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31/10 Vicenza: contestazione a Dell'Utri



GIROTONDO OLIMPICO DEL 31.10.2002



Si fa seguito alle precedenti comunicazioni.



Come è noto giorno 31 ottobre p.v. alle ore 20,45
sarà presente a Vicenza l'on. Marcello Dell'Utri,
ben noto alle cronache, basti ricordare che è
imputato di concorso in associazione mafiosa.



Il sindaco di Vicenza Hullweck per l'occasione ha
messo a disposizione per l'illustre personaggio
niente di meno che il Teatro Olimpico, come se
arrivasse un Capo di Stato o di Governo.



L'ospite intratterrà i simpatizzanti sull'Apologia
di Socrate, di Platone. Egli, infatti, si sente
solidale con l'Ateniese, però - ha dichiarato- non
ha nessuna intenzione di fare una fine come le sua.



Chissà cosa ha capito di Socrate? Ma tant'è.



Manifesteremo l'indignazione delle persone oneste,
di qualunque area politica o di qualunque credo
religioso, il 31 ottobre prossimo avanti al Teatro
Olimpico.

L'appuntamento è per le ore 20,30. Ci stringeremo
per un simpatico girotondo attorno al Teatro
Olimpico, simbolo di cultura, non di mistificazione.



Per chi volesse farsi un'idea del personaggio, si
allega un articolo di Gianni Barbacetto.



Si pregano singoli e associazioni di dare la massima
diffusione al presente e di invitare il maggior
numero di persone al girotondo.



Vicenza, 23.10.2002



Francesco Di Bartolo

(tel.0444.543185)




______________________________
Milano, la seconda generazione

La strana storia di due imprenditori nella capitale lombarda.
Molto amici di Vittorio Mangano, lo "stalliere".
Molto vicini a Marcello Dell'Utri.
di Gianni Barbacetto (tratto dal sito www.societacivile.it )

Era un uomo metodico, puntuale fino all'ossessione. Maurizio
Pierro, consulente finanziario, usciva dalla sua bella villa
appena fuori Varese ogni mattina alle 7, imboccava
l'autostrada dei Laghi, arrivava a Milano, si sedeva alla
scrivania nel suo ufficio in zona Fiera, due interi piani in
una palazzina elegante, cinquanta dipendenti ai suoi ordini.
Ogni sera, alle 18.45 in punto, usciva, si buttava nel
traffico dei viali che portano all'autostrada, alle 19 con il
cellulare dall'auto avvisava la moglie ("Sto arrivando"),
attorno alle 20 rientrava a casa.

Vittorio Mangano, in barella e sorvegliato dalla polizia,
depone al processo
contro Marcello Dell'Utri a Palermo
La sera di martedì 11 febbraio 1997, a casa lo aspettavano la
moglie, i due figli di 18 e 20 anni, i suoceri e una torta con
le candeline. Era il suo cinquantaseiesimo compleanno.
Puntuale come sempre, Maurizio Pierro lasciò il suo studio
alle 18.45. Ma non chiamò la moglie, alle 19, per dirle "sto
arrivando". Lo trovarono nella notte in via Gattamelata, a
meno di un chilometro dal suo ufficio. Era seduto nella sua
auto, al volante, rivolto verso destra, come se stesse
parlando con qualcuno seduto al suo fianco. Aveva in corpo
quattro proiettili calibro 7.65, sparati da molto vicino: un
colpo in mezzo agli occhi, un colpo al cuore, un colpo in
mezzo al petto; il quarto colpo, dopo avergli sfiorato lo
stomaco, si era conficcato nella portiera della sua monovolume
giapponese. Il portafoglio era al suo posto, nella tasca della
giacca, il computer portatile sul sedile posteriore.

