documento della Rete lilliput sul decreto "missioni militari"
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- Date: Tue, 18 Jul 2006 17:45:43 +0200
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Title: BOZZA RISERVATA
Ripudiare le guerre e agire la nonviolenza
Una politica di pace per cambiare la rotta
La situazione di estrema gravità
che sta infuocando il medioriente ci porta necessariamente ad uscire dal
dibattito a basso prezzo sulle questioni relative alle “missioni militari”
portato avanti dalla politica istituzionale. Essa richiede da parte di tutti un
segno di discontinuità che vada oltre i meccanismi di ingegneria parlamentare e
le relative diatribe di posizionamento connesse. Continuare a ricorrere alla logica
della guerra per tentare di risolvere i conflitti tra paesi o tra gruppi etnici
rappresenta ormai in maniera evidente un sanguinoso e irreparabile errore. Nella storia recente, dal Vietnam
ad oggi, sono ormai molte le occasioni che rappresentano una prova evidente di
questa verità così difficile da far accettare sulla scena internazionale. Anche
i motivi economici e gli interessi di dominazione non sono più così chiaramente
convenienti, come in passato, per le potenze armate, mentre i costi umani e sociali
hanno ormai assunto dimensioni inaccettabili. Su questi fatti, ben documentati,
e su una ferma e convinta etica della nonviolenza delle relazioni umane, si
fonda il nostro assoluto rifiuto del ricorso alle guerre, anche quando vengono
camuffate e proposte come “interventi umanitari” o “esportazione della
democrazia”, celando subordinazioni inconfessabili a potenti alleati o al
sistema economico dominante. Siamo invece sempre più convinti
che solo una politica strategica e articolata di “prevenzione dei
conflitti” sia la chiave per ridare forza alla convivenza pacifica nei rapporti
internazionali. Si tratta di costruire un
indirizzo politico coerente, utilizzare strumenti appropriati,
realizzare una politica di pace dell’Italia a livello internazionale. Non sarà infatti sufficiente il
rimpatrio del contingente italiano dall’Irak o dall’Afghanistan, o un nuovo
appello alla trasformazione in senso democratico delle Nazioni Unite se non si
definisce in maniera trasparente il ruolo che l’Italia vuole svolgere per
contrastare la logica della guerra infinita. Occorre affermare con chiarezza
che una vera politica di pace deve adoperarsi per rimuovere le “cause
strutturali” prodotte dall’attuale modello di sviluppo capaci di
aumentare le disuguaglianze e ridurre in miseria miliardi di persone (regole
del commercio inique, processi di mercificazione e di privatizzazione dei beni
comuni, spese militari, finanziarizzazione dell’economia, devastazione delle
risorse naturali, questione debito). Riteniamo infatti che la lotta
alla povertà, alla fame, alle malattie a grande diffusione, l’agevolazione dei
movimenti migratori, la protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo, un
massiccio impegno per l’istruzione e un sistema di controllo restrittivo sul
commercio delle armi, possano, anche in tempi brevi, modificare le condizioni
di vita di oltre metà dell’umanità e incidere a monte sulle cause principali
dei conflitti. La riduzione degli aiuti allo
sviluppo, la mancata adozione di misure di cancellazione del debito estero dei
paesi del cosiddetto Sud del Mondo, la corsa al business delle armi, sono
segnali gravissimi di disinteresse e di emarginazione che popolazioni sempre
più numerose, a partire dagli anni ’80, rifiutano, manifestando questo rifiuto
con sempre maggiore ricorso alla violenza. L’Italia dovrebbe quindi decidere
di invertire Alcuni elementi
per una politica di pace
▫
▫
Un’azione del governo italiano per
l’immediata attuazione del sistema di sicurezza collettiva previsto dal Cap.
