Forze armate, la rivoluzione incompleta



Corriere della Sera
mercoledì, 31 marzo, 2004

FORZE ARMATE

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Forze armate, la rivoluzione incompleta

Dalla leva ai professionisti, ma la legge è ferma. Ferracuti: «Se non viene
varata subito rischiamo buchi nei reparti»

Efficienti, stimati dagli alleati: il nuovo volto dei nostri militari.
Rimane il problema di garantire un impiego dopo la fine della ferma

Nese Marco

ROMA - All' inizio furono sorrisi beffardi. Era l' estate del 1982. I
giornalisti inglesi videro sbarcare i bersaglieri a Beirut e fecero gli
spiritosi: «Sono arrivati gli italiani con pacchi di spaghetti e penne di
gallina sul cappello». Comandava la spedizione il generale Franco Angioni,
oggi deputato ds. «Ci presero in giro - ricorda Angioni -, ma i nostri
ragazzi non si scomposero. Erano tranquilli, sicuri. Un po' nervosi erano i
vertici militari di allora. Pesava ancora sul nostro Esercito l' ombra
della sconfitta della Seconda guerra mondiale. C' era perciò la tendenza a
starsene buoni, acquattati come un cucciolo. Invece noi ufficiali più
giovani ci sentivamo pronti e il Libano fu la grande occasione per
dimostrarlo».     Gli italiani erano ragazzini di leva (a quel tempo non
avevamo professionisti). Catapultati nell' inferno del Libano, male armati,
al paragone coi marines americani e i parà francesi pieni di baldanza,
facevano quasi tenerezza. Ma si rivelarono i migliori. E il vento cambiò.
Sui muri dei campi profughi comparvero scritte col gesso Only Italy, solo
gli italiani erano benvenuti. Il Financial Times scrisse che erano «il
volto di un' Italia efficiente e seria». Cominciò lì una lunga scia di
ammirazione. Al punto che a Timor Est, nel ' 99, dove l' Onu inviò militari
di 28 nazioni, solo il passaggio delle jeep con la nostra bandiera
scatenava entusiasmi. L' italian way, i metodi soft degli italiani crearono
anche contrasti che nel ' 93, in Somalia, sfociarono in uno scontro aperto
con gli americani.          L' APPREZZAMENTO - Negli anni il prestigio è
cresciuto. E oggi il fatto nuovo, sostiene un ammiraglio, «è che per la
prima volta se l' Italia vuole contare sul piano internazionale, deve
affidarsi ai militari». Restare fuori da una missione di pace equivale a
essere emarginati. Le Forze armate sono diventate uno strumento di politica
estera. «Finalmente contiamo qualcosa - sorride l' ammiraglio Guido
Venturoni, ex capo del comitato militare della Nato -. Per anni ci hanno
fatto gravare addosso un' ombra di sospetto. Abbiamo pagato la sconfitta in
guerra, che però non fu solo un fatto militare, ma una tragedia nazionale.
Per i comunisti eravamo il nemico, e il mondo cattolico ci snobbava.
Avevamo però la simpatia della gente comune. I giovani chiamati alla leva
si lamentavano, ma poi ricordavano quel periodo con un certo orgoglio». Un
sentimento interpretato da Lucio Dalla che cantava: «Quand' ero soldato/
beato me/ mangiavo e bevevo/ meglio di un re». Una volta il nostro Paese
era apprezzato per la cucina, il made in Italy e la buona musica. «Oggi -
dice il generale Fabio Mini, che ha comandato la Kfor in Kosovo - l'
identità nazionale all' estero è basata sull' impegno militare che siamo
disposti a mettere in campo per contribuire alla sicurezza». Finora ce la
siamo cavata niente male. Adesso però arriva la svolta epocale. A fine anno
sparisce la leva e avremo Forze armate di soli professionisti. Un bene, per
il sottosegretario alla Difesa Salvatore Cicu, «perché scompare la figura
del soldato mammone, legato alla leva, ed emerge quella fiera e orgogliosa
del professionista». Ma per colmare i vuoti, serviranno subito 25 mila
nuovi volontari. Una vera scommessa. «O il reclutamento decolla - prevede
Marco Minniti, diessino, ex sottosegretario alla Difesa - oppure si sfascia
tutto».          LA RICERCA DI INCENTIVI - Da anni politici e militari si
