L'economia mondiale delle armi (Gruppo Pax Christi di Verona)



IL COMMERCIO DELLE ARMI
Gruppo Veronese di Pax Christi
consumocritico at iol.it


L'economia mondiale delle armi 

Nell'ultimo decennio per cui esistono dati consolidati, dal 1988 al 1997,
la spesa mondiale per gli armamenti è diminuita di oltre un terzo in
termini reali. Le stime parlano di 740 miliardi di dollari nel 1997. Questo
trend al ribasso è stato chiamato da alcuni il dividendo della pace.
Costoro dimenticano però che nel decennio precedente il 1988 la spesa per
armamenti era cresciuta enormemente, nella misura del 60% in termini reali.
Ciò ridimensiona notevolmente la diminuzione registrata negli ultimi dieci
anni. Inoltre, tutti i dati indicano che nell'ultimo biennio, il 1996 e il
1997, la spesa mondiale per export di armamenti, per ricerca e sviluppo di
armi si è stabilizzata. 
L'Italia nel trend mondiale della spesa militare è tra i pochi paesi
occidentali che non hanno diminuito la spesa militare. Pur essendo partita
da un livello più basso della Gran Bretagna e della Francia, che dedicano
una parte molto ampia del loro bilancio al mantenimento e allo sviluppo di
arsenali nucleari, l'Italia ha un bilancio della difesa che per il 1999
ammontava, secondo il Ministero della difesa, a 30 mila miliardi di lire,
mentre in base alla definizione NATO, che include una serie di altre spese
standardizzate, arriviamo a 38 mila miliardi. Bisogna, inoltre, considerare
che i governi italiani, in sede di definizione annuale del bilancio,
sottraggono una quota della spesa militare al bilancio del Ministero della
difesa. Per esempio, nel bilancio 1999, 1.000 miliardi destinati
all'acquisto dei nuovi aerei caccia Eurfighter, sono stati imputati al
bilancio del Ministero per l'industria. Si tratta del programma di spesa
per armamenti più importante e considerevole per il futuro prossimo visto
che l'obiettivo delle forze armate italiane è di comprare 130 Eurfighter
nei prossimi anni, per un ammontare complessivo totale di 20 mila miliardi
di lire. Si può dire quindi che in Italia i dividendi della pace non sono
mai arrivati. 
L'Italia, secondo l'annuario sociale 1999 del Gruppo Abele, si colloca
all'ottavo posto tra le prime 30 nazioni nel mondo per la vendita delle
principali armi convenzionali dopo USA, Russia, Regno Unito, Francia,
Germania, Cina e Olanda.  
Per quanto riguarda la Russia le esportazioni di armi si sono ridotte di
circa un settimo di quelle che erano in epoca sovietica quando ammontavano
a circa 22 miliardi di dollari. 
Sulle motivazioni economiche circa la produzione, l'esportazione e il
commercio delle armi basti ricordare che nel 1998 i fondi pensione
statunitensi erano, dal punto di vista del rendimento, assai delusi della
scarsa performance finanziaria della Boeing e della Lockeed, i primi due
gruppi industriali militari USA. La prima domanda da porsi allora, in un
economia di mercato globalizzata quale è la nostra, è quella del perché si
progettano, si sviluppano e si producono sistemi d'arma, con enormi spese
di ricerca e progetti, se lo scopo, prima o poi, non è quello di venderli
per essere utilizzati. E' impensabile che un sistema d'arma sia ideato e
progettato soltanto per quello che le riviste specializzate chiamano campo
di battaglia virtuale. Le guerre sono l'unico banco di prova attendibile
per le innovazione dell'industria militare.
Ma non solo questo. Esistono anche degli strateghi per i quali è necessario
trovare un impiego. Dal momento che non si può continuare a fabbricare armi
al solo scopo di riempire gli arsenali e necessario individuare una
giustificazione ideologica alla loro produzione. Di fatto il Dipartimento
di stato americano e i vari ministeri della difesa dei paesi occidentali
non sono altro che delle "porte girevoli" che l'industria militare deve
formalmente attraversare. Vi sono poi gli istituti di ricerca che assumono
intellettuali che hanno il compito di elaborare strategie. Valga per tutti
il nome di Brzezinski, che fu prima consigliere di Kissinger e poi
consigliere per la sicurezza di Carter e ancora oggi è persona
influentissima all'interno dell'amministrazione Clinton.