Con chi aveva appuntamento, Maurizio Pierro, quella sera in
via Gattamelata? Chi fu il suo ultimo interlocutore, seduto
accanto a lui in auto?
Pierro era nato a Tripoli ed era diventato un uomo di
successo. Ragioniere, guadagnava più di un commercialista,
giro d'affari miliardario, presenza in una miriade di società.
Tra i suoi clienti vi era anche la Chanel. Splendida villa in
Sardegna, grande passione per il golf, nutrito parco auto, in
cui spiccava una bella Porsche. Per la sua società principale,
la Selma, aveva scelto un nome furbo: esiste infatti una Selma
Leasing legata nientemeno che a Mediobanca. Pierro invece si
era legato alla finanza d'assalto, tanto da restare
invischiato in una storia da anni Ottanta, il crac di una
società che raccoglieva risparmi e piccoli capitali
promettendo alti rendimenti, aveva convinto 3 mila persone ed
era finita con una bancarotta da 120 miliardi.

Dopo la notte di via Gattamelata, per un paio d'anni tutti si
sono scordati di Maurizio Pierro e di quel colpo sparato in
mezzo agli occhi, nella civilissima Milano. Il caso,
irrisolto, dell'uomo che non arrivò puntuale alla sua ultima
festa di compleanno è tornato d'attualità nella primavera
1999. I fascicoli di quell'omicidio senza colpevole sono stati
ripescati dagli archivi e sono arrivati sulle scrivanie dei
magistrati antimafia di Milano: Pierro infatti era consulente
finanziario anche di una galassia di società che facevano capo
a due imprenditori, Natale Sartori e Antonino Currò, arrestati
martedì 9 marzo 1999 a Milano e imputati di rapporti mafiosi
insieme a un più noto imprenditore e politico che li conosceva
bene: Marcello Dell'Utri.
I magistrati di Palermo Antonio Ingroia, Domenico Gozzo, Mauro
Terranova e Umberto De Giglio nel marzo 1999 chiedono per
Dell'Utri addirittura l'arresto. Accusa: aver tentato di
convincere un paio di "pentiti", grazie a generose offerte di
denaro, a testimoniare a suo favore. I due, Cosimo Cirfeta e
Giuseppe Chiofalo, avrebbero dovut
o raccontare di essere stati avvicinati da altri collaboratori
di giustizia, che li volevano spingere ad aggiungersi agli
accusatori di Dell'Utri, inventandosi falsi addebiti a suo
carico. Se l'operazione fosse andata in porto, l'effetto
sarebbe stato dirompente: sarebbe crollata la credibilità di
tutti i testimoni anti-Dell'Utri, sarebbe passata l'ipotesi di
un complotto, di un accordo tra "pentiti" ai danni del
collaboratore di Berlusconi.

I magistrati di Palermo e gli agenti della Dia scoprono il
piano. Gli agenti della Direzione investigativa antimafia
filmano addirittura alcuni incontri tra Dell'Utri e Chiofalo,
uno dei due falsi pentiti. Questi poi racconta: "Dell'Utri mi
disse: "Confermi le accuse di Cirfeta e io farò ricco lei e la
sua famiglia, avrà per sempre la riconoscenza mia, del dottor
Berlusconi e quella di tutte le persone che ci vogliono
bene"". Il Parlamento, malgrado avesse ricevuto un'imponente
documentazione dei fatti, respingerà la richiesta d'arresto.
Ma c'è una parte tutta milanese di questa indagine, passata in
secondo piano a causa del turbine di polemiche seguite alla
richiesta d'arresto per Dell'Utri. È l'indagine che ha messo a
fuoco le attività di Sartori e Currò. Quasi tutta l'attenzione
è stata catturata, per forza di cose, dal braccio destro di
Silvio Berlusconi, ieri presidente di Publitalia, oggi
deputato di Forza Italia, accusato dalla procura palermitana
di voler comprare una pattuglia di "pentiti" al fine di
affondare l'inchiesta sulle sue relazioni pericolose con Cosa
nostra. Ma le indagini del sostituto procuratore di Milano
Maurizio Romanelli e della Dia hanno scoperto ben altro: gli
affari, legali e illegali, di un gruppo di persone che secondo
gli investigatori sono i nuovi colletti bianchi di Cosa nostra
a Milano, i manager in giacca e cravatta della mafia
siciliana. In rapporto diretto con figli e nipoti di due
vecchi boss, Gerlando Alberti e Vittorio Mangano. Insomma:
Cosa nostra, seconda generazione.

