documento della Rete lilliput sul decreto "missioni militari"



Title: BOZZA RISERVATA

Ripudiare le guerre e agire la nonviolenza

 

Una  politica di pace per cambiare la rotta 

 

La situazione di estrema gravità che sta infuocando il medioriente ci porta necessariamente ad uscire dal dibattito a basso prezzo sulle questioni relative alle “missioni militari” portato avanti dalla politica istituzionale. Essa richiede da parte di tutti un segno di discontinuità che vada oltre i meccanismi di ingegneria parlamentare e le relative diatribe di posizionamento connesse.

Continuare a ricorrere alla logica della guerra per tentare di risolvere i conflitti tra paesi o tra gruppi etnici rappresenta ormai in maniera evidente un sanguinoso e irreparabile errore.

Nella storia recente, dal Vietnam ad oggi, sono ormai molte le occasioni che rappresentano una prova evidente di questa verità così difficile da far accettare sulla scena internazionale. Anche i motivi economici e gli interessi di dominazione non sono più così chiaramente convenienti, come in passato, per le potenze armate, mentre i costi umani e sociali hanno ormai assunto dimensioni inaccettabili.

Su questi fatti, ben documentati, e su una ferma e convinta etica della nonviolenza delle relazioni umane, si fonda il nostro assoluto rifiuto del ricorso alle guerre, anche quando vengono camuffate e proposte come “interventi umanitari” o “esportazione della democrazia”, celando subordinazioni inconfessabili a potenti alleati o al sistema economico dominante.

Siamo invece sempre più convinti che solo una politica strategica e articolata di  “prevenzione dei conflitti” sia la chiave per ridare forza alla convivenza pacifica nei rapporti internazionali.

Si tratta di costruire un indirizzo politico coerente, utilizzare strumenti appropriati,   realizzare una politica di pace dell’Italia a livello internazionale.

Non sarà infatti sufficiente il rimpatrio del contingente italiano dall’Irak o dall’Afghanistan, o un nuovo appello alla trasformazione in senso democratico delle Nazioni Unite se non si definisce in maniera trasparente il ruolo che l’Italia vuole svolgere per contrastare la logica della guerra infinita.

 

Occorre affermare con chiarezza che una vera politica di pace deve adoperarsi per rimuovere le “cause strutturali” prodotte dall’attuale modello di sviluppo capaci di  aumentare le disuguaglianze e ridurre in miseria miliardi di persone (regole del commercio inique, processi di mercificazione e di privatizzazione dei beni comuni, spese militari, finanziarizzazione dell’economia, devastazione delle risorse naturali, questione debito).

Riteniamo infatti che la lotta alla povertà, alla fame, alle malattie a grande diffusione, l’agevolazione dei movimenti migratori, la protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo, un massiccio impegno per l’istruzione e un sistema di controllo restrittivo sul commercio delle armi, possano, anche in tempi brevi, modificare le condizioni di vita di oltre metà dell’umanità e incidere a monte sulle cause principali dei conflitti.

La riduzione degli aiuti allo sviluppo, la mancata adozione di misure di cancellazione del debito estero dei paesi del cosiddetto Sud del Mondo, la corsa al business delle armi, sono segnali gravissimi di disinteresse e di emarginazione che popolazioni sempre più numerose, a partire dagli anni ’80, rifiutano, manifestando questo rifiuto con sempre maggiore ricorso alla violenza.

 

L’Italia dovrebbe quindi decidere di invertire la tendenza in atto e dare chiari segnali di voler lavorare ad un ben diverso progetto di rapporti internazionali. E’ questa la scelta di fondo che il nuovo governo deve adottare, con misure magari graduali, ma chiaramente orientate.

 

Alcuni elementi per una politica di pace

 

          Un salto di qualità con la costruzione paziente di nuove modalità di intervento, civile e nonviolento, come risposta ai conflitti che lacerano società e paesi in molte parti del mondo, anche imparando dalle esperienze più avanzate dei nostri vicini europei, saldando gli sforzi già esistenti in diversi campi in una “infrastruttura per la pace” coerente e riconoscibile agli occhi dell’opinione pubblica.

 

          Un’azione del governo italiano per l’immediata attuazione del sistema di sicurezza collettiva previsto dal Cap. VII della Carta delle Nazioni Unite che prevede la costituzione di forze sopranazionali che possano intervenire per prevenire e sedare i conflitti. Ciò significa sottrarre l’ONU al ricatto delle grandi potenze che oggi concedono o meno loro truppe a seconda dei propri interessi nelle aree di potenziale conflitto.