Commercio delle armi e droga 

Il legame tra produzione, commercio di armi e droghe è sempre esistito.
Qualcuno ha osservato che i grandi conflitti dell'epoca moderna hanno avuto
un ruolo decisivo nello sviluppo delle tossicomanie: morfinomania o
"malattia del soldato" al termine della guerra di secessione americana,
cocainomania dopo la prima guerra mondiale, abuso di anfetamine in Giappone
dal 1945 ed eroinomania dei reduci americani del Vietnam. 
Si tratta di un legame non solo di tipo psico-fisico ma anche di tipo
economico: per il valore attribuito in passato ad alcune piante o ai loro
derivati per la rarità o per l'uso riservato esclusivamente ad alcune caste
e, oggi, perché l'uso di tali droghe è proibito. Nell'ottocento le guerre
dell'oppio rappresentarono il primo grande confronto economico e
geopolitico in cui la droga fosse stata la posta in gioco.
Nella seconda meta del Novecento, anche se l'uso di droghe continua a
essere un fenomeno molto diffuso tra i soldati, emerge sempre più spesso,
in particolare nei conflitti locali, il rapporto essenzialmente economico
tra guerre e droghe dovuto al fatto che queste ultime contribuiscono in
modo più o meno determinate a finanziamento di certi conflitti.
Infatti, mentre nella la geostrategia politica classica degli stati
l'obiettivo è quello della conquista di un territorio (uno stretto, un
passaggio, una zona geografica o etnica), per la cosiddetta "geostrategia
delle droghe" lo spazio, sia esso geografico, economico o politico, deve
essere frammentato, conteso, instabile e mai definito. Uno degli obiettivi
costanti di questa geostrategia dei signori della droga è l'instabilità
politica determinata dal mantenimento dei conflitti nel Caucaso, nell'Asia
centrale, nei Balcani, nell'Africa occidentale e nell'America
centro-meridionale.
La caduta delle frontiere interne dell'Unione Europea e la nascita, dopo il
crollo del muro di Berlino, di un "Far Est" economico e finanziario hanno
aperto un campo d'azione molto vasto alle organizzazioni legate al mondo
della droga e, allo stesso tempo, ne hanno favorito le alleanze. Alcune di
queste organizzazioni mafiose hanno una struttura molto forte, come per
esempio, quelle italiane, colombiane, cinesi e russe. Nel contempo, sia a
monte, nei luoghi di produzione, che a valle, a livello di trasporto e
distribuzione, gli sconvolgimenti provocati dal crollo dell'Unione
Sovietica si sono aggiunti ai conflitti che da molto tempo affliggevano e
affliggono l'Asia. Lungo la rotta dell'oppio, che utilizza le antiche vie
della seta, guerriglie, conflitti etnici e religiosi, guerre di confine
trovano nelle droghe fonti di finanziamento autonomo. I protagonisti di
questi conflitti, inoltre, utilizzano le loro diaspore in Europa per creare
delle "teste di ponte" che danno vita a strutture proprie per il beneficio
della "causa" o che talvolta agiscono in modo autonomo.
Una seconda caratteristica della "geostrategia delle droghe" è quella di
