuova fase per gli aerei F-35

"Con la firma di oggi del Memorandum of understanding per passare alla
fase
di produzione del caccia Joint Strike Fighter F35, da parte del
sottosegretario alla Difesa Lorenzo Forcieri, il Governo compie un
ulteriore
strappo sul proprio programma elettorale. Ma, cosa ancora più grave, il
Governo si allontana in maniera decisa e inequivocabile dalle richieste di
Pace e Nonviolenza che tutte le nostre organizzazioni da tempo chiedono
con
forza". È questa la presa di posizione forte e congiunta di rete Disarmo
e
Campagna Sbilanciamoci! sulle notizie provenienti dagli USA.

Limitandosi al programma di Governo, nel documento si afferma che:
"l'Unione
si impegna, nell'ambito della cooperazione europea, a sostenere una
politica
che consenta la riduzione delle spese per armamenti". Ora invece, dopo
aver
aumentato in finanziaria le spese militari di oltre il 10% con solo una
semplice informativa al Parlamento a riguardo, si è deciso di passare alla
fase operativa della co-produzione del JSF che vede come capofila
industriale gli Stati Uniti d'America.

Le motivazioni di contrarietà ed opposizione a tale scelta sono tante, a
partire dai costi economici a fronte di uno scarso ritorno per l'Italia.
Il nostro paese ha già speso per questo faraonico progetto 638 milioni di
dollari per la fase di sviluppo, che ci costerà complessivamente 1018
milioni di dollari, ai quali vanno aggiunti altri 903,2 milioni di dollari
per la fase successiva di implementazione e produzione. La ricaduta
positiva
sulla nostra economia non è così poi allettante come ci si è fatto
credere:
i 10.000 occupati per 45 anni sbandierati nel giugno scorso dall'ex Capo
di
Stato Maggiore dell'Aeronautica, generale Antonio Tricarico, si sono
subito
sgonfiati a 1.000 occupati (200 diretti ed 800 per indotto) per 10 anni
nelle nuove stime.
Va chiarito inoltre che tali ritorni sono solo "attesi", poichè la fase
che
si sta formalizzando oggi riguarda solo la costruzione di prototipi e
delle
linee industriali, mentre invece il ritorno in Italia si avrà solo
eventualmente con l'assemblaggio dei velivoli (a Cameri in provincia di
Novara) quando l'Italia dovesse acquistare i 131 aerei previsti (dal
2008-2009)

"Bisogna dire chiaramente che i soldi che l'Italia mette in questa fase
non
avranno alcun beneficio diretto sull'occupazione nel territorio
novarese"
dice Gianni Alioti della FIM-Cisl "e che l'aumento di occupazione
dipenderà
dagli ulteriori fondi che il nostro paese dovrà spendere per comprare gli
F35 una volta in produzione (100 milioni di euro a pezzo con le
valutazioni
attuali)".

"Al limite ci saranno minime ricadute economiche a vantaggio
dell'industria
bellica del nostro paese - aggiunge Massimo Paolicelli dell'Associazione
Obiettori nonviolenti - ma che avrà ben poco respiro vista la riluttanza
statunitense a trasferire tecnologia ed informazioni per salvaguardare la
superiorità tecnologica ed industriale americana. In pratica a
Finmeccanica
andranno in questa fase solo alcune briciole per le fasi di ricerca e
sviluppo, ma senza quel forte impulso in campo anche tecnologico che
proviene da coproduzioni europee".

Non bisogna scordarsi che uno degli obiettivi per cui è nato il JSF è
anche
quello di ostacolare l'indipendenza europea nel campo della difesa, sia
per
creare dipendenza industriale strategica sia per eliminare possibili
concorrenti sul mercato. Quindi non ci rassicurano minimamente le
dichiarazioni di intenti rilasciate ieri dal ministro Bersani che auspica
che gli Stati Uniti diano all'Italia un ruolo di corresponsabilità. E'
bene
ricordare che l'Italia, pur essendo il secondo paese del progetto per
quanto
riguarda gli investimenti è nei fatti un partner di secondo livello. C'è
poi
l'aspetto strategico: il JSF è un aereo da combattimento monomotore
monoposto, in grado di superare la velocità del suono ma con velocità di
crociera subsonica ed è impostato per il ruolo aria-terra, anche se come
capacità secondaria ha anche quella aria-aria; è di tipo stealth (bassa
rilevabilità dai radar ed altri sensori) e ha due stive interne per le
missili e bombe che possono essere anche di tipo nucleare.
"Abbiamo difficoltà a capire come tale aereo si concili con il dettato
dell'articolo 11 della nostra Costituzione. Quello che preoccupa di più è
poi la totale parcellizzazione delle scelte strategiche della Difesa senza
far intendere a quali logiche di politica estera rispondono, anche se poi
la
loro somma porta ad uno scenario inquietante che si sovrappone alla
politica
di guerra preventiva degli Stati Uniti" aggiunge Francesco Vignarca
coordinatore nazionale della Rete Italiana per il Disarmo.