          La riduzione graduale dell’impegno italiano in ambito NATO, trasformata nel 1999 (proprio durante un conflitto) da organizzazione difensiva in apparato di intervento armato, senza limiti geografici e di contenuto. Sarebbe così evitato il coinvolgimento in conflitti che interessano solo alcuni paesi (in particolare gli Stati Uniti, come sta avvenendo in Afghanistan e come potrebbe verificarsi per altri paesi minacciati dalla strategia della guerra preventiva). L’avvio di questa politica permetterebbe anche di ridurre la presenza di basi NATO sul nostro territorio.

          L’elaborazione di una “filiera” della pace, con l’impegno coerente per politiche di prevenzione e soluzioni civili dei conflitti in tutti i principali ambiti di politica estera: dall’Unione europea all’OSCE, alle Nazioni Unite, dalla cooperazione allo sviluppo alle politiche commerciali, fino ad arrivare al settore cruciale del commercio di armi.

          L’istituzione di Corpi Civili di Pace ossia di gruppi organizzati di volontari che intervengono in situazioni di conflitto con azioni nonviolente che comprendono attività di prevenzione, monitoraggio, mediazione, interposizione e riconciliazione fra le parti. La formazione e il sostegno di corpi di pace andrebbero collegati al servizio volontario europeo e, adeguatamente preparati e addestrati, impiegati nelle aree di conflitto o di tensione violenta.

          Una presenza attiva del governo italiano per l’approvazione del piano di disarmo che l’ONU inizierà a discutere ad ottobre 2006, promuovendo l’emanazione delle norme necessarie, italiane e internazionali, per regolamentare il traffico e la disponibilità di armi leggere, che sempre più si rivelano essere causa diretta di morti e di feriti innumerevoli e causa scatenante di un numero crescente di conflitti.

          La riduzione delle spese militari, anche con la cancellazione o il ridimensionamento di programmi di produzione di sistemi d’arma utili solo in una prospettiva di guerre offensive, dando sostegno immediato alla riconversione dell’industria bellica italiana, tra le più fiorenti al mondo, in industria civile.  

          Un’impostazione fortemente innovativa della cosiddetta cooperazione allo sviluppo (dove il termine “sviluppo” andrebbe modificato, in quanto legato al dannosissimo modello economico dominante), destinando risorse superiori allo 0,70 del Pil, obiettivo ormai inadeguato alle condizioni di interi continenti, dando priorità a progetti di collaborazione con partners locali significativi della società civile.

Proposte per l’immediato

 

        Utilizzare gli strumenti della diplomazia Italiana nella guerra in corso tra Israele, Libano e Palestina, intervenendo presso tutte le sede competenti delle Istituzioni e della Comunità Internazionale, Nazioni Unite, Unione Europea e Governi, chiedendo il cessate il fuoco e favorendo un’azione di interposizione volta ad impedire l’estensione della guerra, fermare la spirale di violenze e rappresaglie, proteggere i civili. Al fine di affermare il diritto internazionale si propone al Parlamento italiano di far pressione internazionale revocando il memorandum d’intesa militare tra Italia e Israele e lavorando perché l’Unione Europea sospenda il trattato commerciale con Israele fintanto che permarrà la violazione dei diritti umani.

        Ritirare rapidamente le truppe italiane dall’Iraq e dall’Afghanistan con la  sostituzione immediata di una presenza consistente di attività civili di sostegno al governo legittimo in carica, senza la protezione di forze armate straniere di alcun tipo; avviare la trattativa interna alla NATO per la graduale riduzione della presenza militare italiana in Afghanistan sostituendo le poche iniziative di ricostruzione, affidate ai CRP, con un piano organico di attività civili no profit; ritirare le navi italiane e gli aerei che pur nelle retrovie sostengono l’iniziativa militare sotto controllo statunitense in Afghanistan.

        Ridurre la spesa militare, visto che secondo i dati del Sipri (l’Istituto di ricerca sulla pace di Stoccolma) l’Italia è settima al mondo spendendo per la Difesa 484 dollari pro-capite. Una parte di questi soldi potrebbe essere impiegata per sviluppare un concetto di difesa alternativo al modello armato, e per finanziare i progetti di  ricostruzione dei paesi dove oggi l’Italia è presente militarmente.

        Avviare una decisa trattativa per l’eliminazione delle basi estere dal territorio italiano e una strategia di trasformazione di gran parte delle aree riservate ad usi militari (compresi i poligoni) in parchi ed aree protette a fini di salvaguardia dell’ambiente.

        Ripristinare e potenziare i vincoli alla esportazione di sistemi d’arma e di armi leggere attraverso la revisione e il rafforzamento della legge 185/90, proponendo la logica di questa legge come modello per la legislazione degli altri paesi europei e dell’Unione Europea nel suo complesso. Chiediamo quindi di salvaguardare la trasparenza data dalla relazione annuale della legge 185/90 che rende conto anche delle operazioni svolte dagli Istituti di credito in appoggio al commercio delle armi italiane.

