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Forze armate, la rivoluzione incompleta
- Subject: Forze armate, la rivoluzione incompleta
- From: Marco Trotta <mrta at bfsf.it>
- Date: Mon, 5 Apr 2004 18:19:04 +0200
Corriere della Sera mercoledì, 31 marzo, 2004 FORZE ARMATE Pag. 016 Forze armate, la rivoluzione incompleta Dalla leva ai professionisti, ma la legge è ferma. Ferracuti: «Se non viene varata subito rischiamo buchi nei reparti» Efficienti, stimati dagli alleati: il nuovo volto dei nostri militari. Rimane il problema di garantire un impiego dopo la fine della ferma Nese Marco ROMA - All' inizio furono sorrisi beffardi. Era l' estate del 1982. I giornalisti inglesi videro sbarcare i bersaglieri a Beirut e fecero gli spiritosi: «Sono arrivati gli italiani con pacchi di spaghetti e penne di gallina sul cappello». Comandava la spedizione il generale Franco Angioni, oggi deputato ds. «Ci presero in giro - ricorda Angioni -, ma i nostri ragazzi non si scomposero. Erano tranquilli, sicuri. Un po' nervosi erano i vertici militari di allora. Pesava ancora sul nostro Esercito l' ombra della sconfitta della Seconda guerra mondiale. C' era perciò la tendenza a starsene buoni, acquattati come un cucciolo. Invece noi ufficiali più giovani ci sentivamo pronti e il Libano fu la grande occasione per dimostrarlo». Gli italiani erano ragazzini di leva (a quel tempo non avevamo professionisti). Catapultati nell' inferno del Libano, male armati, al paragone coi marines americani e i parà francesi pieni di baldanza, facevano quasi tenerezza. Ma si rivelarono i migliori. E il vento cambiò. Sui muri dei campi profughi comparvero scritte col gesso Only Italy, solo gli italiani erano benvenuti. Il Financial Times scrisse che erano «il volto di un' Italia efficiente e seria». Cominciò lì una lunga scia di ammirazione. Al punto che a Timor Est, nel ' 99, dove l' Onu inviò militari di 28 nazioni, solo il passaggio delle jeep con la nostra bandiera scatenava entusiasmi. L' italian way, i metodi soft degli italiani crearono anche contrasti che nel ' 93, in Somalia, sfociarono in uno scontro aperto con gli americani. L' APPREZZAMENTO - Negli anni il prestigio è cresciuto. E oggi il fatto nuovo, sostiene un ammiraglio, «è che per la prima volta se l' Italia vuole contare sul piano internazionale, deve affidarsi ai militari». Restare fuori da una missione di pace equivale a essere emarginati. Le Forze armate sono diventate uno strumento di politica estera. «Finalmente contiamo qualcosa - sorride l' ammiraglio Guido Venturoni, ex capo del comitato militare della Nato -. Per anni ci hanno fatto gravare addosso un' ombra di sospetto. Abbiamo pagato la sconfitta in guerra, che però non fu solo un fatto militare, ma una tragedia nazionale. Per i comunisti eravamo il nemico, e il mondo cattolico ci snobbava. Avevamo però la simpatia della gente comune. I giovani chiamati alla leva si lamentavano, ma poi ricordavano quel periodo con un certo orgoglio». Un sentimento interpretato da Lucio Dalla che cantava: «Quand' ero soldato/ beato me/ mangiavo e bevevo/ meglio di un re». Una volta il nostro Paese era apprezzato per la cucina, il made in Italy e la buona musica. «Oggi - dice il generale Fabio Mini, che ha comandato la Kfor in Kosovo - l' identità nazionale all' estero è basata sull' impegno militare che siamo disposti a mettere in campo per contribuire alla sicurezza». Finora ce la siamo cavata niente male. Adesso però arriva la svolta epocale. A fine anno sparisce la leva e avremo Forze armate di soli professionisti. Un bene, per il sottosegretario alla Difesa Salvatore Cicu, «perché scompare la figura del soldato mammone, legato alla leva, ed emerge quella fiera e orgogliosa del professionista». Ma per colmare i vuoti, serviranno subito 25 mila nuovi volontari. Una vera scommessa. «O il reclutamento decolla - prevede Marco Minniti, diessino, ex sottosegretario alla Difesa - oppure si sfascia tutto». LA RICERCA DI