utilizzare il baratto armi-droga. Il baratto di armi con droga si
sostituisce spesso al pagamento in contanti.
La polizia italiana, ad esempio, ha provato che la camorra, dalla metà
degli anni novanta, paga le armi acquistate nella ex Jugoslavia con
l'eroina o la cocaina e che, successivamente, scambia con i trafficanti
sudamericani queste armi con droga.
La terza e più singolare caratteristica è la vendita al cliente sia delle
armi che della droga. L'escalation dei profitti nel campo della vendita
delle droghe fa sì che il venditore di armi abbia la garanzia che il suo
cliente lo pagherà con i proventi della vendita di hashish, di cocaina o di
eroina che egli gli ha fornito. Il fornitore di droga ha tutto l'interesse,
sia per ragioni di sicurezza che per mantenere i clienti, a non dividere le
reti di vendita di armi e di droga. Questo spiega come, nei primi anni
novanta, siano stati sequestrati sulla rotta dei Balcani missili Stinger ed
eroina sugli stessi convogli provenienti dall'Afghanistan.
Talvolta succede che questi commerci s'inseriscano in guerre civili e
fratricide. Ad esempio, durante la guerra civile in Libano membri delle
milizie cristiane, perseguiti per il traffico di droga, spesso su larga
scala, hanno portato a loro difesa, presso i tribunali francesi, il fatto
che avevano organizzato il traffico di eroina e di hashish per finanziare
la difesa armata della loro comunità.
Lo stesso vale per le reti di albanesi della provincia serba del Kosovo che
vendono l'eroina in Svizzera e negli altri paesi europei per acquistare
armi. Sequestri effettuati in Turchia, come in Germania e nei Paesi bassi,
dov'è presente un'importante comunità curda, confermano che la droga
contribuisce al finanziamento di attività (militari e non) del Partito dei
lavoratori del Kurdistan (PKK).
In tutti questi esempi, ma altri se ne potrebbero fare, è lampante che la
droga finanzia, produce, stimola essa stessa dei conflitti ma crea allo
stesso tempo contatti, connivenze e legami tra diverse organizzazioni
armate dalle caratteristiche differenti o addirittura opposte. 
Un accenno particolare meritano le comunità albanesi in Svizzera, USA,
Germania e Italia che si sono lanciate nel traffico e nella distribuzione
di eroina per far fronte al bisogno urgente di liquidità dei loro
connazionali e all'obbligo di dover passare quasi sempre attraverso
circuiti bancari non ufficiali (l'obiettivo è quello della costruzione
della cosiddetta "Grande Albania"). Queste reti del narcotraffico sono
riuscite spesso a soppiantare i gruppi mafiosi del posto, anche se
insediati da molto tempo in questi paesi e rispetto ai quali sono
avvantaggiati per la possibilità di poter pagare direttamente armi con la
droga. Vale la pena di ricordare che gli USA e l'Albania hanno firmato una
serie di accordi di difesa che riguardano la cessione di materiale militare
e la presenza di esperti militari.