VII della Carta delle Nazioni Unite che prevede la costituzione di forze
sopranazionali che possano intervenire per prevenire e sedare i conflitti. Ciò
significa sottrarre l’ONU al ricatto delle grandi potenze che oggi concedono o
meno loro truppe a seconda dei propri interessi nelle aree di potenziale
conflitto. ▫
La riduzione graduale dell’impegno
italiano in ambito NATO, trasformata nel 1999 (proprio durante un conflitto) da
organizzazione difensiva in apparato di intervento armato, senza limiti
geografici e di contenuto. Sarebbe così evitato il coinvolgimento in conflitti
che interessano solo alcuni paesi (in particolare gli Stati Uniti, come sta
avvenendo in Afghanistan e come potrebbe verificarsi per altri paesi minacciati
dalla strategia della guerra preventiva). L’avvio di questa politica
permetterebbe anche di ridurre la presenza di basi NATO sul nostro territorio. ▫
L’elaborazione di una “filiera”
della pace, con l’impegno coerente per politiche di prevenzione e soluzioni
civili dei conflitti in tutti i principali ambiti di politica estera:
dall’Unione europea all’OSCE, alle Nazioni Unite, dalla cooperazione allo
sviluppo alle politiche commerciali, fino ad arrivare al settore cruciale del
commercio di armi. ▫
L’istituzione di Corpi Civili di
Pace ossia di gruppi organizzati di volontari che intervengono in situazioni di
conflitto con azioni nonviolente che comprendono attività di prevenzione,
monitoraggio, mediazione, interposizione e riconciliazione fra le parti. La
formazione e il sostegno di corpi di pace andrebbero collegati al servizio
volontario europeo e, adeguatamente preparati e addestrati, impiegati nelle
aree di conflitto o di tensione violenta. ▫
Una presenza attiva del governo
italiano per l’approvazione del piano di disarmo che l’ONU inizierà a discutere
ad ottobre 2006, promuovendo l’emanazione delle norme necessarie, italiane e
internazionali, per regolamentare il traffico e la disponibilità di armi
leggere, che sempre più si rivelano essere causa ▫
La riduzione delle spese militari,
anche con la cancellazione o il ridimensionamento di programmi di produzione di
sistemi d’arma utili solo in una prospettiva di guerre offensive, dando
sostegno immediato alla riconversione dell’industria bellica italiana, tra le
più fiorenti al mondo, in industria civile. ▫
Un’impostazione fortemente
innovativa della cosiddetta cooperazione allo sviluppo (dove il termine
“sviluppo” andrebbe modificato, in quanto legato al dannosissimo modello
economico dominante), destinando risorse superiori allo 0,70 del Pil, obiettivo
ormai inadeguato alle condizioni di interi continenti, dando priorità a
progetti di collaborazione con partners locali significativi della società
civile. Proposte per
l’immediato
•
Utilizzare gli strumenti della
diplomazia •
Ritirare rapidamente le truppe
italiane dall’Iraq e dall’Afghanistan con la sostituzione immediata di
una presenza consistente di attività civili di sostegno al governo legittimo in
carica, senza la protezione di forze armate straniere di alcun tipo; avviare la
trattativa interna alla NATO per la graduale riduzione della presenza militare •
Ridurre la spesa militare, visto
che secondo i dati del Sipri (l’Istituto di ricerca sulla pace di Stoccolma)
l’Italia è settima al mondo spendendo per la Difesa 484 dollari pro-capite. Una
parte di questi soldi potrebbe essere impiegata per sviluppare un concetto di
difesa alternativo al modello armato, e per finanziare i progetti di
ricostruzione dei paesi dove oggi l’Italia è presente militarmente. •
Avviare una decisa trattativa per
l’eliminazione delle basi estere dal territorio italiano e una strategia di
trasformazione di gran parte delle aree riservate ad usi militari (compresi i
poligoni) in parchi ed aree protette a fini di salvaguardia dell’ambiente. •
Ripristinare e potenziare i
vincoli alla esportazione di sistemi d’arma e di armi leggere attraverso la
revisione e il rafforzamento della legge 185/90, proponendo la logica di questa
legge come modello per la legislazione degli altri paesi europei e dell’Unione
Europea nel suo complesso. Chiediamo quindi di salvaguardare la trasparenza
data dalla relazione annuale della legge 185/90 che rende conto anche delle
operazioni svolte dagli Istituti di credito in appoggio al commercio delle armi
italiane. •
•
Enunciare il principio che le
guerre tradizionali e ad alta tecnologia non sono in grado di estirpare il
terrorismo e che occorre invece contribuire a modificare le condizioni di vita delle
popolazioni spinte, dalla mancanza di speranze per il futuro, a scegliere la
via della reazione armata. •
Dar corso all’uscita dell’ENI
dall’accordo con le altre società petrolifere interessate ai giacimenti
iracheni, avviando una trattativa con il governo in carica a condizioni di
favore almeno per i prossimi cinque anni. Per noi, una
presenza civile in Iraq ed in Afghanistan, significa:
1.