INCENTIVI - Da anni politici e militari si scervellano alla ricerca di incentivi capaci di attirare i giovani nelle Forze armate. L' unica soluzione per il governo è obbligare tutti gli aspiranti carabinieri, poliziotti, vigili del fuoco, guardie di finanza a indossare per almeno un anno la divisa militare. Ma le resistenze sono tante. E la legge, dopo l' approvazione della Camera, annaspa al Senato. «Rischiamo di arrivare tardi - teme Sandro Ferracuti, capo di stato maggiore dell' Aeronautica -. Se la legge non passa subito mancherà il tempo necessario a fare i concorsi e gli arruolamenti entro la fine dell' anno. Forse dovremo rassegnarci a un periodo con dei buchi nell' organico».Ammesso che l' affluenza dei giovani sia buona, bisognerà affrontare altri due grossi problemi. Il primo riguarda il dopo, cioè la fine del servizio militare. Perché il guerriero non solo è un mestiere che richiede una vocazione naturale, ma come tutti mestieri fisici, tipo il calciatore, l' atleta, si esaurisce nel volgere di pochi anni. «Finché ce n' hai stai lì, nel mezzo», canta Ligabue. E poi? «Nel periodo di servizio - propone il sottosegretario alla Difesa Cicu - dobbiamo dare ai giovani una specializzazione tecnica. Così li aiutiamo poi a trovare un impiego nella società civile». Al diessino Minniti non basta, «bisogna garantire a chi esce dalle Forze armate dopo 5 anni un premio, una cifra che dia tranquillità in attesa di un lavoro». L' altro grattacapo è la qualità della vita. A un soldato di mestiere non si può offrire lo stesso alloggio di un soldato di leva. Secondo il sottosegretario Cicu, il faro a cui guardare è la caserma della Brigata Sassari a Macomer, «dove militari e civili insieme seguono corsi universitari, vanno in piscina, si incontrano al cyber café». LE DIFFICOLTA' - Le complicazioni diventano enormi se il soldato vuole sposarsi. «La paga di circa mille euro - dice il generale Mini - non basta a mantenere una famiglia. Il rischio è che costruiamo dei poveri. Consapevoli di questo, a Venezia hanno già avviato un piano di case popolari per i lagunari». Il disagio l' hanno già vissuto i militari americani. All' inizio degli anni Ottanta, negli Stati Uniti un soldato guadagnava 580 dollari al mese. Appena metteva su famiglia diventava povero. Al punto che aveva diritto ai buoni pasto. Il nostro è in definitiva un Esercito del Sud. Per molti anni il 73 per cento degli allievi dell' Accademia proveniva da 4 regioni, Lazio, Campania, Sicilia e Puglia. Le stesse che ora forniscono il grosso dei soldati di professione. Se l' afflusso calerà, «bisognerà rivolgersi agli extracomunitari», ritiene Minniti. Che però non pensa a brigate albanesi o marocchine, ma a «Forze armate come veicolo di integrazione sociale». NUOVA ORGANIZZAZIONE - Le esigenze internazionali richiedono una nuova organizzazione, basata su due livelli, uno alto di ufficiali inseriti all' estero in tutti i posti chiave dove si prendono le decisioni, e uno basso costituito da reparti operativi, piccoli ma eccellenti. Se questo è lo schema ideale, noi stiamo messi male. C' è tutta una fascia intermedia di sottufficiali che non rientrano nei piani di un esercito moderno. «Per esempio in Aeronautica - spiega il generale Ferracuti - abbiamo 19 mila marescialli più del necessario e 14 mila sergenti in meno». Sfoltire con prepensionamenti costerebbe un' enormità. Bisogna tenerseli fino alla conclusione naturale della carriera, si calcola che gli ultimi andranno in pensione nel 2021. Mancano i fondi non solo per i prepensionamenti. Anche per l' acquisto di nuove tecnologie e per la sostituzione dei mezzi. Il 66 per cento dei materiali ha raggiunto un grado di usura preoccupante. Si logorano anche gli uomini, sempre gli stessi paracadutati da un' area di crisi all' altra. Proprio nel momento in cui appare indispensabile, lo strumento militare corre il rischio di collassare. Marco Nese
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