Legame tra indebitamento e spese per armamenti

Sulla questione del debito estero dei paesi cosiddetti in via di sviluppo
non può essere ignorato il legame che esiste fra indebitamento e spese per
gli armamenti. Si tratta di una delle implicazioni più odiose e
inaccettabili del debito estero di questi paesi.. Si pensi che quasi un
terzo dei 2200 miliardi di dollari di debito accumulati dai paesi in via di
sviluppo verso i grandi paesi creditori nel 1997 è riconducibile alle
operazioni di prestito per l'acquisto di materiale bellico, con il
coinvolgimento delle banche, delle imprese e delle agenzie di assicurazione
del credito all'esportazione dei paesi ricchi. Peraltro, si tratta di
debiti alimentati dalle spese per armamenti che trovano la compiacenza di
governi corrotti e regimi dittatoriali che non rispettano i diritti umani.
L'esempio della Turchia è emblematico. Questo stato, candidato a entrare
nell'Unione Europea, spende la maggior parte del proprio bilancio nella
guerra contro i kurdi. Si arma rapidamente e, soprattutto negli ultimi
anni, ha investito notevoli somme di denaro nell'acquisto di materiale
bellico. Nei quattordici anni di lotta contro il PKK (1984-1996) la Turchia
ha speso 86 miliardi di dollari, una cifra che si avvicina moltissimo
all'ammontare del debito estero turco pari a 92 miliardi di dollari.. Si
tratta di un circolo vizioso che tutti alimentano, a partire dai paesi
membri della Nato che esportano armi verso la Turchia, alleata intoccabile,
in barba ai codici di condotta sul commercio delle armi adottati a livello
europeo, o, come nel caso dell'Italia, nonostante la legge 185/90 che vieta
l'esportazione in paesi coinvolti in conflitti o che vìolino i diritti
umani. Come cittadini italiani è evidente che abbiamo il dovere di
richiamare il governo a una doverosa applicazione di questa legge .
Circa i crediti per i finanziamenti all'esportazione di armamenti vale la
pena di evidenziare il ruolo della S.A.C.E., Sezione speciale per
l'Assicurazione del Credito all'Esportazione. Nata nel 1977 con la
cosiddetta "Legge Ossola" e per oltre vent'anni sezione specializzata
dell'Istituto Nazionale delle Assicurazioni, la S.A.C.E. è diventata a
pieno titolo ente pubblico nel 1999, in seguito alla riforma dell'intero
comparto del commercio con l'estero varata nel 1998. Scopo istituzionale
della S.A.C.E. è di garantire le imprese italiane che decidono di esportare
o di eseguire lavori all'estero da tutti i rischi legati alle operazioni
estere, sia di natura commerciale che di natura politica. La S.A.C.E.
funziona come una vera e propria assicurazione: l'imprenditore che decide
di intervenire su un mercato estero sottoscrive una polizza che, dietro il
pagamento di un premio, garantisce l'indennizzo nel caso in cui si
verifichi un "sinistro", cioè nel caso in cui il paese destinatario della
fornitura non provveda al pagamento corrispondente.
L'attività della S.A.C.E. si è tradotta in veri e propri disastri per i
paesi terzi dove le nostre imprese operano, sia dal punto di vista dei
progetti realizzati, sia per le questioni legate all'aumento del debito
estero. Non bisogna dimenticare, infatti, che le operazioni garantite dalla
S.A.C.E. godono anche di una garanzia sovrana del paese destinatario
dell'esportazione. Se, cioè, l'acquirente non paga è lo stato a divenire
debitore nei confronti dell'Italia. A livello mondiale, le Agenzie di
credito all'esportazione dei vari paesi occidentali sono responsabili del
24% del debito estero totale dei paesi poveri, percentuale che arriva fino
al 50% in paesi come l'Algeria e il Lesotho. Tra il 1990 e il 1995 i
crediti commerciali sono aumentati dell'11% annuo. Questi incrementi
testimoniano la tendenza in atto dal 1989 che vede il declino costante
degli aiuti per la cooperazione allo sviluppo e l'accresciuta aggressività
nella promozione delle esportazioni (comprese quelle per armamenti) da
parte dei paesi più sviluppati. L'Italia non fa eccezione. Nel luglio 1999
il Ministero del Commercio con l'Estero con un "colpo di mano" proditorio è
riuscito a far spostare fondi destinati alla cooperazione alla promozione
del commercio con l'estero: tramite un decreto di riordino delle carriere
diplomatiche e prefettizie ha sottratto 210 miliardi al già magro bilancio
della cooperazione per destinarli alla Simest spa, una società controllata
dal Ministero in questione per la creazione di imprese miste all'estero.
Attualmente è in atto un tentativo di spostare altri fondi dalla
cooperazione al bilancio per la difesa.
Quello degli armamenti, quindi, è considerato un settore meritevole di
appoggio e protezione da parte del nostro governo che, dopo aver condotto
una guerra per tenere alto il prestigio internazionale dell'Italia, ora
mira a rendere competitivo e quindi più appetibile il nostro sistema
militare-industriale anche attraverso la S.A.C.E. Poiché non è vietato per
legge (come accade invece in altri paesi), infatti, la S.A.C.E. può
assicurare l'esportazione di armamenti e di servizi connessi. Nel 1998 era
stato stabilito un plafond di 600 miliardi per il 1999, corrispondente poco
più di un terzo delle esportazioni nel settore. Per il 2000 non è stato
ancora fissato alcun limite di impegno di spesa e, vista l'assenza di norme
che regolano la materia, tutto lascia presagire che le esportazioni di
armamenti saranno assicurabili per importi illimitati, all'interno della
S.A.C.E., quest'anno di oltre 20.000 miliardi.

