L'AVVENIRE DEI LAVORATORI La più antica testata della sinistra italiana, www.avvenirelavoratori.eu Organo della F.S.I.S., centro socialista italiano all'estero, fondato nel 1894 Sede: Società Cooperativa Italiana - Casella 8965 - CH 8036 Zurigo Direttore: Andrea Ermano > > > PDF scaricabile su http://issuu.com/avvenirelavoratori < < < e-Settimanale - inviato oggi a oltre 50mila utenti – Zurigo, 26 ottobre 2017 |
EDITORIALE Come ai tempi di Veltrusconi? di Andrea Ermano Qualche giorno fa il segretario del PD ha detto che intende costruire una grande alleanza di centro-sinistra capace di conseguire il 40% dei consensi, grazie ai quali riconquistare il governo del Paese nella prossima legislatura, in forza del Rosatellum. Sembra però che sul versante di "centro" le personalità più imporanti non intendano candidarsi, e così è del resto la situazione anche sull'altro versante, quello di Pisapia, per non parlare delle formazioni alla sinistra dell'ex sindaco di Milano che osteggiano Renzi a tutta birra.
A Rosatellum approvato, non è detto che i potenziali alleati di centro-sinistra prenderanno atto delle nuove "regole del gioco" e si acconceranno ora a un accordo comunque sia. Le varie ostilità incrociate potrebbero anzi imporre la prosecuzione del conflitto e, in assenza di una coalizione, la Sinistra-sinistra dovrà evitare la trappola mortale del "voto utile". Qualora non ci riuscisse, verrebbe azzerata. Altrimenti sarà il Rottamatore stesso a finire per auto-rottamarsi… Bell'alternativa. Complimenti. Ma l'esito più probabile a questo punto sarebbe il "combinato disposto" di entrambi gli scenari predetti, con il popolo di sinistra che si rifugia massicciamente nel non-voto punendo tutt'e due i litiganti. < > I socialisti italiani in Svizzera e l'anno delle due Rivoluzioni Raniero Fratini, redattore culturale dell'emittente pubblica svizzera "ReteDue", ha realizzato un servizio radiofonico sul ruolo avuto dall'ADL e dai socialisti italiani di Zurigo nell'anno delle due Rivoluzioni in Russia. Il servizio, andato in onda il 23 ottobre scorso, è disponibile sul sito di "ReteDue". Buon ascolto ! |
Conformemente alla Legge 675/1996 tutti i recapiti dell'ADL Newsletter sono utilizzati in copia nascosta. Ai sensi del Codice sulla privacy (D.L. 30.6.2003, 196, Art. 13) rendiamo noto che gli indirizzi della nostra mailing list provengono da richieste d'iscrizione, da fonti di pubblico dominio o da E-mail ricevute. La nostra attività d'informazione politica, economica e culturale è svolta senza scopi di lucro e non necessita di "consenso preventivo" rivestendo un evidente carattere pubblico come pure un legittimo interesse associativo (D.L. 30.6.2003, 196, Art. 24). L'AVVENIRE DEI LAVORATORI contribuisce da 120 anni a tenere vivo l'uso della nostra lingua presso le comunità italiane nel mondo tra quelle persone che si sentono partecipi degli ideali socialisti-democratici di Giustizia e Libertà. |