Un quarto di secolo è passato da quando i due comparvero sulla
scena: il primo, Gerlando Alberti, con fragore: il più grande
raffinatore di eroina in Sicilia in tempi in cui si pensava
che gli stupefacenti fossero un affare dei marsigliesi; il
secondo, Mangano, in punta di piedi e inosservato: devoto
"stalliere" nella villa di un costruttore emergente che era
l'essenza della milanesità.
Nella Milano delle grandi trasformazioni finanziarie, dei
grandi giochi per costruire i nuovi colossi bancari,
assicurativi, delle telecomunicazioni, nella città dei soldi -
danée e piccioli insieme - si sono rese visibili altre
trasformazioni, in un settore più piccolo ma non meno vivace.
Quello della finanza "grigia".
"Il consorzio Cisa ha come missione il coordinamento armonico
degli associati, fondendoli in un Gruppo omogeneo ed
organizzato, fornitore di Risorse e di servizi a terzi, teso
costantemente al raggiungimento di sempre nuovi obiettivi di
Progresso e di Qualità, al fine di offrire ai propri Clienti
elevati livelli di servizio, ottenendo soprattutto la loro
primaria soddisfazione, per un reciproco e durevole vantaggio
economico. Il Cisa è una Impresa di servizi al servizio delle
Imprese". Firmato: "Il Presidente, Natale Sartori".

All'americana, la missione, l'obiettivo del Cisa, con tutte le
sue maiuscole, è incorniciata in un quadretto nella sede
dell'azienda, in via Ripamonti a Milano. Il Cisa è la
capogruppo di una rete di società e cooperative che offrono
servizi alle imprese: soprattutto pulizie, facchinaggio,
trasporti. Terziario flessibile, molto flessibile: come numero
di dipendenti (da 800 a 2 mila), come numero di aziende (nove
sono le cooperative consorziate al Cisa, ma le imprese che
ruotano attorno alla galassia di Sartori e del suo socio Currò
sono molte di più), come rapporto di lavoro (chi è impiegato
nelle cooperative del gruppo formalmente non è dipendente, ma
socio).

Certo è che il giro d'affari, per Sartori e Currò, è
miliardario. Forniscono servizi a imprese di primo piano come
la Esselunga supermercati e la Bartolini trasporti. Un bel
risultato, per due messinesi arrivati a Milano nei primi anni
Ottanta e che hanno cominciato da zero (una vecchia relazione
di polizia li segnala come occupanti abusivi di appartamenti
dell'Istituto Case Popolari di Milano). In una decina d'anni
sono diventati imprenditori di successo, hanno uffici ben
arredati, begli appartamenti, auto di grossa cilindrata.
Sartori possiede una splendida villa in Sardegna, a San
Teodoro.
"Ci hanno preso di mira. Solo perché siamo siciliani, siamo
mafiosi", spiega, appena un po' imbarazzata, Provvidenza
(detta Enza) Giargiana, una signora quarantenne, bionda,
moglie di Sartori. "Volevano rompere le scatole a Dell'Utri,
così sono venuti a romperle anche a noi, perché lo conosciamo,
perché lavoriamo per la società di Dell'Utri, Publitalia. Sì,
forniamo il servizio di pulizia negli uffici di Publitalia,
come lo forniamo a tante altre aziende. Tutte private,
s'intende, non lavoriamo con gli enti pubblici", si affretta a
puntualizzare mentre attorno trillano i telefoni e gli
impiegati si danno da fare. "Lo hanno arrestato, mio marito,
ma noi dobbiamo andare avanti a lavorare: abbiamo nove
cooperative consorziate, 800 dipendenti, e alla fine del mese
dobbiamo dare uno stipendio a tutti".