Il mercato delle armi leggere

Con la fine della guerra fredda, il conflitto virtuale o reale per
l'accaparramento di risorse sempre più scarse di un mondo fuori controllo
ha preso il posto della competizione Est-Ovest. L'Africa - serbatoio di
ricchezze con spazi ancora da valorizzare e luogo deputato all'instabilità
- è tornato a essere un continente in prima linea e la strategia politico
militare dei paesi più ricchi si è via via indirizzata verso i nuovi
obiettivi con una diversa modalità: meno armi pesanti e più armi
convenzionali e soprattutto armi leggere. Dato il livello basso o
bassissimo d'intensità delle guerre che si combattono in Africa, le armi
leggere e piccole sono un importante (se non il principale) strumento di
guerra.
La spesa militare dell'Africa costituisce una porzione molto esigua della
spesa militare mondiale: appena lo 0,32% nel 1959 e il 2,09% nel 1985. Da
circa 10 anni le spese militari nell'Africa subsahariana sono in costante
declino. Esse sono passate da 10 miliardi di dollari nel 1985 a 8,1
miliardi di dollari nel 1994. L'incidenza della spesa militare sul Pil -
lievemente superiore alla media dei paesi in via di sviluppo - è anch'essa
in calo: dal 3,5% al 2,8%. Tale riduzione, peraltro, non è omogenea in
tutto il continente: in alcune zone critiche come il Corno d'Africa o i
Grandi Laghi la spesa potrebbe addirittura aver ripreso a lievitare.
Le importazioni di armi in Africa sono cresciute fino al 1980 a un ritmo
più sostenuto rispetto alle altre regioni o subregioni del mondo ma,
comunque, a confronto dei flussi che si sono indirizzati verso regioni come
il Medio Oriente o l'Asia sudorientale il totale è di poco conto. Dopo il
1978 si assiste anche per le importazioni di armi alla riduzione già
segnalata per la spesa militare in generale. Nel 1997 l'Africa a sud del
Sahara entrava nel commercio delle armi con una quota pari allo 0,5% del
valore mondiale.
Per quanto positivi questi trends non hanno impedito il perdurare della
conflittualità rendendo in particolare difficilissimo o quasi impossibile
estinguere i conflitti africani anche dopo gli accordi di pace. E ciò a
causa delle enormi quantità di armi leggere ammassate e che continuano
malgrado tutto ad affluire.
L'Africa a sud del Sahara è la regione del mondo in cui la proliferazione
di armi piccole (o personali) e leggere è la più vasta e in continua e
vertiginosa crescita: pistole, fucili e fucili d'assalto, mitra, granate,
lanciarazzi, piccoli mortai e cannoni, mine ed esplosivi distribuiti a
milioni e decine di milioni in tutte le regioni del sud del Sahara. L'uso
criminale delle piccole armi non è limitato alle bande organizzate e si
estende alle gangs urbane, gruppi di ex combattenti e delinquenti che
agiscono individualmente.
Il controllo del traffico di armi piccole e leggere è problematico per la
natura del materiale in questione. Sono armi piccole, a basso costo e poco
pesanti, trasportabili facilmente e meno visibili delle armi convenzionali.
Molte armi sono acquistate legalmente ma armi per miliardi di dollari
passano attraverso il mercato nero, con operazioni di triangolazione per
sfuggire agli embarghi e ai divieti oppure sono trafugate sfuggendo alla
vigilanza non sempre irreprensibile delle dogane e delle forze dell'ordine.
La chiave di volta è il legame (link) che intercorre tra mercato legale e
traffici illeciti: per le armi, come per tutte le attività economiche o
istituzionali che si svolgono in Africa, il confine che separa e distingue
