Armamenti - Il Trattato di non proliferazione nucleare è in crisi, nascerà un nuovo ordine delle armi atomiche?



QuadrantEuropa 25/06/2006

Sono molti i segnali che indicano che l'Npt non è più in grado di corrispondere alla nuova realtà delle relazioni internazionali. Un sistema minato pure da una politica energetica contraddittoria. Il nuovo ordine nucleare dovrà basarsi sulla cooperazione

Nel marzo di quest’anno mentre la crisi del nucleare iraniano raggiungeva il culmine, Stati Uniti e India annunciavano la conclusione di un accordo che per molti osservatori aveva il carattere di una svolta. Gli americani annunciavano la cooperazione sul nucleare civile con un Paese che non aveva mai aderito al Trattato per la limitazione delle armi nucleari (Non-Proliferation Treaty, Ntp). Come contropartita Nuova Delhi si dichiarava pronta a sottoporre gli indirizzi del proprio nucleare civile al controllo della comunità internazionale. L’accordo giungeva in un momento di forte tensione nelle relazioni globali. La comunità internazionale metteva in dubbio il diritto all’arricchimento dell’uranio da parte di Teheran, ma gli Usa non avevano nessuna remora a dare via libera alla cooperazione nucleare con un Paese che non ha mai fatto parte del regime di non proliferazione.

Abbandonare ogni interpretazione di comodo

Indubbiamente il sistema detto della non proliferazione si trova da tempo in una crisi esistenziale. Se volessimo tornare ai termini del tormentone della politica di sicurezza, l’imputato principale sarebbe rapidamente trovato: gli Stati Uniti d’America. Per molti osservatori è scontato che sono le profonde contraddizioni della politica estera e di sicurezza di Washington, a sotterrare la credibilità del regime di non proliferazione. Dalla rinuncia a ratificare in blocco l’accordo della moratoria sugli esperimenti atomici, fino al recente passo con l’India, attraverso la guerra in Iraq, sarebbero gli Usa a minare le basi del disarmo nucleare. La crisi trova dunque la sua unica causa nella doppia morale americana? O forse siamo di fronte ad una ennesima interpretazione di comodo? E se invece, le cause principali della crisi regime di non proliferazione fossero da individuare nella debolezza strutturale dello stesso Ntp, e nello sviluppo della politica di sicurezza seguita alla guerra fredda che ha annullato molte delle classiche fondamenta su cui si basava la non proliferazione tra gli Stati?

Un trattato globale

Con 187 stati assoggettati alle sue regole, il Npt possiede senza dubbio le caratteristiche di un vero e proprio trattato globale, una struttura che ha però le sue radici nel passato. Era soprattutto l’interesse comune di Usa e Urss, che volevano limitare il numero delle potenze nucleari alle cinque già esistenti in quegli anni, a dare stabilità al Npt. Senza una limitazione totale, cosi si pensavano Mosca e Washington, tutti gli Stati, anche gli alleati più stretti delle due superpotenze, avrebbero spinto per raggiungere il prestigio legato al possesso dell’arma atomica.

Quale contenuti dare però a un trattato che voleva nientedimeno a fissare la disparità tra potenze nucleari e “paria nucleari”? L’Npt ha tentato di rispondere a questo dilemma facendo intravedere dei compensi per gli Stati non nucleari che avrebbero aderito al Npt. Da una parte questi ricevano aiuti per lo sfruttamento civile dell’energia nucleare. Dall’altra avrebbero potuto essere certi di stare creando le cornici di uno sviluppo strategico credibile e sicuro. Gli Stati nuclearizzati si impegnavano non solo a non sviluppare tecnologie nucleari, ma assicuravano che avrebbero portato avanti un disarmo progressivo vincolandosi a non usare armi atomiche nel caso di attacchi a Stati sprovvisti della bomba. Infine il Trattato aveva dei limiti temporali e, subordinato agli interessi nazionali, poteva essere sempre denunciato.

Debolezze e successi iniziali dell’Npt

È stato sulla base di questo complesso scambio che nel marzo 1970 l’Ntp è potuto entrare in vigore. I suoi problemi strutturali erano però chiari sin dall’inizio. Come strumento di controllo esisteva già la Commissione internazionale per l’energia atomica (Iaea), però un meccanismo sanzionatorio in caso di violazione delle regole del trattato non era previsto. La limitata durata temporale del trattato era un fondamento dell’Ntp, ma proprio questa via d’uscita che aveva permesso l’adesione di molti Stati, rendeva però il Trattato estremamente fragile al mutare dei rapporta di forza internazionali. Si poteva innanzitutto prevedere che prima o poi, o per vera convinzione o per alibi, gli Stati non nucleari avrebbero preteso la realizzazione della promessa del disarmo delle potenze nucleari.