Ma che rapporti, privati e d'affari, ha Sartori con la
famiglia Mangano? Alla parola "Mangano" Enza Giargiana smette
di parlare, cerca con gli occhi gli occhi di un collaboratore
dai modi più bruschi. L'incontro è finito.
Mangano? Vittorio Mangano è ormai noto alle cronache come "lo
stalliere" o "il fattore" di Berlusconi, perché nel 1974 abitò
nella villa di Arcore del Cavaliere. In realtà è un boss di
Cosa nostra inviato negli anni Settanta a Milano con
l'incarico di tenere i contatti con gli imprenditori del Nord;
poi fu reggente della famiglia mafiosa di Porta Nuova, una
delle più importanti di Palermo; infine fu arrestato e recluso
nel carcere di Pianosa. È del febbraio 1980 la famosa
telefonata tra Mangano e Dell'Utri in cui i due parlano di
"cavalli" da "consegnare in albergo": Paolo Borsellino, nella
sua ultima intervista prima di essere ucciso, si disse
convinto che il termine "cavalli" era riferito al traffico di
stupefacenti e così fu accettato dal tribunale di Palermo, in
una sentenza diventata per Mangano ormai definitiva.

Il rapporto tra i Mangano e il gruppo di Sartori è
strettissimo. La moglie di Mangano, quando viene a Milano,
dove vivono anche le sue figlie, è ospitata non da queste ma
dalla moglie di Sartori, nella bella casa di Caleppio di
Settala alla periferia della città. Delle tre figlie di
Mangano, due, Cinzia (30 anni) e Loredana detta Lory (33
anni), si sono trasferite a Milano e vivono in una palazzina a
tre piani nel verde, a Peschiera Borromeo, ai confini est di
Milano. Sono state immediatamente assunte alla Ecosea, una
delle società di Sartori (La terza figlia di Mangano, nata nel
1975, è stata chiamata Marina, ha raccontato il padre, proprio
come la figlia di Berlusconi e in onore di un datore di lavoro
tanto squisito).

Daniele Formisano (25 anni), nipote di Vittorio Mangano, è
anch'e gli arrivato a Milano nel 1997 ed è subito stato
assunto dal gruppo. "Bi sognerebbe parlargli per motivi di
lavoro", dice Sartori a un suo collaboratore, "ma con
rispetto, perché è il cugino di Loredana": i rapporti di
parentela, se si tratta di Mangano, valgono più dell'età,
dell'esperienza, della professionalità. Il "rispetto", in
questo caso, si trasforma in uno stipendio di 3 milioni al
mese. Poi Formisano, da vero "figlio d'arte", arrotonda con
altri affarucci. Nel febbraio 1998, per esempio, dimostra di
avere stoffa e buoni contatti mettendo in piedi un traffico di
300 chili di marjuana di ottima qualità, trattando alla pari
con fornitori albanesi. È in contatto con Maniola Prifti,
un'albanese che l'11 luglio 1998 è stata arrestata
nell'operazione "Africa".
Che cosa fanno i nostri colletti bianchi di Cosa Nostra?
Innanzitutto affari, con le cooperative di Sartori e con i
mille traffici (molti con i Paesi est-europei) di Currò. Ma
non solo: si danno da fare per tirar fuori di galera il loro
boss di riferimento, Vittorio Mangano; danno supporto a un
mafioso latitante, Enrico Di Grusa, che ha sposato la figlia
di Mangano, Lory; organizzano un'incredibile rete di rapporti
con alti ufficiali dei Carabinieri e della Guardia di finanza.

