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Quebec City, oltre Seattle, verso Genova... (Fwd)



Da CantieriAperti - Trieste

" Sciacquare la tuta bianca, prego! "

Spunti: 

" Il "popolo di Seattle" e' finito: al suo posto ci sono il "popolo di Okinawa", 
il "popolo di Napoli", il "popolo di Buenos Aires" e soprattutto 
il "popolo di Quebec City" "

" si e' stati in grado di valorizzare il diffuso sentimento anti-centralista e 
anti-imperiale del Quebec (...) Bar e locali aperti a poche decine di metri 
dagli scontri esibivano adesivi e cartelli con scritto "FUCK LE SOMMET" "

" Anche il composito mondo di ONG, gruppi ambientalisti, trade unions e 
intellettuali critici ha rifiutato qualsiasi livello di mediazione e confronto "

" a Quebec City non vi e' stato alcuno spazio per l'oziosa, inutile, snervante 
controversia su violenza e non-violenza (..) e non e' stata in alcun modo la 
recita di un copione scritto dal nemico"

" La frontiera tra USA e Canada si e' trasformata in una lunga cortina di 
ferro presidiata da ogni genere di polizia. Centinaia di attivisti 
statunitensi sono stati respinti con ogni genere di pretesto. A volte e` 
bastato il possesso di un volantino anti-FTAA. Ne ha fatto le spese anche 
la carovana organizzata dal Direct Action Network e da Ya Basta! di New 
York, cinquecento militanti che hanno cercato invano di passare con 
un`azione di disobbedienza civile " [di nuovo come a Ventimiglia, ndr] " Uno 
dei limiti della mobilitazione di Quebec City sta forse nel fatto che il 
problema della frontiera se l'e' posto solo chi doveva passare e non chi 
organizzava in loco. Errore da non ripetere. "

" [d'obbligo a questo punto] Sciacquare la tuta bianca nelle acque del 
St.Laurent. Non possono darsi forme d'azione di piazza che non siano 
traduzione diretta di un allargamento del consenso e della partecipazione, di 
una maturazione dell'agire politico. Nulla di quanto e' successo per le strade 
di Quebec City e' stato fine a se stesso o appartenente soltanto a una 
dimensione "militare". Cio' riguarda da molto vicino la questione della 
"disobbedienza civile all'italiana": non e' una tecnica del "tenere la piazza", 
ma una proposta politica, quella di un metodo in grado di produrre conflitto 
radicale, di comunicarlo, di costruire consenso intorno ad esso. Non uno 
schema fisso (peraltro decodificabile e neutralizzabile dal nemico), ma una 
dinamica che, proprio partendo dal radicamento locale, guadagna nuovi 
terreni. "

yure

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Date sent:      	Mon, 23 Apr 2001 17:11:45 +0200
To:             	(Recipient list suppressed)
From:           	Cantieri Aperti <info@cantieriaperti.org>
Subject:        	Quebec City, oltre Seattle, verso Genova...


Vi proponiamo due contributi da Quebec City: il primo di Beppe Caccia 
e Wu Ming Yi, il secondo dell'inviato del Corriere della Sera.


