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Appello internazionale contro le basi militari
- Subject: Appello internazionale contro le basi militari
- From: "Marcao" <caomar at tiscali.it> (by way of Carlo Gubitosa <c.gubitosa at peacelink.it>)
- Date: Tue, 04 Apr 2006 21:14:11 +0200
Mentre a L'Avana era in corso la conferenza internazionale cui si riferisce il testo (7-10 novembre 2005), in Sardegna il TAR avrebbe dovuto pronunciarsi sul ricorso del comitato "Firma sa Bomba" contro la bocciatura da parte dell'Ufficio Regionale del referendum sulla base atomica Usa di La Maddalena. Il risultato della sentenza (slittata!) è stato seguito in "diretta telefonica" dai delegati e la Conferenza si è espressa formalmente con un comunicato di sostegno e solidarietà al popolo sardo in lotta.
Ci scusiamo per non aver fatto circolare il testo.Cogliamo l'occasione per ringraziare sentitamente il comitato Gettiamo le Basi Emilia-Romagna, radio città aperta di Roma, Sardigna Natzione, il gruppo consiliare Prc della Regione Sardegna e le tante associazioni di base che hanno voluto con forza la nostra partecipazione alla conferenza e si sono mobilitate per sostenerne il costo economico.
Comitato sardo Gettiamo le Basi ******************************** DA CUBA UN APPELLO CONTRO LE BASI MILITARI STRANIERE NEL MONDO Di Marco Santopadre (tratto dalla rivista Nuestramerica n° 1)“Occorre creare una rete mondiale che si opponga al diabolico sistema rappresentato dalle centinaia di basi militari in possesso degli Stati Uniti in tutto il mondo”. Così ha esordito Orlando Fundora Lopez, decano del Movimento Cubano per la Pace e la Sovranità dei Popoli aprendo la seconda “Conferenza internazionale sulle basi militari straniere”. Organizzata da questa Ong cubana a l’Avana dal 7 al 10 di novembre, vi hanno preso parte 69 delegati provenienti da 22 paesi e quattro continenti, praticamente tutti tranne l’Oceania. Per l’Italia erano presenti diverse delegazioni, tra le quali quelle del Partito della Rifondazione Comunista e della Rete dei Comunisti per quanto riguarda le forze politiche, oltre che del Comitato per il ritiro dei militari italiani dall’Iraq e del Comitato sardo “Gettiamo le basi” per quanto riguarda i collettivi che si battono per lo smantellamento delle basi straniere sul nostro territorio.
Obiettivo dichiarato dell’iniziativa era ambizioso ma concreto: non solo la denuncia della militarizzazione del pianeta operata dalle amministrazioni statunitensi negli ultimi anni in nome della cosiddetta “guerra al terrorismo”, bensì anche l’aggiornamento della categoria analitica di militarizzazione dei territori in base alle evoluzioni interne alla concezione militare statunitense. Infatti se è vero che complessivamente nel mondo il numero delle basi militari vere e proprie cresce (sono infatti passate ufficialmente da circa 712 alle attuali 737, secondo i dati forniti nella sua relazione dal professor Luis M. Cuñarro, Vicepresidente del Centro di Studi di Informazione della Difesa di Cuba) è vero anche che gli Stati Uniti e le alleanze militari da essi egemonizzate come la NATO hanno cominciato, in base ad una nuova concezione più elastica della propria presenza militare nei cinque continenti, ad utilizzare forme meno evidenti e quindi meno contrastabili da parte delle popolazioni. Lo scopo, ove possibile, è quello di dissimulare la propria presenza in maniera da rendere meno giustificabile una opposizione popolare alla presenza di basi militari straniere che ormai sta dilagando ovunque. Le basi sono solo una parte, quella più visibile, della militarizzazione operata dagli USA: ad esse occorre aggiungere la presenza di consiglieri e tecnici, la fornitura di tecnologia e armi, la realizzazione di esercitazioni congiunte, la creazione di eserciti e meccanismi integrati di difesa regionali sotto il comando statunitense in diverse aree del pianeta, missioni “di pace e umanitarie”, collaborazioni tra le rispettive intelligence ecc.
Basta godere della facoltà di utilizzare un porto, o un aeroporto, o una installazione in una qualsiasi città per trasformare queste infrastrutture in vere e proprie basi militari non soggette però ai complessi trattati bilaterali necessari in genere, e oltretutto con un dispendio economico assai inferiore rispetto alle basi convenzionali, in quanto normalmente le truppe e i tecnici militati USA si limitano a una presenza periodica, discontinua, senza famiglie al seguito, potendo godere però comunque di appoggi logistici necessari ad avvicinarsi il più possibile a quelle aree che Washington considera vitali per l’approvvigionamento di risorse naturali, per combattere regimi politici considerati nemici e pericolosi, per occupare territori dai quali lanciare nuove aggressioni militari. Anche le enormi portaerei e le fortezze volanti o gli aerei radar disseminati negli oceani e nei cieli sono basi militari a tutti gli effetti, che permettono agli aspiranti padroni del mondo di controllare ogni angolo del globo e di intervenire in tempi ridottissimi quando lo ritengono necessario per salvaguardare la propria egemonia.