Per migliorare la situazione carceraria di Mangano
s'incontrano con Dell'Utri, che vedono più volte a Milano,
alla presenza di Di Grusa e di un altro "figlio d'arte",
Vincenzo La Piana, marito di Maria Alberti (la nipote del boss
Gerlando Alberti) e dunque nipote acquisito del mitico U
Paccaré, che cascò dalle nuvole quando gli chiesero della
mafia e rispose: "E che è? Una marca di formaggi?".
La Piana, che alla fine degli anni Settanta era uno degli
addetti alla raffineria d'eroina di Trabia (una delle più
grandi d'Europa, capace di produrre miliardi al giorno), nel
1997 comincia a collaborare con i magistrati e nei mesi scorsi
ha raccontato a Romanelli anche gli incontri a cui è stato
presente tra Dell'Utri e i colletti bianchi milanesi.

Il primo incontro avvenne nel 1995 al ristorante "Al Timeout
4" di via Benaco. Dell'Utri non mangiò, si fermò soltanto una
ventina di minuti, il tempo di un aperitivo, e s'informò sulle
mosse già compiute per "far volare la quaglia", cioè per
ottenere il trasferimento di Mangano da Pianosa. Concluse:
"Datemi qualche giorno di tempo, ci teniamo in contatto".
Promessa mantenuta: due giorni dopo, nuovo incontro al
ristorante "Da Luigi" in via Marcona, buon pesce e frutti di
mare. Lì Dell'Utri assicurò che "si stava interessando non
solo per ottenere il trasferimento di Vittorio Mangano, ma
addirittura per ottenere la sua scarcerazione". Ma attenti,
disse ai suoi commensali: "Il Cavaliere sta nelle acque
sporche e brutte, ci dobbiamo tenere abbottonati".
Poco dopo, l'8 novembre 1995, Mangano uscì da Pianosa e fu
ricoverato nel centro clinico di Pisa. Missione compiuta.

Ma Sartori incontra Dell'Utri anche altre volte. L'ultima, il
12 ottobre 1998, nel suo ufficio di via Senato 14. "Sono stato
là e gli ho spiegato", racconta poi Sartori parlando al
telefono (intercettato dalla Dia) con il socio Currò e il
dipendente (da trattare con "rispetto") Daniele Formisano. "La
parola che mi ha detto lui è: ma mi sembra impossibile, però
verifico e poi le faccio sapere. (...) Son tutte chiacchiere,
la gente chiacchiera".
Che cosa ha "spiegato" Sartori a Dell'Utri? Di che cosa aveva
paura? Che "verifica" si è impegnato a fare l'ex presidente di
Publitalia oggi deputato di Forza Italia? Sartori aveva
mangiato la foglia: aveva ormai forti sospetti che qualcuno
del giro (Vincenzo La Piana: era lui, il "Giu da") stava
spifferando tutto alla polizia.
L'incontro precedente, quello più cinematografico, era
avvenuto in un capannone di Rozzano, dove Di Grusa si era
recato con La Piana e aveva trovato Sartori e Currò già in
compagnia di Dell'Utri. Argomento discusso, secondo La Piana,
il finanziamento di un'importazione di cocaina dalla Colombia:
100 chili, 25 milioni al chilo, pagamento metà alla consegna,
metà a 30 giorni. Erano dunque necessari 1 miliardo e 2 o 300
milioni. La Piana ammette però di essere salito nell'ufficio
dove si è svolta la trattativa con Dell'Utri soltanto a
discorsi conclusi, per il caffè e i convenevoli finali; della

richiesta di finanziamento a Dell'Utri e della sua
disponibilità a concederlo ha saputo soltanto in seguito, dal
racconto di Enrico Di Grusa.
"Io alla fine", racconta La Piana, "feci la battuta: "Dottore
mi scusi, capisco che lei ci tiene più di me, ma ce lo
portiamo a casa o no?", riferito a Vittorio Mangano. E
Dell'Utri rispose: "Ci stiamo pensando"". Poi dell'affare