Quebec: considerazioni verso Genova

-Uno- 
Il "popolo di Seattle" e' finito, al suo posto ci sono il "popolo di 
Okinawa", il "popolo di Napoli", il "popolo di Buenos Aires" e soprattutto 
il "popolo di Quebec City". Le ultime tre giornate canadesi hanno 
dimostrato che il movimento globale non e' affatto in crisi demografica 
(come si temeva dopo Nizza e Davos) se riesce a far leva su specificita' 
locali e territoriali. In concreto: si e' stati in grado di valorizzare il 
diffuso sentimento anti-centralista e anti-imperiale del Quebec, rendendo 
le ragioni della protesta immediatamente comprensibili alla consistente 
minoranza francofona del Canada.
Diecimila dimostranti, dal primo pomeriggio di sabato all'alba di domenica, 
hanno assediato la cittadella proibita e abbattuto in piu' punti il Muro 
della Vergogna. Hanno potuto farlo nuotando come pesci nel mare dei 
quaranta-cinquantamila partecipanti alle due manifestazioni convocate dai 
sindacati e dal Summit dei Popoli delle Americhe. A loro volta, tutti 
costoro hanno nuotato nell'oceano della solidarieta' diffusa, in una citta' 
simpatetica che non si e' chiusa, ha rifiutato il terrorismo psicologico e 
ha reagito in mille modi allo stato d'assedio.
Bar e locali aperti a poche decine di metri dagli scontri esibivano adesivi 
e cartelli con scritto "FUCK LE SOMMET". I cittadini del quartiere St.Jean 
Baptiste distribuivano acqua e bicarbonato contro i lacrimogeni. I taxisti 
davano consigli ai dimostranti sui tragitti piu' sicuri da percorrere.
Avviando dinamiche di riterritorializzazione, la pratica supera lo 
stereotipo mediatico e il rischio concreto dell'"esercito professionale", 
dei "globetrotters della protesta" che calano come barbari su citta' a loro 
estranee.

-Due-
Non c'e' stata alcuna contrapposizione, neppure in termini di 
sovrapposizione temporale, tra l'azione di strada e il lavoro da 
"controconvegno" con la partecipazione dei delegati di associazioni e 
sindacati, di "esperti" alternativi etc. Mentre a Seattle sopravviveva 
l'illusione di un "confronto" democratico con tanto di osservatori alle 
riunioni del WTO, commissioni miste fintamente paritetiche, stesura di 
emendamenti a trattati inemendabili, a Quebec City quest'illusione e' 
evaporata ancor prima dei gas. Anche il composito mondo di ONG, gruppi 
ambientalisti, trade unions e intellettuali critici ha rifiutato qualsiasi 
livello di mediazione e confronto, definendo l'FTAA un "progetto 
neoliberale razzista, sessista, distruttore dell`ambiente".

-Tre-
L'assenza di divisioni "a monte" non sopprime le differenze, ma determina 
un'assenza di divisioni "a valle". Checche' ne pensino "esperti" di 
movimenti anti-globalizzazione che pontificano dalle loro scrivanie romane, 
a Quebec City non vi e' stato alcuno spazio per l'oziosa, inutile, 
snervante controversia su violenza e non-violenza.
Una volta individuato un obiettivo comune (l'attacco al Muro della 
Vergogna), si e' avviata una dialettica aperta tra i diversi modi di 
praticarlo: in questo Quebec City supera Praga con balzi da gigante.
Nessuno si e' dissociato dalle azioni di nessun altro o ha cercato di dare 
lezioni su quale fosse *IL* modo di praticare l'obiettivo. La stessa logica 
"gruppettara" delle identita' predefinite (il "blocco blu" tira le molotov, 
il Black Bloc spacca le vetrine, il "blocco giallo" fa la disobbedienza 
civile e tutti gli altri sfilano il piu' distante possibile) e' stata messa 
da parte perche' ormai inadeguata.
A migliaia si sono staccati a piccoli gruppi dal corteo sindacale, e non 
erano "i soliti estremisti che cercano di deviare il corso di un corteo 
altrimenti pacifico": molti di loro erano gli stessi attivisti sindacali 
che il corteo l'avevano organizzato. Molti altri erano cittadini comuni, 
ragazzi e ragazze delle scuole superiori etc. Ognuno ha fatto la sua parte: 
gruppi d'azione organizzati agganciavano con rampini e corde i pali di 
sostegno del reticolato, altri li coprivano tirando sassi, altri 
rispedivano al mittente i candelotti di gas urticante, altri ancora 
soccorrevano le persone colpite dai gas, una grande moltitudine faceva da 
"cuscinetto" e sosteneva il morale di tutti. Quest'interagire ha permesso 
la distruzione in piu' punti del muro e l'assedio permanente del summit. 
Non e' stata in alcun modo la recita di un copione scritto dal nemico. 
L'esempio del "famigerato" Black Bloc e' forse il piu' indicativo.
Criticato a Seattle (anche dal Direct Action Network) per lo sfondamento 
indiscriminato di vetrine, nonostante la demonizzazione continua ha saputo 
mettere in discussione le proprie pratiche, adottando e adattando elementi 
delle tute bianche europee, come le imbottiture, gli scudi di plastica e i 
caschi protettivi. Il fatto stesso di difendere le posizioni conquistate, 
contrattaccando e superando la vecchia strategia del "mordi e fuggi", li 
sottrae al ruolo di "schegge impazzite" e li rende una delle sinapsi di un 
cervello collettivo.
Non a caso, sull'Esplanade des Ameriques Francaises, il Black Bloc non ha 
ricevuto critiche bensi' applausi.
Non a caso, uno dei cortei di venerdi' era aperto da un cordone misto di 
tute bianche e blocco nero.
Se ne e' accorto persino l'inviato del "Corriere della Sera" Ennio Caretto: 
<<Quebec non e' solo Seattle, e' qualcosa in piu'. Ha un significato 
politico preciso: anche la gente comune si e' mobilitata, il movimento non 
potra' piu' essere liquidato come una scheggia impazzita dei verdi e degli 
anarchici. E' destinato ad ingrandirsi, i leader saranno costretti ad 
ascoltarlo in tutto il mondo.>> (22/04/2001).