Nell’ambito di una riorganizzazione mondiale della propria presenza gli USA stanno smantellando le proprie basi in alcuni territori tradizionalmente militarizzati, basti pensare alle grandi infrastrutture in Germania, o in certe aree della Gran Bretagna. Ma queste basi vengono spostate o altre nuove vengono costruite là dove sono più utili, quindi nel fronte sud del Mediterraneo proiettate verso Nord Africa e medio oriente, e nell’Europa orientale, proiettate verso Russia, Cina e India considerate sempre più dagli USA pericolosi competitori sul piano economico e anche sempre più spesso militare (così come l’Europa dei 25). E così i comandi militari USA stanno operando a livello mondiale una enorme ridislocazione complessiva lungo una direttrice che hanno soprannominato “Arco di instabilità” che va dalle zone settentrionali del Sud America all’Africa Sub Sahariana passando per il “Grande Medio Oriente” per arrivare fino a Indonesia e Filippine. Sono stati resi noti progetti dell’amministrazione Bush di costruzione di decine di nuove basi in Polonia, Romania, Bulgaria, Turchia, Azerbaijan, Sao Tomè, Filippine, Singapore, Pakistan, Malaysia, Ghana, Mali, Sierra Leone, solo per fare alcuni esempi e senza dimenticare che in tutti i paesi aggrediti e occupati militarmente sono state costruite enormi infrastrutture, come in Bosnia, in Kosovo, in Afghanistan, in Iraq.
Le non richieste attenzioni degli strateghi USA si concentrano su alcuni territori in particolare, come il meridione d’Italia o quello spagnolo, il sud est asiatico e, soprattutto, quell’America Latina che fino a pochi anni fa era considerato il “cortile di casa” ma che ormai l’affermarsi di governi progressisti e rivoluzionari, oltre che la penetrazione politica e commerciale europea e asiatica, hanno reso un territorio ostile alla dominazione yankee. Ed infatti la proliferazione della presenza militare USA nel sud e nel centro America è dichiarata e visibile, anche se coperta da lotta contro il narcotraffico o contro il terrorismo islamico o le guerriglie di sinistra. Bush può già disporre di un imponente rete militare in America latina, fatta di una decina di basi vere e proprie e ufficialmente riconosciute - Guantánamo a Cuba, Roosevelt Roads e Fort Buchanans a Puerto Rico, le basi aeree nelle piccole ma strategiche Colonie Olandesi de Aruba y Curazao, quelle di Palmerola e Soto Cano in Honduras, Manta in Ecuador, quelle di Valle de Huallaga in Perú, di Comalapa in Salvador, di Liberia in Costa Rica - e di un’infinità di stazioni radar in Colombia, di centri di controllo e logistici in tutto il subcontinente.
Ma altre ne vuole costruire nel più breve tempo possibile, e per questo ha imposto alle nazioni latinoamericane una serie di progetti di integrazione militare che vanno dal “Plan Puebla Panamà” per quanto riguarda Messico e centro america, il Plan Colombia per la parte nord del sud america, l’Iniciativa Andina sulla costa occidentale e poi le pressanti richieste al Brasile affinché permetta l’occupazione della base di Alcantara e all’Argentina affinché accetti basi USA nella Terra del Fuoco e nella cosiddetta zona della “Triple Frontera” tra Brasile, Argentina e Paraguay. Dopo anni di resistenze da parte dei governi di Brasilia e Buenos Aires Washington sembra riuscire ad aggirare l’ostacolo premendo sul subalterno governo del Paraguay, che già quest’anno ha permesso l’installazione di circa 500 militari (e altri 1500 circa ne dovrebbero arrivare) all’interno della zona del suo territorio detta appunto “tripla frontiera”, con la scusa di organizzare un presidio contro il terrorismo jhadista che potrebbe annidarsi nella folta comunità arabo-islamica installata nella zona da più di un secolo. Se le basi in Brasile e quelle sul versante amazzonico dell’Ecuador e del Perù hanno l’obiettivo di assicurare a Washington il controllo di una delle maggiori riserve di acqua, petrolio e biodiversità del pianeta (come ha evidenziato David Alvarez Dieppa nella sua relazione “Basi militari e risorse naturali in America Latina”), quelle installate in Colombia, nelle isole di Aruba e Curaçao servono invece ad accelerare l’accerchiamento del Venezuela