[Diritti] Verso la deglobalizzazione: i chip e le tensioni geopolitiche. Gli Stati Uniti dichiarano guerra digitale alla Cina



Quella della produzione di semiconduttori è diventata nella sostanza l’attività più importante che ci sia al mondo a livello industriale; costituiscono infatti i mattoni di base di tutta la civilizzazione numerica (Escande, 2021). 

Il settore esemplifica in maniera molto evidente il crescente peso dell’Asia nell’economia del mondo, dopo che in passato nello stesso settore era abbastanza incontrastato il dominio occidentale. La prevalenza oggi dei produttori asiatici, in particolare della sudcoreana Samsung e della taiwanese TSMC, appare un dato relativamente recente.

I paesi europei controllavano una quota della produzione globale del 44% ancora nel 1990, mentre attualmente tale quota è scesa a meno del 10%. Gli Stati Uniti, che nel 1990 ottenevano il 37% della produzione globale, oggi ne controllano appena il 12%. Appare interessante rilevare come molti decenni fa i produttori occidentali di componenti, allora dominanti, avessero aperto diversi siti produttivi in Asia per sfruttare la presenza in loco di una manodopera abbondante, abile e molto a buon mercato. Da tali basi produttive decentrate, sempre più rilevanti, si svilupperà poi una produzione locale autonoma. 

Nessuna regione del mondo nella sostanza ha sino ad oggi raggiunto un’autonomia strategica completa nel settore; tra l’altro, la complessità tecnologica e i problemi di economia di scala hanno portato all’affermazione di un rilevante numero di attori in vari paesi del mondo, concentrati ognuno in qualche specifico segmento della catena del valore (Stockal, 2021). 

Seguendo uno schema di Le Monde del 9 febbraio 2022, da noi un poco arricchito, possiamo dire che è facile che un nuovo chip venga progettato negli Stati Uniti, su di un’architettura della britannica ARM, che le materie prime vengano dalla Cina, che la produzione relativa sia effettuata a Taiwan o nella Corea del Sud, su macchine della olandese ASML, che la stessa produzione venga poi assemblata in Malaysia, con i gas speciali necessari inviati dal Giappone; questa produzione complessa sarà poi collocata sul mercato soprattutto in Cina o in Asia, continente che controlla il 70% di quello mondiale, con la Cina da sola, almeno secondo alcune fonti, che rappresenta intorno al 60% dell’intero mercato. Un miracolo della globalizzazione.

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La Cina 

Il piano quinquennale cinese 2021-2025 pone al suo centro il concetto di autosufficienza tecnologica e sicuramente in questi anni il paese ha fatto enormi passi in avanti in tale direzione, anche se ci sono questioni su cui ancora arranca. A questo proposito si possono citare proprio i chip e l’aeronautica civile.  

C’è urgenza di acquisire avanzamenti adeguati nel settore e questi avanzamenti sono ora spinti dal fatto che sia Trump che Biden hanno portato avanti una politica delle sanzioni e dei veti sempre più aggressiva con il paese asiatico. Si veda meglio più avanti.

La produzione nel settore si collocava al 16% del totale mondiale nel 2020 e il grado di autosufficienza del paese era stimabile intorno al 30% nello stesso anno, anche se in crescita, quando l’obiettivo a suo tempo stato fissato era al 40%. Nel 2021 sono stati prodotti nel paese 359,4 milioni di circuiti integrati, con un incremento del 33,3% sullo stesso periodo dell’anno precedente. Il 2022 testimonia poi di molti avanzamenti tecnologici dei produttori cinesi.

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L’obiettivo in atto appare quello di sviluppare una catena di fornitura completa ed autonoma nel paese e il tentativo degli Stati Uniti di bloccare tale processo sembra plausibilmente votato al fallimento, almeno nel medio-lungo termine (Foster, 2022), mentre nel breve le conseguenze del blocco americano potrebbero essere rilevanti.