l'ufficiale dal sommerso è labile, sfuggente e precario. Anche se in questo
traffico i privati hanno una parte importante, sono pur sempre gli stati a
disseminare il territorio di armi piccole e leggere o a facilitarne la
diffusione. Anche se le motivazioni che stanno dietro al traffico di armi
hanno risvolti politici, ideologici o psicologici, percepiti come interessi
e obiettivi nazionali, alla fine il criterio determinante è sempre il denaro.
Le Nazioni Unite sono impegnate in una serie di iniziative sul problema
delle armi leggere. Le raccomandazioni degli esperti nominati dall'ONU si
riassumono nei modi per ridurre l'accumulazione di piccole armi, nelle
misure per prevenire altre e ulteriori accumulazioni e nelle iniziative per
distruggere, dopo la conclusione dei conflitti, le armi che non siano
indispensabili per la sicurezza interna e la difesa nazionale. L'emergenza
ha raggiunto un tal punto di allarme che anche la Banca mondiale si sta
orientando a prevedere il problema delle piccole armi in tutti i programmi
di disarmo, smobilitazione e reintegrazione dei combattenti nella società
civile a conclusione dei conflitti.
In Europa si fanno più insistenti le pressioni per il controllo del
traffico di armi. Già nel 1991/92 il Consiglio europeo aveva cercato di
subordinare le esportazioni di materiale bellico a considerazioni come il
rispetto dei diritti umani, situazioni conflittuali e pratiche di
terrorismo. Ma l'Unione Europea non è andata al di là dell'elaborazione di
un Codice di condotta sulle esportazioni di armi e dell'adozione di
un'azione comune per contrastare l'accumulazione e la diffusione di armi
leggere e di piccolo calibro. Né l'uno, né l'altro provvedimento sono
vincolanti per gli stati.
A confronto degli altri paesi europei, come già detto, l'Italia dispone di
una normativa più rigorosa: la legge 185 del 1990 sull'esportazione delle
armi, basata sul superamento del criterio del profitto. L'esperienza di
questi anni mostra tuttavia una notevole elasticità nell'interpretazione
delle norme e le lobbies del complesso militare-industriale, fra elusione
ed evasione, sono all'opera per allargare le crepe della legge. La quota
dell'Italia nel commercio delle armi è in declino dal 1984, per fattori di
ordine strutturale e non a causa di questa legge che, al massimo, ha
dirottato verso i paesi Nato i flussi di armamenti che un tempo si
dirigevano verso i paesi del terzo mondo. Nella seconda metà degli anni
novanta è cominciata una ripresa con la conseguente erosione dei divieti
contemplati dalla legge e che ha permesso, appunto, all'Italia di
collocarsi tra i primi 8 paesi nella graduatoria per l'esportazione di
armamenti.
E' evidente che questo commercio delle armi, per l'Africa e per tutti gli
altri paesi in via di sviluppo, fa parte di un più generale processo
degenerativo della politica e della società. Correggere significativamente
questo squilibrio è fuori dalla portata dei soli governi africani. Per
conseguire obiettivi di riduzione della spesa militare da parte di questi
paesi bisognerà metter mano a un insieme di azioni a livello nazionale,
regionale e internazionale: controllo delle armi e disarmo, prevenzione dei
conflitti, sviluppo economico e istituzionalizzazione della democrazia ma
anche leggi più severe nei paesi fornitori, autorestrizioni ed embarghi.
Una strada percorribile è il Registro internazionale dei trasferimenti
delle armi convenzionali come proposto nel nostro comunicato stampa.