della cocaina non si fece più niente, perché alcune difficoltà
e alcuni arresti consigliarono ai protagonisti di sospendere
l'operazione. Ma i colletti bianchi continuarono il loro
lavoro "pulito".
Vincenzo La Piana, da buon nipote, periodicamente va a
visitare in carcere il vecchio Gerlando Alberti. Lo tiene
informato su ciò che succede fuori, gli chiede indicazioni e

segue i suoi saggi consigli. Ebbene: Sartori e Currò, confessa
il boss al nipote, "sono amici buoni e sono tenuti stretti".
Cioè, interpretano i magistrati, "pochi sono a conoscenza dei
loro nomi o li conoscono personalmente".
All'origine della loro carriera i due sono probabilmente
coinvolti in traffici di droga, tanto che già nel 1993 l'uomo
d'onore Rosario Spatola, diventato collaboratore di giustizia,
aveva definito Sartori "un trafficante d'eroina"; e nel 1994
un altro siciliano fattosi "pentito", Luigi Sparacio, aveva
dichiarato che Currò era "pregiudicato messinese trafficante
di stupefacenti su Milano". Ma con il tempo le attività legali
avevano preso il sopravvento. Il business innanzi tutto.
Competition is competition. L'e lenco delle società
controllate da Sartori e Currò (in alcuni casi con la presenza
anche di Enrico Di Grusa) è lungo e intricato. Oltre alla
capogruppo Cisa, vi è una lunga catena di cooperative e
società di cui è difficile seguire le continue metamorfosi:
Mistral, Euroappalti, Ucfp, Coas, Polysystem, Polyservice,
Meridiana, Smile, Euras, Finproget, Cgs, Full Time, Italsipi,
Ecosea, Italgest, Bolero, Delta...
E poiché gli affari sono affari, i colletti bianchi non
disdegnano di avere rapporti anche con i "colleghi" di altre
holding: così Sartori e Currò sono in contatto con Pasquale
Latella, uomo della 'Ndrangheta di Reggio Calabria, che è
socio nella Italsipi, poi trasformata in Ecosea.

Natale Sartori, cinquantenne, è il più autorevole del gruppo.
Capelli chiari ondulati, occhi chiari, sempre elegante, porta
occhiali da vista Cartier e al polso un vistoso Rolex
Submarine d'oro. La sua famiglia è tanto "vicina" a Mangano da
andarlo spesso a trovare a Palermo, prima del suo ultimo
arresto. Secondo una testimonianza, i Sartori e i Mangano
hanno festeggiato insieme il Capodanno 1995 nella villa
siciliana di Mangano, a Carini.
Antonino Currò è più "zanza". Continua fino all'ultimo a
dedicarsi a mille traffici. Tra questi, la produzione di jeans
nella ex Iugoslavia ("Ci costano più o meno 5 mila lire
l'uno", dice al telefono), poi importati e venduti in Italia
con marchio Levi's ("Ogni jeans viene venduto a 50 mila").
Tarocca, cioè realizza con marchi contraffatti, anche
giubbotti Levi's ("Fatti bene, adesso va forte il nero"). Nel
suo capannone di Rozzano, ora posto sotto sequestro, sono
depositati perfino scatoloni contenenti lampadari. Currò, del
resto, si è costruito una rete di relazioni d'affari in
Serbia, Ungheria, Polonia, Bulgaria, dove periodicamente si
reca.