-Quattro-
L'effetto di questo intreccio di pratiche e' stato visibile a tutti: il 
muro divelto in piu' punti, tutto l'apparato di sicurezza impegnato nella 
difesa estrema di piu' varchi fino alla fine del summit.
Impossibilitata a gestire sia politicamente sia militarmente un 
rastrellamento con arresti di massa (tipo Seattle il primo giorno) o una 
mattanza generale (alla partenopea), la polizia ripiegava sul conflitto "a 
bassa intensita'". I reparti della polizia canadese si sono sottratti per 
quanto possibile al contatto diretto coi dimostranti, ricorrendo a un 
bombardamento a distanza tipo Belgrado '99, sparando a intervalli regolari 
centinaia di candelotti lacrimogeni, non smettendo fino alla conclusione 
del vertice. Mentre gli assedianti, favoriti dal forte vento del nord, sono 
riusciti a proteggersi con maschere anti-gas e a limitare i danni grazie al 
supporto di tutti, non sono mancati "effetti collaterali" sugli stessi 
assediati: la quantita' di gas era tale da contaminare i cibi del buffet 
serale e far chiudere le cucine dell'Hotel Palais Royal.

-Cinque-
La frontiera tra USA e Canada si e' trasformata in una lunga cortina di 
ferro presidiata da ogni genere di polizia. Centinaia di attivisti 
statunitensi sono stati respinti con ogni genere di pretesto. A volte e` 
bastato il possesso di un volantino anti-FTAA. Ne ha fatto le spese anche 
la carovana organizzata dal Direct Action Network e da Ya Basta! di New 
York, cinquecento militanti che hanno cercato invano di passare con 
un`azione di disobbedienza civile e l`aiuto dei mohawks della riserva di 
Akwesasne, tagliata in due dal confine. Solo pochi militanti di Ya Basta! 
sono riusciti a entrare. A differenza di quello europeo, il movimento 
nordamericano non si era mai dovuto porre il problema delle frontiere e 
della loro chiusura. Mentre scriviamo, ormai da quattro giorni decini di 
militanti sono chiusi in un centro di detenzione amministrativa per 
immigrati clandestini. Gli attivisti della costa occidentale degli USA e 
del Canada, con lucidita', hanno rinunciato all'idea di raggiungere il 
Quebec, e hanno organizzato grandi manifestazioni sul confine tra Vancouver 
e Seattle e a Tijuana. E' chiaro a sempre piu' persone il legame tra 
regolazione dei flussi migratori e restrizione della liberta' di movimento 
e del diritto di manifestare. Uno dei limiti della mobilitazione di Quebec 
City sta forse nel fatto che il problema della frontiera se l'e' posto solo 
chi doveva passare e non chi organizzava in loco. Errore da non ripetere.