Il ruolo degli Stati Uniti 

Benchè uno studio del ministero della difesa statunitense, reso noto nel
novembre scorso, metta in guardia contro il "rischio di fallimento" insito
nei progetti di "guerre stellari" l'amministrazione di Washington è
determinata a sviluppare un programma di missili anti-missile. Né la ferma
opposizione della Russia, né le resistenze europee sembrano poter fermare i
propositi americani, destinati a rilanciare la corsa agli armamenti che
potrebbe rimettere in causa tutti i trattati di non proliferazione firmati
negli ultimi decenni.
Merita, inoltre, di essere menzionato il nuovo orizzonte dei conflitti
prossimi futuri. L'orrore suscitato dalle immagini delle morti inflitte
dagli eserciti della Nato nell'ambito delle recenti guerre "per la difesa
dei diritti umani", per il mantenimento della pace e della sicurezza, ha
spinto gli strateghi occidentali a promuovere lo sviluppo di armi di nuovo
tipo, destinate a paralizzare l'avversario, più che a distruggerlo. Queste
cosiddette armi "non letali" non fanno altro che innalzare il livello della
violenza provvedendo alla messa a punto di nuove tecniche repressive. Il
principale beneficiario di questa nuova strategia è il Pentagono americano,
a cui il presidente Clinton ha concesso recentemente un aumento del
bilancio di 110 miliardi di dollari per i prossimi sei anni. Secondo alcuni
esperti il bilancio americano per la difesa - che supera ormai i 260
miliardi di dollari annui - è comprensibile solo alla luce delle sue
implicazioni politiche ed economiche e non in relazione a una reale
minaccia contro la sicurezza statunitense. Tale somma, come sottolineano
gli studiosi, è infatti: "pari al doppio del budget militare di tutti i
potenziali nemici degli Stati Uniti messi insieme, considerando potenze
importanti come la Russia e la Cina e stati "criminali" come Iraq, Corea
del Nord e Libia". Sempre secondo questi studiosi a dettare la politica
estera e militare statunitense sono i fabbricanti di armi che, sulla base
della nuova dottrina strategica, stanno mettendo a punto un tipo di
armamenti che cancellerà la linea di demarcazione tra le competenze dei
militari e quelle delle forze dell'ordine.
In seguito alla fine della guerra fredda i conflitti non sono più scontri
tra stati ma riguardano per lo più questioni di sicurezza nazionale o
d'intervento esterno. Gli strateghi americani, pertanto, hanno un unico
grande obiettivo: la "guerra pulita" e cioè lo sviluppo di una nuova
generazione d'armi, destinate a mutilare, paralizzare o immobilizzare
l'avversario. Si tratta di una dottrina della guerra incentrata
sull'utilizzo di armi cosiddette "non letali" che il Dipartimento della
difesa americano definisce come: "sistemi d'arma esplicitamente concepiti
per e principalmente destinati a rendere incapaci il personale e il
materiale avversario, riducendo al minimo le perdite umane, le lesioni
permanenti e i danni involontari ai luoghi e all'ambiente". 
Tra gli strumenti adatti a simili obiettivi si possono elencare: munizioni
con effetto contundente (che non penetrano nel corpo ma stordiscono la
vittima), sistemi di diffusione di agenti chimici, calmanti, bombe a
percussore, scosse elettriche, sistemi "anti trazione" ultra scivolosi,
sistemi acustici, reti, schiume, barriere, fasci d'energia, fonti di luce
intense e pluridirezionali, superpolimeri che creano una caligine vischiosa
e immobilizzante e mine inabilitanti.
Si tratta evidentemente di arsenali che possono anche essere utilizzati per
reprimere manifestazioni per problemi sociali e politici (si pensi al WTO a
Seatle).
Amnesty International ha raccolto diverse testimonianze di casi in cui
queste armi sono utilizzate come strumenti repressivi nelle piazze. Si
tratta di armi i cui effetti possono paragonarsi a quelli di una tortura
(armi al pepe, armi che possono interferire con i regolatori biologici
della temperatura del corpo umano, sulle connessioni nervose, ecc).
Amnesty sta conducendo un'analisi su queste armi per capire se è il caso di
richiederne l'interdizione. La questione fondamentale è la seguente: in che
misura queste armi vìolano i trattati internazionali e le legislazioni di
difesa dei diritti umani?

Verona, 21 febbraio 2000


Le informazioni contenute in questo documento sono state tratte da:

· SURPLUS- Rivista bimestrale di economia - Gruppo Editoriale L'Espresso n°
2 1999 L'economia mondiale delle armi
· GEOPOLITICA E GEOSTRATEGIA DELLE DROGHE - Asterios Editore 1999
· ANNUARIO SOCIALE 1999 - Edizioni Gruppo Abele
· IL MANIFESTO del 04.07.1999 Chi paga le granate sui curdi? L'ammontare
del debito estero turco di Luciano Bertozzi
· IL MANIFESTO dell'1.12.1999 Al supermercato delle armi leggere di
Giampaolo Calchi Novati
· NIGRIZIA settembre e dicembre 1999
· IL MANIFESTO del 13.02.2000 Sace, e l'Italia è insicura. Errori, segreti,
favori, del sistema nazionale per finanziare le esportazioni
· LE MONDE DIPLOMATIQUE dicembre 1999 Gli USA stracciano il diritto
internazionale - L'ipocrisia delle armi non letali




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APPELLO DI PAX CHRISTI:
IL COMMERCIO DELLE ARMI NON DEVE LASCIARCI INDIFFERENTI!