Trasformare l’ospedale da campo
della Croce Rossa italiana a Nassiryia in collaborazione con la
corrispondente organizzazione irachena, trasferendovi materiali e
favorendone gradualmente l’autonoma gestione, dopo aver formato il personale
necessario. 2.
Individuare un certo numero di
ospedali pubblici iracheni e far valutare ai responsabili medici locali le
necessità sanitarie, impegnandosi a soddisfarle per un periodo di almeno sei
mesi o un anno. Individuare un corrispondente numero di ospedali italiani
(scelti per competenze e specializzazioni richieste dalla situazione sanitaria
nel paese) ad attuare un gemellaggio che permetta una collaborazione
professionale continuativa e la formazione di omologhi, realizzando soltanto
brevi missioni ed ospitando in Italia il personale medico e sanitario iracheno. 3.
Prevedere un analogo intervento
per scuole e strade, collaborando alla costituzione in loco di nuclei di
ingegneri e tecnici, fornendo assistenza dall’Italia per tutte le
esigenze di rilevazione dei fabbisogni, di progettazione, di scelta dei
materiali, di organizzazione dei cantieri e di fornitura di macchinari,
realizzando solo brevi missioni presso i competenti ministeri. 4.
Attuare un gemellaggio delle
scuole con analoghi istituti italiani nell’ambito della cooperazione decentrata
di Comuni e Regioni, inviando materiali didattici e trasferendo le necessarie
competenze didattiche. 5.
Fornire le competenze tecniche,
richieste dalla ricostruzione, attraverso la collaborazione tra i ministeri
competenti, soprattutto per quanto riguarda l’acqua e l’energia, mobilitando
anche le competenze e le disponibilità di tecnici, per brevi missioni e per
eventuale formazione, presenti in alcuni Comuni italiani disposti al
gemellaggio. Questa modalità di intervento può
esporre a rischi per periodi brevissimi solo un numero molto limitato di
italiani, tutti civili volontari, mentre può accelerare moltissimo le prime
fasi della ricostruzione, che possono essere iniziate subito, almeno nelle zone
dove è già operativo l’esercito iracheno. Può mobilitare enti e organismi in
Italia desiderosi di collaborare a una concreta iniziativa civile. Il piano può essere presentato
subito al governo iracheno e afgano nell’ambito delle trattative per il ritiro
delle truppe. L’onere finanziario potrebbe non essere superiore al risparmio
ottenuto dal decrescente impegno militare e potrebbe quindi essere deciso a
livello politico al momento dell’approvazione parlamentare del decreto per il
rifinanziamento delle missioni all’estero. E’ evidente che questo approccio
non prevede la presenza di imprese italiane, la partecipazione ad appalti, ecc.
peraltro finora resi impossibili dalla pesante situazione militare sul terreno,
destinata a protrarsi per almeno un anno. Delinea invece per il nostro paese un
impegno civile ad alto livello, alternativo a quello puramente militare od
economico, che può essere difeso e proposto nelle sedi internazionali. In ultimo, un
pensiero ai movimenti per la pace In ultimo rivolgiamo un pensiero
all’articolato mondo dei movimenti della pace, ai tantissimi volti e gruppi che
operarono quotidianamente per “la pace” e per una “cultura nonviolenta” nelle
relazioni: siamo convinti che non ci si possa esimere, partendo dai territori,
dal continuare ad esprimere la propria “indignazione”, riaffermando, in
Italia e nel mondo, che solo una vera cultura e conseguentemente, una politica
di pace, è in grado di dare un segnale di discontinuità alle logiche di guerra
permanente. Glt-nonviolenza e Conflitti __._,_.___
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