Gli affari dei nuovi siciliani a Milano sono molteplici e
numerosi sono i loro luoghi d'incontro. In viale Lucania 19,
vicino a un'ottima salumeria-gastronomia, aveva sede una ditta
in cui erano in esposizione batterie da cucina; era
controllata da Enrico Di Grusa ed era, racconta La Piana,
"luogo di ritrovo di alcuni palermitani a Milano". Di Grusa,
Sartori e Currò a pranzo vanno spesso o al "Timeout" di via
Benaco (dove hanno incontrato anche Dell'Utri), o in un bar
vicino, in via Bessarione. Oggi l'insegna gialla dice: "Antica
Cafeteria", sulla lavagnetta all'ingresso è scritto: "Primo,
secondo e contorno, 11 mila lire" e sulla parete di fondo è
incollata una struggente gigantografia di New York al
tramonto. La gestione, dice la signora gentile al banco, è
cambiata (chissà?) dal Natale 1999. Ma il bar di via
Bessarione, a un passo da piazzale Corvetto e dall'imbocco
dell'Autosole, resta un luogo storico per Cosa nostra a
Milano: aperto tanti anni fa con i soldi di Gerlando Alberti e
gestito per lungo tempo da Vincenzo Citarda e Lia Stassi,
vecchie mani di Cosa nostra a Milano.

L'aspetto forse più incredibile di tutta questa storia è la
squadretta di alti ufficiali che i siciliani avevano al loro
servizio. Un colonnello dei Carabinieri, Andrea Benedetti
Michelangeli, era a disposizione del gruppo praticamente a
tempo pieno e utilizzava le strutture periferiche dell'Arma
per procurare contatti e clienti al gruppo, mobilitava i
marescialli sul territorio per portare a casa nuovi appalti.
In cambio, riceveva uno stipendio mensile. Quando si sente
dire dall'uomo incaricato da Sartori delle "pubbliche
relazioni" che "bisognerebbe un attimino rivedere quel
discor so nostro", Benedetti Michelangeli si inalbera: vuole
mantenere il suo fisso mensile, anche impegnandosi a non
chiedere aumenti e a non pretendere provvigioni da grossi
affari. "Quando ha bisogno di un passaporto, di un rinnovo di
porto d'armi, di un cazzo cinese, eh, dove vanno?", grida il
colonnello al telefono. "Digli che l'aumento Istat non mi
interessa, eh, però cazzo, un minimo così, anche per tutte le
altre esigenze che si possono venire a creare, tipo
informazioni sulle persone. (...) Tutto si può fare se c'è un
minimo di comprensione, io parlo di fisso, eh. (...) Anche se
dovessi ottenere, non so, 2 miliardi per una cosa,
gestiteveli, non mi interessa. (...) Se poi lui ha bisogno di
qualche altra cosa, a livello di informative eccetera, sono a
dispositivo, io".

Benedetti Michelangeli la spunta e mantiene il suo secondo
stipendio. Ma legati al gruppo restano anche il colonnello
delle Fiamme Gialle Michele Adinolfi, il colonnello Guglielmo
Petrantoni, sua sorella Angela Petrantoni, in servizio al
palazzo di Giustizia di Milano.
I colletti bianchi cadono nel panico una sola volta,
nell'ottobre 1998, quando una verifica fiscale della Guardia
di finanza, casuale, rischia di scoprire i segreti del gruppo.
Nei giorni della verifica i colloqui telefonici dei siciliani
si fanno drammatici. Sartori: "Vediamo se riusciamo a
fermarli. (...) Ecco, se possiamo chiuderla lì, sennò diventa
un casino, diventa. (...) Io c'ho un'ultima maniglia, eh, eh,
non posso spararla ora, devo spararla ora, devo spararla alla
fine, devo spararla per forza quando arrivano a noi, alla
Cisa".