Il tallone d’Achille del trattato era però la contraddizione insita nella sua politica energetica. Il Npt impediva la proliferazione nucleare, mentre stimolava quella civile. Poiché però la tecnologia civile si distingue solo in modo marginale da quella militare, già durante la sua stesura gli esperti avevano messo in guardia da quello sviluppo che oggi rischia di diventare realtà con l'Iran: portando avanti un programma di nucleare civile conformemente al trattato, uno Stato può giungere alla soglia della potenza nucleare militare. Solo gli ultimi passi della produzione delle armi nucleari sarebbero vietati, passi che leader nazionali decisi a tutto possono compiere non appena fuoriescono dall’Npt e dai suoi obblighi.

Nonostante queste risapute debolezze i primi sviluppi del regime di non proliferazione si sono rivelati un successo. Uno dopo l’altro quasi tutti gli Stati del pianeta ne hanno condiviso le regole. Ma non solo. La limitazione delle armi nucleari sembrava essere diventata la norma morale della politica globalizzata. Alla fine degli anni ’80 il Sudafrica in via di democratizzazione abbandonava il suo programma nucleare. Con la dissoluzione dell’Urss, i nove Stati che ne avevano preso il posto cedevano le proprie armi atomiche alla Federazione russa, ed entravano a far parte dell’Npt come potenze denuclearizzate. Il punto massimo di questa tendenza positiva era il nuovo accordo tra i suoi membri del maggio 1995. L’Npt veniva rinnovato togliendo ogni limitazione temporale alla sua validità.

La fine della guerra fredda cambia il gioco mondiale

Il bel gioco è però durato poco. Gli anni ’90 danno il via anche ad una serie di sviluppi che avrebbero messo in discussione la credibilità del Npt. Con la fine della guerra fredda uno dei pilastri del trattato del regime di non proliferazione iniziava a sfaldarsi. Nella primavera del 1991, prima dell’inizio della guerra con l’Iraq di Saddam Hussein, gli Usa minacciavano l’uso dell’arma nucleare nel caso in cui le forze armate irachene avessero utilizzato i gas contro le truppe della coalizione. Questo annuncio non era certo la messa in discussione della garanzia negativa del trattato, che proibisce le armi nucleari contro Stati che ne siano privi. Da quel momento diventava però chiaro che le armi chimiche e biologiche andavano trattate come quelle nucleari e dunque dovevano essere previste dall’Npt. L’ipotesi che le armi nucleari dovevano servire solo, ad impedire l’uso di altre armi nucleari da parte dell’avversario, non corrispondeva più alla nuova realtà militare.

Poco dopo un altro colpo basso. Si capisce che l’Iraq da anni porta avanti un completo programma militare nucleare, ed è quasi in grado di produrre la sua prima testata nucleare. Le autorità della Iaea, nonostante i controlli regolari non si erano accorte di nulla. La reazione della comunità internazionale è un protocollo aggiuntivo al Trattato che allarga le competenze della Iaea. Ora le ispezioni sono possibili anche in base al solo sospetto. I dubbi sulla credibilità del regime di non proliferazione continuavano però ad esistere.

Dopo Asia e Medioriente, l’11/9 e il terrorismo fondamentalista

Alle sfide mediorientali, si sommavano presto i problemi nell’Asia sud orientale. Nel 1994 gli Usa attraverso massicce pressioni diplomatiche riuscivano a bloccare momentaneamente il programma nucleare della Corea del Nord. La crisi innescata dalle ambizioni nucleari di Pyongyang, che nel 2003 era uscita dal Npt, è durata fino ad oggi. Nell’autunno del 1998, gli esperimenti nucleari di India e Pakistan, due dei pochi Stati che non facevano parte del regime di non proliferazione, davano all’Npt un nuovo, duro scossone.

Nel 2001, gli attacchi del 11/9 mettono al centro dell’attenzione mondiale, una nuova dimensione del problema: il terrorismo atomico. La prospettiva che soggetti non statali possano procurarsi armi di distruzione di massa, rappresenta per il regime di non proliferazione interstatale una nuova sfida. Entra in crisi anche quello che fino a quel momento sembrava un dato inoppugnabile: la certezza che fosse pressoché impossibile per i gruppi terroristi procurarsi armi nucleari. La discussione sulla presunta “talibanizzazione” del Pakistan – e con ciò la possibilità che gruppi fondamentalisti religiosi entrino in possesso di una completa infrastruttura nucleare – indica che il nesso tra fanatismo e armi di distruzione di massa in futuro potrebbe riservare qualche spiacevole sorpresa.

La scoperta di una rete per il contrabbando nucleare di Abdul Qadeer Khan, il “padre dell’atomica pakistana”, ha rappresentato un colpo ulteriore al regime di non proliferazione. Khan aveva messo su un sistema attraverso il quale smerciava il know-how nucleare e con ciò aiutava Corea del Nord, Iran, Libia e molti altri Stati a realizzare le rispettive ambizioni atomiche. Questo mercato quasi privato faceva cadere un altro presupposto del Trattato. Uno stato con ambizioni nucleari non dipendeva più dall’aiuto delle potenze nucleari classiche, per produrre la propria tecnologia militare nucleare. La tendenza all’autarchia si rafforzava attraverso la collaborazione di un crescente numero di fisici formatisi in occidente o nell’ex Urss, così come dall’introduzione di materiali “dual use”, che molti Paesi industriali erano pronti a cedere nonostante i controlli all’esportazione, utilizzabili sia per il nucleare civile che per quello militare.