scervellano alla ricerca di incentivi capaci di attirare i giovani nelle
Forze armate. L' unica soluzione per il governo è obbligare tutti gli
aspiranti carabinieri, poliziotti, vigili del fuoco, guardie di finanza a
indossare per almeno un anno la divisa militare. Ma le resistenze sono
tante. E la legge, dopo l' approvazione della Camera, annaspa al Senato.
«Rischiamo di arrivare tardi - teme Sandro Ferracuti, capo di stato
maggiore dell' Aeronautica -. Se la legge non passa subito mancherà il
tempo necessario a fare i concorsi e gli arruolamenti entro la fine dell'
anno. Forse dovremo rassegnarci a un periodo con dei buchi nell'
organico».Ammesso che l' affluenza dei giovani sia buona, bisognerà
affrontare altri due grossi problemi. Il primo riguarda il dopo, cioè la
fine del servizio militare. Perché il guerriero non solo è un mestiere che
richiede una vocazione naturale, ma come tutti mestieri fisici, tipo il
calciatore, l' atleta, si esaurisce nel volgere di pochi anni. «Finché ce
n' hai stai lì, nel mezzo», canta Ligabue. E poi? «Nel periodo di servizio
- propone il sottosegretario alla Difesa Cicu - dobbiamo dare ai giovani
una specializzazione tecnica. Così li aiutiamo poi a trovare un impiego
nella società civile». Al diessino Minniti non basta, «bisogna garantire a
chi esce dalle Forze armate dopo 5 anni un premio, una cifra che dia
tranquillità in attesa di un lavoro». L' altro grattacapo è la qualità
della vita. A un soldato di mestiere non si può offrire lo stesso alloggio
di un soldato di leva. Secondo il sottosegretario Cicu, il faro a cui
guardare è la caserma della Brigata Sassari a Macomer, «dove militari e
civili insieme seguono corsi universitari, vanno in piscina, si incontrano
al cyber café».          LE DIFFICOLTA' - Le complicazioni diventano enormi
se il soldato vuole sposarsi. «La paga di circa mille euro - dice il
generale Mini - non basta a mantenere una famiglia. Il rischio è che
costruiamo dei poveri. Consapevoli di questo, a Venezia hanno già avviato
un piano di case popolari per i lagunari». Il disagio l' hanno già vissuto
i militari americani. All' inizio degli anni Ottanta, negli Stati Uniti un
soldato guadagnava 580 dollari al mese. Appena metteva su famiglia
diventava povero. Al punto che aveva diritto ai buoni pasto.     Il nostro
è in definitiva un Esercito del Sud. Per molti anni il 73 per cento degli
allievi dell' Accademia proveniva da 4 regioni, Lazio, Campania, Sicilia e
Puglia. Le stesse che ora forniscono il grosso dei soldati di professione.
Se l' afflusso calerà, «bisognerà rivolgersi agli extracomunitari», ritiene
Minniti. Che però non pensa a brigate albanesi o marocchine, ma a «Forze
armate come veicolo di integrazione sociale».          NUOVA ORGANIZZAZIONE
- Le esigenze internazionali richiedono una nuova organizzazione, basata su
due livelli, uno alto di ufficiali inseriti all' estero in tutti i posti
chiave dove si prendono le decisioni, e uno basso costituito da reparti
operativi, piccoli ma eccellenti. Se questo è lo schema ideale, noi stiamo
messi male. C' è tutta una fascia intermedia di sottufficiali che non
rientrano nei piani di un esercito moderno. «Per esempio in Aeronautica -
spiega il generale Ferracuti - abbiamo 19 mila marescialli più del
necessario e 14 mila sergenti in meno». Sfoltire con prepensionamenti
costerebbe un' enormità. Bisogna tenerseli fino alla conclusione naturale
della carriera, si calcola che gli ultimi andranno in pensione nel 2021.
Mancano i fondi non solo per i prepensionamenti. Anche per l' acquisto di
nuove tecnologie e per la sostituzione dei mezzi. Il 66 per cento dei
materiali ha raggiunto un grado di usura preoccupante. Si logorano anche
gli uomini, sempre gli stessi paracadutati da un' area di crisi all' altra.
Proprio nel momento in cui appare indispensabile, lo strumento militare
corre il rischio di collassare.    Marco Nese