Gli Stati Uniti

Mentre la Cina sta cercando di tener dietro ai principali paesi produttori, la posizione degli Stati Uniti appare molto diversa. 

Gli Usa hanno perso il primato quasi assoluto che possedevano sino a qualche tempo fa, ma sono ancora molto forti su alcuni segmenti del mercato e su alcune tecnologie di base.

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Il governo Usa sta avviando, soprattutto per contrastare la crescita cinese, un piano da 52 miliardi di dollari, il Chip Act, che dovrebbe aiutare ad accrescere gli sforzi nel settore della produzione e della ricerca di chip. Per ottenere i finanziamenti del piano le imprese dovranno impegnarsi a non espandere per i prossimi dieci anni le loro attività nel settore in Cina e comunque di non qualificarle verso l’alto. Ma il fondatore di TSMC, Morris Chang, afferma che costruire una filiera completa nel paese, come è nelle intenzioni di Biden, sarebbe un compito impossibile.  

Intanto gli Stati Uniti stanno cercando di avviare un’alleanza con Corea del Sud, Taiwan, Giappone – dal nome di Fab 4 Chip Alliance – che mira nella sostanza di nuovo a bloccare i progressi della Cina nel settore, oltre che presumibilmente a catturare in qualche modo le tecnologie avanzate degli altri tre paesi.

Ma gli altri paesi coinvolti nella possibile alleanza sono piuttosto riluttanti, sia perché temono di dover cedere i loro segreti industriali alle altre imprese partecipanti, in particolare a quelle degli Stati Uniti, sia per paura della reazione cinese, di gran lunga il loro primo mercato di sbocco (Shilov, 2022).

Biden non si ferma certo qui. Negli ultimi tempi ha anche avviato una serie di divieti mirati sempre più duri contro il paese asiatico

Dopo le restrizioni di Trump, nel giugno del 2021 l’attuale presidente Usa ha pubblicato una lista di imprese cinesi (la cosiddetta “entity list”) ritenute collaboratrici del settore militare, nelle quali gli investitori statunitensi non possono investire, mentre tali imprese non possono raccogliere fondi sul mercato Usa e alle società Usa è proibito fornire loro tecnologie. 

Nell’agosto del 2022 Biden ha poi imposto nuove restrizioni alla vendita di chip sofisticati che vengono utilizzati nei supercomputer e nel campo dell’intelligenza artificiale. Ha tentato di convincere l’olandese ASTM a cessare di vendere alla Cina non solo le macchine più avanzate, cosa che è già in atto da tempo, ma anche apparecchiature meno avanzate.

Nell’ottobre del 2022 vengono infine rese pubbliche una serie di nuove e più pesanti restrizioni che segnano ormai un vero e proprio spartiacque nelle relazioni tra la Cina e gli Stati Uniti (Sevastopulo, Hille, 2022), rendendo più difficile per le imprese di quel paese ottenere o produrre chip avanzati, in particolare nel campo dei computer e dell’intelligenza artificiale. Caduta la scusa del non permettere sviluppi nel campo militare, le nuove norme cercano di bloccare i progressi delle tecnologie cinesi in ogni settore e con ogni mezzo.

Tra l’altro, viene allungata di 13 unità la lista delle imprese comprese nella “entity list”. Inoltre si proibisce alla imprese Usa di esportare strumenti e macchinari per la produzione di chip avanzati e, più in generale, si fa divieto alle imprese e ai singoli cittadini Usa di fornire ogni possibile assistenza per la produzione di semiconduttori nel paese asiatico. Infine si blocca anche per le imprese non-Usa la possibilità di fornire alle imprese cinesi comprese nella “entity list” sia hardware che software che contengano tecnologia “made in Usa”. Biden, a quanto sembra, sta poi preparando un ordine esecutivo che permetta al governo di Washington di revisionare gli investimenti esteri delle imprese Usa dal punto di vista dei rischi per la sicurezza statunitense (Sevastopulo, Hille, 2022; Mozur, Swanson, Wong, 2022).  

Vincenzo Comito

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