Come uscire dal dilemma?

Questi sviluppi mostrano perché aumentare solo le restrizioni già previste dal Npt, non è sufficiente. Esistono anche altre proposte, per esempio rendere più difficile la fuoriuscita dal Trattato o procedimenti di verifica più rigidi, però nessuna di queste riesce ad uscire dal dilemma del Ntp. Lo stimolo all’energia nucleare civile, nasconderà sempre il pericolo del suo utilizzo per scopi militari, mentre una limitazione della cooperazione nucleare civile, metterebbe in discussione lo scambio su cui si basa il Trattato: l’astinenza militare ripagata con vantaggi nel settore civile. E del resto, di fronte alla crescente carenze di materie prime, quanto sarebbe razionale rendere ancora più difficile ad altri stati l’uso civile dell’energia atomica?

Per capire quanto irrealistica sia la presa di posizione che per risolvere gli attuali problemi, punta unicamente alla riforma del trattato, basta solo vedere i differenti interessi che dividono il Consiglio di sicurezza dell’Onu. In fondo l’Ntp è un meccanismo amministrato dall’Onu, al cui vertice si trova il Consiglio di sicurezza. In quella sede si decide come interpretare il Tratto e come agire nei confronti di chi violi le sue normative. Nel caso dell’Iran, finora i cinque membri permanenti sono stati in grado di raggiungere una posizione comune. Non è detto che questo consenso durerà anche nel caso in cui occorrerà prendere provvedimenti più efficaci contro Teheran.

Paradossalmente il caso dell’Iran potrebbe rivelarsi come l’esatto contrario della politica energetica fin qui seguita dall’Npt e che ha logorato il trattato. In questo caso non si tratta più di aiutare un Paese a liberarsi delle sue carenze energetiche sostenendolo nello sviluppo del nucleare civile. Si è invece di fronte a un Paese ricco di energie fossili che vuole aprirsi ad una imprevedibile opzione nucleare, per non esaurire le riserve delle sue materie prime.

Se si continua a restare aggrappati al regime di non proliferazione senza però veramente credere che il sistema, attraverso riforme, riesca a stabilizzarsi in maniera durevole, perché meravigliarsi se gli Usa si schierano dalla parte dei “pessimisti della proliferazione”? Anche se le diplomazie americana e inglese sono riuscite, nel dicembre 2003, a spingere la Libia ad abbandonare il suo programma nucleare, alla fine la forza normativa del fatto si farà valere sul regime della non proliferazione. Come nel trattare con l’Iran non si può prescindere dal suo ruolo di Paese esportatore di petrolio, e nel farlo col Pakistan occorre ricordare che Islamabad è un indispensabile alleato nella battaglia contro il terrorismo, così anche il significato geopolitico della cooperazione con l’India è troppo importante per escludere da essa l’opzione del nucleare civile. L’accordo indo-americano è perciò il tentativo di far andare d’accordo il classico principio della non proliferazione con le nuove necessità della Realpolitik. Non a caso il direttore della Iaea, al-Baradei, lo ha salutato favorevolmente.

Un aiuto dalla fantascienza

15 anni fa lo scrittore di romanzi militari Tom Clancy pronosticando una nuova epoca di espansione delle armi di distruzione di massa, aveva consigliato agli esperti in armamenti di stimolare maggiormente la ricerca in immunobiologia e quella per la lotta ai tumori. A differenza del classico controllo sugli armamenti, e oltre alla ricerca incessante di risposte alle nuove minacce secondo Clancy bisogna affidarsi alla medicina. Un consiglio ancora attuale, anche se gran parte della politica di sicurezza della comunità internazionale punta a restaurare un regime di controllo globale degli armamenti. Chi invece come gli Usa mette in dubbio l’efficacia di tale strategia ed disposto a procedere in maniera individuale nei confronti di singoli Paesi, viene ritenuto un traditore globale, il vero rischio per la sicurezza.

Come spiegare le numerose pubblicazioni dei centri di ricerca occidentali per la pace, dove le ambizioni iraniane incontrano maggiore comprensione delle richieste di disarmo europee e americane? Se le armi nucleari vengono giustificate come il “pugno” delle piccole potenze contro il possibile intervento Usa, allora il controllo sugli armamenti corre il rischio di ricadere nello stesso riflesso condizionato degli anni ottanta. Allora quest’atteggiamento, sconfessando le istanze politiche al superamento del sistema, ha portato i suoi autori alla marginalità politica per lasciarli, dopo la fine della guerra fredda e la vittoria americana, a bocca aperta. Anche oggi, nella “seconda età nucleare”, si dovrebbe riconoscere che il pragmatismo e non il dogmatismo possono rendere sopportabili le relazioni internazionali e i pericoli che ne discendono.