-Sei-
Sciacquare la tuta bianca nelle acque del St.Laurent. Non possono darsi 
forme d'azione di piazza che non siano traduzione diretta di un 
allargamento del consenso e della partecipazione, di una maturazione 
dell'agire politico. Nulla di quanto e' successo per le strade di Quebec 
City e' stato fine a se stesso o appartenente soltanto a una dimensione 
"militare". Cio' riguarda da molto vicino la questione della "disobbedienza 
civile all'italiana": non e' una tecnica del "tenere la piazza", ma una 
proposta politica, quella di un metodo in grado di produrre conflitto 
radicale, di comunicarlo, di costruire consenso intorno ad esso. Non uno 
schema fisso (peraltro decodificabile e neutralizzabile dal nemico), ma una 
dinamica che, proprio partendo dal radicamento locale, guadagna nuovi terreni.
L'obiettivo e' scelto e condiviso, praticato in forme differenti, conseguito 
non da questa o da quella "componente" del movimento, ma da una 
moltitudine in un territorio amico. Questa moltitudine ha legittimato ogni 
pratica utile ad assediare il summit, buttare giu' il muro, difendere chi 
agiva in prima persona. Sara' dura per i corvi che gia' gracchiano su 
Genova svolazzare sui cieli del Quebec.

Beppe C & Wu Ming Yi
Upper East Side, Manhattan, New York
h.1.00 am del 23 aprile 2001

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I trentamila di Quebec
Ennio Caretto
Quebec

Una parete d' acqua si abbatte sui dimostranti, li getta a terra, ne 
disperde le file mentre con le corde tentano di rovesciare il maledetto 
muro. La folla urla, si rialza, avanza di nuovo lanciando sassi, candelotti 
lacrimogeni, bastoni, ma la parete liquida, sempre più massiccia, la 
respinge e l' allontana. E' la seconda giornata della Campagna di Quebec, e 
il popolo di Seattle ha invaso la città, scendendo da decine di autobus, 
treni e battelli giunti da ogni parte delle Americhe. "Sono 30 mila", 
dichiara sbigottito Mike Gaudet, il portavoce delle Giubbe rosse. Ma questa 
volta, i 10 mila dell' esercito e della polizia sono pronti. Non hanno 
soltanto creato un percorso obbligato chiudendo alcune strade e disponendo 
cordoni di uomini armati lungo la città, incanalando la protesta dove è più 
facile contenerla. Hanno anche disposto una batteria di idranti e cannoni 
ad acqua a difesa della cittadella dove lavorano i 33 uomini e l' unica 
donna (la panamense Mireja Moscoso) che guidano le Americhe. Lo scontro ai 
piedi del Muro della vergogna si trasforma in un'impasse che dura alcune 
ore, ma a differenza dell'altro ieri non causa più ritardi alla conferenza.