bolivariano, il cui governo è sottoposto da anni a tentativi di golpe e a provocazioni da parte dei paramilitari di estrema destra che operano in Colombia con l’appoggio incontestabile delle forze armate statunitensi. Di fronte al consolidamento della rivoluzione bolivariana e della sua influenza sul resto dell’America Latina gli USA propendono sempre più per una soluzione militare. A questo scopo dovrebbe servire anche la doppia base di Manta, una località costiera dell’Ecuador, edificata in base a una convenzione stipulata il 12 novembre del 1999 che concedeva agli USA l’uso della base navale e di altre infrastrutture solo per potenziare la lotta contro il narcotraffico in Colombia. Ma i militari statunitensi, come ha raccontato nel suo intervento Santiago Arguello, fanno molto di più: utilizzano Manta come retrovia per gli attacchi contro la guerriglia di sinistra in Colombia; hanno moltiplicato le installazioni a terra scacciando le popolazioni autoctone dai loro territori; le navi da guerra USA attaccano spesso le barche dei pescatori ecuadoregni anche sparando colpi di arma da fuoco (l’episodio più grave è il probabile affondamento nel 2002 dell’imbarcazione Jorge IV con 18 uomini dell’equipaggio, tutti scomparsi); hanno chiuso le acque intorno alla base e impedito alle navi battenti bandiera ecuadoriana di navigarci e quindi violando la sovranità nazionale del paese; hanno consegnato le operazioni militari a un’impresa di mercenari, la Dyn Corp, un’impresa che opera direttamente in Colombia e si occupa dell’addestramento dei piloti e degli elicotteristi e di operare le fumigazioni per la distruzione delle coltivazioni illegali di foglia di coca nel Putumayo ed è la responsabile dell’alterazione del glifosfato (la sostanza chimica utilizzata) che ha comportato gravi danni per la salute della popolazione che vive alla frontiera colombo-ecuadoriana.
La base di Manta è illegale, in quanto pur essendo nata da un trattato internazionale non è stata mai ratificata dal parlamento del Paese, mentre le mobilitazioni popolari che all’inizio dell’anno hanno ottenuto la destituzione di Gutierrez hanno anche ottenuto il blocco del progetto nordamericano di creare un aeroporto militare nella città orientale di Tena. I comitati che si battono per la chiusura di Manta ne hanno più volte violato i confini a bordo di imbarcazioni, per denunciarne la pericolosità e l’illegalità, e hanno creato un cordinamento nazionale contro la base che raggruppa partiti, sindacali, forze sociali e associazioni per i diritti umani.
Non c’è da stupirsi se l’Ecuador è stato scelto dalla Conferenza dell’Avana come sede per lo svolgimento di un ulteriore appuntamento nel marzo del 2007: una “Conferenza Mondiale contro la presenza di basi militari straniere nel pianeta”.
Non c’è neanche da stupirsi che l’appuntamento di dicembre sia stato realizzato a Cuba, un paese che non solo dal trionfo della Rivoluzione si è sempre battuto contro la guerra e contro l’imperialismo, ma che deve soffrire la permanente offesa rappresentata dalla presenza di una enorme base statunitense sul proprio territorio. Stiamo parlando della Base Navale di Guantanamo, nell’estremo oriente dell’isola, costruita dai nordamericani all’inizio del XX secolo per mantenere stabilmente un presidio militare a Cuba dopo averla occupata per vari anni con la scusa di difenderne la popolazione dalla in realtà già sconfitta potenza coloniale spagnola. Di fronte all’aut aut di Washington – o la base o la permanenza delle truppe di occupazione – nel 1903 il subalterno governo cubano accettò di consegnare agli USA il territorio di Guantanamo senza fissare nessuna scadenza, il che viene considerato inaccettabile dal governo rivoluzionario di Castro fin dai primi mesi dalla cacciata del dittatore Batista al quale a lungo sono giunte armi e rifornimenti da parte nordamericana provenienti proprio dalla base. La permanenza statunitense in territorio cubano è palese violazione del principio di consenso del diritto internazionale che stabilisce che ogni obbligazione giuridica di questa natura deve fondarsi sul pieno accordo tra le parti basato su obbiettivi e cause comuni.