Proprio per questo nei prossimi giorni avvieremo una campagna che da un
lato vuole sensibilizzare l'opinione pubblica, sempre tenuta
all'oscuro, dei
rischi di questo progetto e dall'altro una pressione verso il Governo.
"Il
nostro sforzo sarà immediato e il più efficace possibile: il governo deve
ravvedersi da questa scelta e destinare le risorse previste per il JSF
alla
riconversione dell'industria bellica (non è stato mai finanziato il fondo
apposito previsto dalla legge 185/90) ed alla cooperazione allo sviluppo,
vera 'arma' contro il terrorismo molte situazioni di conflitto"
conclude
Giulio Marcon, coordinatore della Campagna Sbilanciamoci! che da anni
elabora una controfinanziaria molto più attenta ai temi sociali, di
cooperazione e della Pace rispetto al documento ufficiale del Governo.

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reti e retate: 13 curdi arrestati a Parigi

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Dal Manifesto

Retata contro i kurdi a Parigi: 13 arrestati Tutti residenti regolari gli
arrestati, accusati di riciclaggio per finanziare i guerriglieri del Pkk.
Assalto brutale all’alba al centro culturale Ahmet Kaya, all’ufficio
d’informazione del Kurdistan e a decine d’appartamenti Orsola Casagrande
La polizia francese ha arrestato ieri tredici cittadini kurdi (tutti
regolarmente residenti in Francia) accusandoli di riciclaggio di denaro
sporco destinato a finanziare i guerriglieri del Pkk. L’operazione è stata
di quelle in grande stile: massiccio spiegamento di uomini, due centri
kurdi
perquisiti e distrutti, casse di materiale requisito, perquisizioni in
decine di appartamenti. A metà mattina una portavoce della procura
parigina si è limitata a dire, alla Reuters, che «le persone arrestate
sono
sospettate di finanziare il Pkk». Alle sei di ieri mattina gli agenti
dell’antiterrorismo hanno perquisito prima il centro culturale Ahmet Kaya
e
quindi l’ufficio di informazione del Kurdistan. Due centri molto noti e
molto attivi. Il centro Ahmet Kaya si trova proprio accanto all’ufficio
elettorale del ministro degli interni Nicolas Sarkozy. Dopo gli uffici si
è
proceduto con la perquisizione degli appartamenti. Una giovane donna
racconta il terrore suo e dei figli per l’irruzione violenta della polizia
«che ha buttato tutto a terra, rompendo mobili e le nostre cose». Secondo
le poche indiscrezioni che trapelano dalla procura, l’operazione sarebbe
partita a luglio quando due cittadini kurdi sono stati arrestati mentre
cercavano di cambiare in dollari 200mila euro. Soldi che la procura
ritiene
essere il provente di traffici illeciti, probabilmente droga. I
rappresentanti delle associazioni perquisite ieri respingono con forza le
accuse, sostenendo di non aver mai visto né conosciuto i due uomini
arrestati a luglio. Faruk Dogru, responsabile dell’ufficio di informazione
del Kurdistan, da molti anni in Francia, dice senza mezzi termini che «si
tratta di una operazione tutta politica. Questa è la risposta dell’Europa
-
sostiene - alle pressioni della Turchia e degli Stati uniti che chiedono
di
reprimere e tagliare le gambe al movimento di liberazione kurdo».

Il centro culturale Ahmet Kaya (dal grande cantante kurdo scomparso
qualche anni fa) è un luogo di ritrovo molto conosciuto e non solo dai
cittadini della diaspora kurda. Qui infatti si organizzano concerti ed
iniziative prestigiose. Quello che resta del centro sono mobili
distrutti, documenti strappati, carte ovunque. La polizia francese non
ha fatto sconti. E certo l’operazione ha contorni un po’ oscuri. Per
esempio è evidente che i due centri sono sorvegliati giorno e notte da
anni, praticamente dalla loro apertura:
curioso che proprio ora la polizia decida di intervenire in maniera così
pesante. E poi giunge a meno di un mese dal verdetto della corte europea
di giustizia che dava ragione a Osman Ocalan (fratello del presidente
del Pkk, Abdullah Ocalan) riconoscendogli il diritto a contestare
l’inclusione del
Pkk nella lista europea delle organizzazioni terroristiche. La corte ha
ordinato il riesame del caso. Ieri pomeriggio centinaia di kurdi si sono
riversati per le strade di Parigi per protestare contro le perquisizioni e
gli arresti. Gli avvocati dell’ufficio di informazione del Kurdistan, Jean
Pierre Berthilier e Armel Faik Taverdin, hanno ribadito che «si tratta di
un’ operazione politica. Questo - ha detto Bertihilier - fa parte della
strategia della paura condotta dal ministro Sarkozy». Il Knk, congresso
nazionale del Kurdistan ha sottolineato che «da mesi assistiamo ad una
politica ostile da parte della Germania. Prendiamo atto che anche la
Francia
sta adottando questa strategia. Ci chiediamo se questa è la nuova politica
dell’Unione europea verso la questione kurda».