Allora scende in campo il colonnello Adinolfi, che manda
Sartori da un ex collega, Michele Leggiero, che ha lasciato la
Guardia di finanza e ha aperto uno studio di commercialista a
Monza. Miracolosamente i conti tornano in ordine. Tutto in una
notte. Un collaboratore il 30 novembre telefona a Sartori:
"Minchia che nottata... a preparare tutti i documenti, Natale,
tutte le lettere, tutte le contestazioni, tutti i
giustificativi delle ore fatte da Full Time...". La Guardia di
finanza contesta al gruppo, è vero, false fatture per un
miliardo e mezzo, ma i siciliani sono contenti, festeggiano lo
scampato pericolo: c'era ben di peggio da scoprire...
Il lato più oscuro di tutta questa faccenda è la pista
"stragista" che qualcuno ha indicato. La bomba mafiosa
scoppiata la notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 al Padiglione
di arte contemporanea di via Palestro a Milano resta la più
misteriosa tra le bombe del '93, quella di cui meno si sa: chi
sono i basisti, chi ha fornito i "materiali" necessari, chi
sono gli esecutori?
È il Giornale, giovedì 11 marzo, a sparare in un titolone a
pagina 2: "Fra le accuse spuntano le stragi del '93".
L'articolo spiega che gli imprenditori messinesi Currò e
Sartori sarebbero ritenuti "vicini agli ambienti in cui
sarebbero maturati quegli attentati. Currò, in particolare, è
zio di Rosa Currò, al cui cellulare nel 1993 sarebbero
arrivate chiamate provenienti dall'utenza telefonica di
Antonio Scarano, oggi collaboratore di giustizia, condannato a
Firenze proprio per gli attentati".
Pista interessante, ma tutta da verificare. Anzi, gli
investigatori milanesi invitano alla cautela: non è affatto
dimostrato il rapporto tra Rosa Currò e Antonino Currò.
Il secondo elemento della pista "stragista" parte da un night
club milanese, il Top Town. Durante un controllo di polizia,
nel night furono trovati sia Currò, sia Elio Boi, il
proprietario del ristorante milanese "Gigi il cacciatore" dove
furono arrestati i fratelli Graviano, boss di Cosa nostra
ritenuti gli organizzatori delle stragi del '93. Anche questa
è una pista interessante, ma non ci sono le prove che i Boi e
Currò fossero insieme al Top Town, né che Elio fosse non solo
il ristoratore, ma anche il complice dei Graviano.

Restano gli affari, sporchi e puliti, del gruppo dei siciliani
a Milano, Cosa nostra seconda generazione. Girandola di sigle
e di aziende, appuntamenti in capannoni di periferia, cene al
ristorante, incontri al bar di fiducia o in ufficio. Sembra di
essere tornati ai bei tempi di via Larga, negli anni Settanta,
quando in pieno centro di Milano il siciliano Ugo Martello
detto Tanino fu mandato da Cosa nostra ad aprire una
succursale al Nord, nella capitale dei piccioli. L'ufficio di
via Larga divenne un punto di riferimento, fu frequentato da
personaggi come Mimmo Teresi e Tanino Cinà. Ci passò perfino
Stefano Bontate in persona, allora numero uno di Cosa nostra,
quella volta che venne a Milano per parlare d'affari con un
siciliano trapiantato a Milano: Marcello Dell'Utri.

Quella volta, racconta il boss Francesco Di Carlo, Bontate
incontrò Dell'Utri, che gli presentò Berlusconi. Bontate
esortò l'imprenditore "a investire in Sicilia", ma Silvio gli
rispose che "già temeva i siciliani che al Nord non lo
lasciavano tranquillo", aveva paura di essere sequestrato.
Allora Bontate rispose: "Non avrà più nulla da temere, vicino
a lei c'è già Marcello Dell'Utri, e comunque le manderò uno
dei miei in modo da non farle avere più alcun problema con i
siciliani". Poco dopo, a Milano arrivò Vittorio Mangano,
ufficialmente a lisciare la criniera dei cavalli di Arcore.
Vent'anni dopo, sono gli "uomini nuovi" di Mangano, "amici
buoni e tenuti stretti", a essere attivi su piazza. Cosa
nostra, inabissata a Palermo dopo la sconfitta della furia
corleonese, a Milano è alla seconda generazione.