Lo smantellamento continua a far quindi ad essere chiesto a gran voce del governo cubano, che considera questo lembo di terra nella provincia di Guantanamo un territorio nazionale occupato militarmente e ne denuncia le provocazioni continue con sconfinamenti, manovre militari, spari contro i militari cubani ecc. Negli ultimi anni, come è noto, gli USA hanno scelto di usare questa installazione per rinchiudere, a riparo da occhi indiscreti, centinaia di prigionieri catturati in tutto il mondo e i cui diritti più elementari vengono ripetutamente violati. Di questo aspetto si sono occupate numerose relazioni tenute da esponenti cubani durante la Conferenza, i cui organizzatori, anche grazie alla collaborazione delle Forze Armate Cubane, hanno permesso ai delegati stranieri di vedere con i propri occhi le infrastrutture della Caimanera dal punto di osservazione di Malones, situato su una collina che sovrasta il territorio della base che si estende su circa 116 Kmq e consta, oltre al porto, di due piste per grandi aerei ed è presidiata da 9000 militari, con rispettive famiglie al seguito. Ai delegati esteri è stata data anche l’opportunità di visitare le installazioni militari che circondano la Caimanera, vigilate da migliaia di ragazzi e ragazze cubani che svolgono il proprio periodo di servizio militare nella Brigata di Frontiera, così come viene chiamata la branca delle FAR che si occupa della sorveglianza dei movimenti degli occupanti abusivi dell’installazione.
Infatti fin dal fallimento del tentativo di invasione dell’isola nel 1962 a Playa Giron le diverse amministrazioni statunitensi hanno sempre utilizzato la base di Guantanamo come enclave dall’interno del quale far partire provocazioni nei confronti del governo rivoluzionario, allo scopo di fornire dei pretesti per giustificare l’intervento militare USA presentato come una inevitabile reazione ad attacchi ostili operati dall’esercito cubano. All’interno della base, la cui presenza sul territorio dell’isola rappresenta una aperta violazione di tutti i trattati internazionali e della sovranità nazionale cubana (come ha ampiamente dimostrato la relazione della D.ssa Olga Miranda, Presidente dell’Associazione di diritto internazionale della Unione Nazionale Giuristi Cubani) si violano i diritti umani dei prigionieri stranieri così come in passato vi si ammassavano in condizioni disumane migliaia di profughi cubani che tentavano di lasciare l’isola o le migliaia di profughi haitiani in fuga dalla povertà e dalla repressione del regime di Port Au Prince.
A Guantanamo, non è un mistero, si trama da sempre per destabilizzare il legittimo governo del paese; caratteristiche che accomunano la Caimanera a molte altre basi nordamericane e NATO sparpagliate nel mondo. E’ noto il ruolo delle basi USA come retroterra dei colpi di stato di estrema destra realizzati in tutti gli ultimi decenni nei vari paesi sia dell’America Latina che dell’estremo oriente, oltre che nelle trame nere ai danni dei movimenti popolari e addirittura nella realizzazione delle cosiddette “stragi di stato” ad esempio nell’Italia degli anni ’60, ’70 e ’80, come è stato opportunamente ricordato dai numerosi interventi italiani alla conferenza dell’Avana.
Oltre ad essere un focolaio permanente di tensioni, provocazioni e aggressioni, la Base di Guantanamo arreca - come tutte le zone militari - un grave danno ecologico per il territorio che occupa da quasi 100 anni. Infatti Guantanamo ospita il 30% della flora e della fauna di Cuba. La sua baia, la cui imboccatura è occupata dalla base, è la terza per estensione del paese ed è situata in una zona ad alto endemismo e biodiversità che potrebbe essere protetta da un parco nazionale.
Battersi contro le basi vuol dire battersi contro la guerra permanente. Giustamente, è stato scritto nella risoluzione finale, per dare più forza e concretezza alla battaglia internazionale contro la guerra occorre rafforzare il coordinamento internazionale della lotta contro le basi, che rappresentano lo strumento utilizzato dalle potenze dominanti per mantenere la propria egemonia, per scatenare aggressioni militari a paesi sovrani, per controllare i territori all’interno dei quali vengono imposte, per assicurarsi il controllo delle risorse, per contrastare le forze progressiste e rivoluzionarie, per imporre anche un dominio culturale e ideologico sull’intero pianeta. Per questo si invitano i comitati che lottano per lo smantellamento delle basi a intensificare la propria azione e a renderle più efficace. Segnali positivi ve ne sono, a partire dalla vittoria del popolo dell’isola portoricana di Vieques che solo un anno fa, dopo anni di coraggiose e determinate mobilitazioni, è riuscito a imporre lo smantellamento dei poligoni militari USA. Anche il rallentamento da parte dei governi progressisti e dei movimenti popolari della penetrazione militare nordamericana in America Latina dopo il blocco delle basi in Brasile e Argentina sono da considerare un segnale di controtendenza che va fatto proprio e generalizzato.
Per non parlare della sconfitta del piano annessionista dell’Alca, dimostrato dal recente Vertice del Mar del Plata in Argentina, che inevitabilmente condurrà ad una messa in discussione anche dei risvolti militari di questo enorme mercato comune latinoamericano al servizio del capitalismo statunitense. In questo senso l’ennesimo voto, quasi all’unanimità, dell’Assemblea Generale dell’Onu contro il criminale blocco imposto dagli USA a Cuba, avvenuto proprio durante i giorni della Conferenza dell’Avana, è stato accolto dai delegati come un ulteriore segnale di speranza.
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