L'Italia nella graduatoria delle prime 30 nazioni nel mondo per la vendita
delle principali armi convenzionali (anni 1993-1997) risulta all'ottavo posto.
Nel 1998 sono state autorizzate forniture di armi da parte dell'industria
bellica italiana per 1.838 miliardi di lire, vale a dire il 6% in più
dell'anno precedente. La crescita è ancora più consistente se si
considerano i quasi 300 miliardi per prestazioni di servizi autorizzati dal
ministero della difesa, il triplo del 1997.
Le esportazioni italiane di armi si vanno quindi collocando oltre i 2.000
miliardi di lire l'anno, senza contare l'export "strategico" a doppio uso
civile-militare (2.227 miliardi nel 1998) e le armi leggere, ormai quasi
del tutto assenti dalle autorizzazioni rilasciate sulla base della legge
185 del 1990 perché vendute come "armi civili".
L'articolo 1 della legge 185/90 pone il divieto alle industrie italiane di
esportare armi a paesi in guerra o che vìolino i diritti umani. Nella
relazione presentata dal presidente del consiglio D'Alema in parlamento il
31 marzo 1999 figurano molti di questi paesi tra i destinatari dell'export
bellico italiano. Al primo posto vi è, per esempio, la Siria che è
considerata dai paesi occidentali uno stato che appoggia il terrorismo
internazionale; troviamo poi il Pakistan e l'India, la Turchia, il Marocco,
l'Egitto, il Venezuela, l'Ecuador, il Guatemala, l'Indonesia e l'Eritrea.
Si tratta di stati che sono in guerra o in cui sono sistematicamente
violati i diritti umani; basti ricordare, ad esempio, l'Indonesia e la
tragedia del popolo di Timor Est, il conflitto permanente che oppone India
e Pakistan per il controllo del Kasmir, il Guatemala, dove per 36 anni vi è
stata una guerra civile che ha provocato lo sterminio di oltre 200 mila
indigeni, come ha denunciato recentemente anche qui a Verona padre Clemente
Peneleu Navichoc e la Cecenia dove una guerra spietata in corso è
considerata da molti un affare interno russo nonostante la denuncia, anche
del nostro movimento, di accordi economico militari con la Russia da parte
del governo italiano.
E' importante quindi che l'opinione pubblica veronese sia più attenta alla
problematica del commercio delle armi. Per questo motivo Pax Christi invita
tutti i cittadini a:
· associarsi alla proposta delle riviste Nigrizia, Missione Oggi e Mosaico
di pace  fatta ai vescovi, ai parroci e ai responsabili di istituti
religiosi di chiedere conto alle proprie banche circa il loro eventuale
coinvolgimento, attraverso il finanziamento o il semplice appoggio, in
operazioni d'esportazione d'armi, sollecitandole a una politica del credito
più attenta all'economia sociale e alle fasce più povere della popolazione;
· sostenere l'azione di Amnesty International  che ha sollecitato i paesi
dell'Unione Europea a rivedere il Codice di condotta europeo per il
commercio di armi. Tale codice di condotta, adottato nel giugno 1998, con
l'obiettivo di "stabilire alti standard comuni" riguardo l'esportazione
regionale di armi, è soggetto a revisione annuale e ciò costituisce
un'opportunità fondamentale per verificarne l'impatto e per frenare il
flusso di armi vero i paesi responsabili di violazioni dei diritti umani e
regioni interessate da tensioni;
· sollecitare l'istituzione di un Registro internazionale dei trasferimenti
delle armi convenzionali con l'inclusione delle informazioni sulle armi
leggere e sugli stok di armamenti esistenti come esempio di un'azione che,
ai vari livelli, dovrebbe indurre a cooperare per introdurre regole e
obblighi, possibilmente imparziali, per riuscire quantomeno a contenere un
fenomeno distruttivo e antitetico allo sviluppo qual è il commercio delle
armi;
· appoggiare la campagna Chiama l'Africa, campagna di informazione a cui
aderiscono 500 organizzazioni e associazioni italiane, per la mobilitazione
per chiedere a chi amministra e a chi governa, a sindaci, presidenti
regionali e provinciali, deputati, senatori e ministri, un maggiore impegno
sul fronte della solidarietà e cooperazione internazionale; del controllo e
condanna chi commercia e si arricchisce sulle pelle dei più deboli.


Verona, 21 febbraio 2000

Gruppo Pax Christi  di Verona