        Lavorare in ambito NATO, a partire dall’imminente vertice di Riga (nov. ‘06) per il definitivo superamento della politica del “nuclear sharing”, ovvero la presenza di armi nucleari statunitensi sul territorio di paesi europei. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, procedere con lo smantellamento delle 90 atomiche presenti nelle basi di Aviano (PN) e Ghedi Torre (BS). Tale presenza comporta che sia gli Stati Uniti, "stato nucleare", sia l'Italia, "stato non-nucleare", finiscano per violare il Trattato di non proliferazione nucleare del quale sono entrambi firmatari. A causa di questa flagrante violazione lo stesso trattato diventa meno efficace.

        Enunciare il principio che le guerre tradizionali e ad alta tecnologia non sono in grado di estirpare il terrorismo e che occorre invece contribuire a modificare le condizioni di vita delle popolazioni spinte, dalla mancanza di speranze per il futuro, a scegliere la via della reazione armata.

 

        Dar corso all’uscita dell’ENI dall’accordo con le altre società petrolifere interessate ai giacimenti iracheni, avviando una trattativa con il governo in carica a condizioni di favore almeno per i prossimi cinque anni.

Per noi, una presenza civile in Iraq ed in Afghanistan, significa:

 

1.       Trasformare l’ospedale da campo della Croce Rossa italiana a Nassiryia in  collaborazione con la corrispondente organizzazione irachena, trasferendovi  materiali e favorendone gradualmente l’autonoma gestione, dopo aver formato il personale necessario.

 

2.       Individuare un certo numero di ospedali pubblici iracheni e far valutare ai  responsabili medici locali le necessità sanitarie, impegnandosi a soddisfarle per un periodo di almeno sei mesi o un anno. Individuare un corrispondente numero di ospedali italiani (scelti per competenze e specializzazioni richieste dalla situazione sanitaria nel paese) ad attuare un gemellaggio che permetta una collaborazione professionale continuativa e la formazione di omologhi, realizzando soltanto brevi missioni ed ospitando in Italia il personale medico e sanitario iracheno.

 

3.       Prevedere un analogo intervento per scuole e strade, collaborando alla costituzione in loco di nuclei di ingegneri e tecnici, fornendo assistenza  dall’Italia per tutte le esigenze di rilevazione dei fabbisogni, di progettazione, di scelta dei materiali, di organizzazione dei cantieri e di fornitura di macchinari, realizzando solo brevi missioni presso i competenti ministeri.

 

4.       Attuare un gemellaggio delle scuole con analoghi istituti italiani nell’ambito della cooperazione decentrata di Comuni e Regioni, inviando materiali didattici e trasferendo le necessarie competenze didattiche.

 

5.       Fornire le competenze tecniche, richieste dalla ricostruzione, attraverso la collaborazione tra i ministeri competenti, soprattutto per quanto riguarda l’acqua e l’energia, mobilitando anche le competenze e le disponibilità di tecnici, per brevi missioni e per eventuale formazione, presenti in alcuni Comuni italiani disposti al gemellaggio.

 

Questa modalità di intervento può esporre a rischi per periodi brevissimi solo un numero molto limitato di italiani, tutti civili volontari, mentre può accelerare moltissimo le prime fasi della ricostruzione, che possono essere iniziate subito, almeno nelle zone dove è già operativo l’esercito iracheno. Può mobilitare enti e organismi in Italia desiderosi di collaborare a una concreta iniziativa civile.

Il piano può essere presentato subito al governo iracheno e afgano nell’ambito delle trattative per il ritiro delle truppe. L’onere finanziario potrebbe non essere superiore al risparmio ottenuto dal decrescente impegno militare e potrebbe quindi essere deciso a livello politico al momento dell’approvazione parlamentare del decreto per il rifinanziamento delle missioni all’estero.

E’ evidente che questo approccio non prevede la presenza di imprese italiane, la partecipazione ad appalti, ecc. peraltro finora resi impossibili dalla pesante situazione militare sul terreno, destinata a protrarsi per almeno un anno. Delinea invece per il nostro paese un impegno civile ad alto livello, alternativo a quello puramente militare od economico, che può essere difeso e proposto nelle sedi internazionali.

 

In ultimo, un pensiero ai movimenti per la pace

In ultimo rivolgiamo un pensiero all’articolato mondo dei movimenti della pace, ai tantissimi volti e gruppi che operarono quotidianamente per “la pace” e per una “cultura nonviolenta” nelle relazioni: siamo convinti che non ci si possa esimere, partendo dai territori, dal continuare ad esprimere la propria “indignazione”,  riaffermando, in Italia e nel mondo, che solo una vera cultura e conseguentemente, una politica di pace, è in grado di dare un segnale di discontinuità alle logiche di guerra permanente.

 

Glt-nonviolenza e Conflitti Rete Lilliput

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