Sabato prossimo a Strasburgo è prevista una manifestazione dei kurdi
europei in occasione della seduta (che si svolgerà lunedì) del
segretariato del comitato dei ministri del consiglio d’Europa che dovrà
decidere sulla proposta della Turchia di archiviare definitivamente il
caso Ocalan. La corte europea di Strasburgo infatti aveva, nel maggio
2005, ordinato alla Turchia di celebrare un nuovo processo, ritenendo il
primo non democratico e non equo. Ma Ankara ha risposto che non c’era
nulla da rivedere e a gennaio il segretariato della commissione ha
indicato di voler prendere per buone le giustificazioni turche. Per il
Knk, accettare una simile raccomandazione equivale ad uno schiaffo al
popolo kurdo «che cerca una soluzione pacifica al conflitto».

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/06-Febbraio-2007/art40.html

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La Difesa internazionale dei signori della guerra risponde
unanime:omicidio politico? " il caso è già chiuso".

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Il gup di Roma Sante Spinaci ha rinviato a giudizio il militare Usa Mario
Luis Lozano, che la sera del 4 marzo 2005 a Baghdad, ad un posto di
blocco, uccise il funzionario del Sismi Nicola Calipari e ferì la
giornalista Giuliana Sgrena e il funzionario dei servizi di sicurezza
Andrea Carpani.

La giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena ha detto: "Noi volevamo il
processo e quindi sono soddisfatta. Non voglio, però, un capro
espiatorio in Lozano. Spero che il processo - ha aggiunto - aiuti a fare
conoscere la verità. Comunque, non mi faccio illusioni".

La vedova Calipari, Rosa Villecco, ha commentato così: "Il rinvio a
giudizio di Mario Lozano costituisce il primo passo verso la verità e
verso la giustizia. Ho sempre avuto fiducia nella magistratura -
prosegue la senatrice Ds - e anche oggi la mia fiducia ha trovato
conferma".

Sarà processato il 17 aprile in contumacia
Lozano sarà processato il 17 aprile prossimo dalla III corte d'assise di
Roma. L'imputato, giudicato dal Gup Spinaci in contumacia, dovrà
rispondere di omicidio volontario e di tentato duplice omicidio. Il Gup
ha accolto le richieste presentate dai pubblici ministeri Franco Ionta,
Pietro Saviotti ed Erminio Amelio. Sebbene le leggi italiane non
ammettano il processo in contumacia per un cittadino straniero accusato
di omicidio, l'iscrizione del reato come "omicidio politico" consente
di aggirare questo ostacolo.

Ionta, uno dei tiolari delle indagini, ha dichiarato: "Trovo giusto e
giudiziariamente corretto che la morte del dott. Calipari venga
ricostruita nella sua dinamica e nelle eventuali responsabilità dinanzi
a una corte d'assise, luogo deputato alla ricerca più attendibile e
completa del vero".

Pentagono: "Caso chiuso"
Il Pentagono considera l'omicidio di Nicola Calipari "un caso chiuso".
Per il delitto commesso sulla strada per l'aeroporto di Baghdad dopo la
liberazione di Sgrena, il giudice Sante Spinaci ha deciso
l'incriminazione del soldato scelto Mario Lozano "nel quadro di un
delitto politico, eseguito in danno della personalità dello Stato
italiano".

Accuse gravissime che tuttavia non scalfiscono la linea ufficiale che il
governo americano ribadisce da mesi. "Abbiamo condotto una indagine
molto accurata - ha spiegato il portavoce del segretario alla Difesa
Robert Gates - un'indagine che ha visto la partecipazione degli
italiani; e abbiamo reso pubbliche tutte le informazioni relative a
questa inchiesta".

Il Pentagono insomma non ritiene verosimile non solo l'estradizione di
Lozano ma la partecipazione del soldato al processo in qualunque forma.
"La posizione del dipartimento della Difesa è che sia il governo
americano che il ministero della Difesa italiano considerino il caso già
chiuso".