La battaglia esplode altrove, nelle strade e nelle piazze dove i kamikaze 
dei gruppi estremisti, sebbene decimati dagli arresti della notte 
precedente, oltre 100, attaccano i poliziotti e i militari. E' una 
battaglia frammentaria, che copre vari quartieri col fumo delle bombe 
lacrimogene, a colpi di manganello e di bastone, in cui intervengono le 
autobotti con gli idranti. Gli elicotteri delle forze dell'ordine la 
presidiano dall'alto, anticipando i movimenti della massa, diretta dai 
telefoni cellulari dei suoi leader. Le tv trasmettono immagini inquietanti 
di gruppi di dimostranti dispersi con i gas, di ragazzi trascinati a terra 
dalla polizia, di ragazze in lacrime. Chiede Jezebel McDonald, quasi 
accecata dalle bombe, mentre un compagno le porge una maschera 
antigas: "E' possibile che per esprimere la propria opinione occorra 
proteggersi il volto?". Quebec e il Canada sono a disagio, non hanno mai 
assistito a simili scene di violenza. Le forze dell'ordine sono accusate di 
crudeltà e brutalità, l' immagine del Paese, simbolo di democrazia e 
tolleranza, è in pericolo.

Ma c'è una protesta parallela, quella pacifica della maggioranza, a cui 
partecipano bambini e anziani. Sono colonne interminabili di gente, in 
marcia a capo chino contro la globalizzazione e i suoi effetti, con 
cartelli con su scritto "Ama l'umanità", "La terra non è in vendita", 
"Killers del clima", "I poveri prima del profitto", "Il commercio è 
tirannia". Un immenso serpente umano, ora silenzioso ora inneggiante 
all'ambiente, che riempie la città, uno spettacolo maestoso. Sventolano al 
vento le bandiere rosse, i pupazzi dei potenti, i ritratti di rivoluzionari. 
"I 30 mila non sognano la presa della Bastiglia", sottolinea Lori Wallach, 
la direttrice di Global trade watch, "ma una società giusta e misericordiosa". 
Delle due dimostrazioni, è questa che lascerà il segno più profondo. 
Quebec non è solo Seattle, è qualcosa in più. Ha un significato politico 
preciso: anche la gente comune si è mobilitata, il movimento non potrà più 
essere liquidato come una scheggia impazzita dei Verdi e degli anarchici, 
è destinato a ingrandirsi, i leader saranno costretti ad ascoltarlo in tutto il 
mondo.

Al calare delle tenebre, ieri, Quebec si è preparata a una seconda notte di 
torbidi, ma ha anche assaporato con sollievo la chiusura del summit questa 
sera. Venerdì notte è stata un incubo, a tarda ora gli estremisti sono 
tornati ad attaccare, l'esercito e la polizia hanno reagito con rabbia. 
Alcuni abitanti non sono riusciti a rincasare fino all'alba. Quando la 
città si è svegliata i feriti erano una quindicina, gli arrestati oltre 
100. Il bilancio di ieri non è ancor a noto, ma le cifre potrebbero 
raddoppiare. Limitati sembrano invece i danni: quasi tutti i negozi sono 
rimasti chiusi per l' intero fine settimana, le vetrine coperte da assi di 
legno, le porte sprangate.

Oggi, i 30 mila dovrebbero partire, e il Summit delle Americhe proclamerà 
vittoria, perché, a differenza di quanto accadde a Seattle all'Organizzazione 
mondiale del commercio, avrà ultimato i suoi lavori. Ma sarà una vittoria di
Pirro. Tra gli elettori e i governi si sta creando una frattura su dove la 
società moderna debba andare, sul rapporto tra capitale e lavoro, profitto 
e ambiente, ricchi e poveri. Una frattura che emerge a ogni incontro 
internazionale.

Al ritorno a Washington, il presidente Usa Bush, il leader dell' Occidente, 
dovrà riflettere come tutti gli altri su quanto ha visto a Quebec. Bush 
crede nell'area di libero scambio delle Americhe, e vuole essere per gli 
ispano-americani negli Stati Uniti ciò che il predecessore Clinton fu per i 
neri: la loro voce, il loro delegato. Ma la globalizzazione made in Usa, di 
cui è l'alfiere, rischia di essere la strada sbagliata. Il presidente ha un 
handicap: a ragione o a torto, viene identificato con i grandi interessi 
industriali che finanziarono la sua elezione.



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