18 novembre 2017 Cooperativo Zurigo St. Jakobstrasse 6, 8004 Zürich Una giornata di studi e dibattiti nel 120° dalla fondazione dell'ADL Ore 10.00 - Libri e autori Giovanni Battista Demarta, Mattia Lento e Viviana Meschesi al confronto con il pubblico zurighese Il Dr. Demarta illustrerà l'edizione italiana, da lui curata, di Per un'economia umana di Julian Nida-Rümelin (Milano, 2017). Il Dr. Lento parlerà de La scoperta dell'attore cinematografico europeo, (Pisa 2017). La Dr. Meschesi parlerà di Sistema e Trasgressione. Logica e analogia in Rosenzweig, Benjamin e Levinas, (Milano 2010). Moderatore: Francesco Papagni, teologo e giornalista. Ore 11.00 - Anima, mondo ed esperienza L'eredità kantiana in Helmut Holzhey Il prof. Pierfrancesco Fiorato (Sassari) discute con Helmut Holzhey (professore emerito presso l'Università di Zurigo) la sua opera Il concetto kantiano di esperienza, riedita nell'ottantesimo compleanno dell'Autore. / Moderatore: Dr. Andrea Ermano, direttore dell'ADL. Ore 12.15 - Pausa dei lavori e rinfresco Ore 13.15 - Il "Caso Englaro" otto anni dopo Ricordi e riflessioni di Beppino Englaro e Renzo Tondo
Renzo Tondo e Beppino Englaro Beppino Englaro, padre di Eluana Englaro, e l'on. Renzo Tondo, Governatore della Regione Friuli Venezia-Giulia all'epoca del "Caso Englaro", verranno intervistati dal decano dei giornalisti italiani in Svizzera, Giangi Cretti. Ore 14.15 - Grande Riforma? Ma l'Italia ha bisogno di grandi riforme? E, se sì, di quali? Il sen. Paolo Bagnoli (Università Bocconi di Milano e Università di Siena), l'on. Felice Besostri (costituzionalista autore dei ricorsi contro il Porcellum e l'Italicum) e il Dr. Andrea Ermano, direttore dell'ADL, verranno "moderati" dal Dr. Mattia Lento (Innsbruck). Ingresso libero Info: 044 2414475 / cooperativo at bluewin.ch 23 novembre - ore 18.00 Photobastei - Sihlquai 125 - 8005 Zürich Letzte Front Vernissage della mostra dedicata alla vita e all'opera di Andy Rocchelli (1983-2014) Intervengono: Miklós Klaus Rózsa (Syndicom, fotografo, curatore della mostra), On. Beppe Giulietti (Presidente Federazione Nazionale Stampa Italiana), Giangi Cretti (Direttore Comunicazione Camera Commercio Italiana). Finissage: 13 gennaio 2018, ore 18.00. Ingresso libero. Orari di apertura: lunedì-sabato 12-21; domenica 12-18. Info: www.photobastei.ch - cooperativo at bluewin.ch Organizzano: Camera di Commercio Italiana per la Svizzera, Collettivo Cesura, Fabbrica di Zurigo, Famiglia Rocchelli, Fondo Gelpi Ecap Schweiz, Photobastei, Società Cooperativa Italiana, Società Dante Alighieri, Syndicom Schweiz. Con il patrocinio dell'Istituto Italiano di Cultura Zurigo e della Camera di Commercio Italiana per la Svizzera |
Gli "Avvocati Antitalikum" in riunione Forzature istituzionali La dichiarazione di Besostri Sulla blindatura del "Rosatellum", approvato oggi in Senato, l'agenzia all'ADN Kronos ha diffuso qualche giorno fa una dichiarazione dell'avv. Felice Besostri che di seguito riportiamo. "Il governo chiede la fiducia perché non crede nella bontà della sua legge e nella tenuta della maggioranza, oltre che voler evitare pochi voti segreti". Lo dice Felice Besostri, coordinatore degli "Avvocati Antitalikum" alla notizia del voto di fiducia al Senato da parte del governo. "Quello che speravo non succedesse è successo di nuovo – prosegue – quindi la presidenza del Senato e delle Camere nel complesso ha accettato il ricatto". "Se il Rosatellum fosse stata una legge elettorale costituzionale, cosa che non è, sarebbe diventata incostituzionale grazie all'ammissione del voto di fiducia in violazione dell'articolo 72, comma 4 della Costituzione – incalza il costituzionalista – e spero che i cittadini capiscano l'imbroglio e gli elettori non diano fiducia a chi non vuole concedere la libertà di votare in conformità alla Costituzione. Il voto non è libero, uguale e personale ma, grazie a Dio, resta ancora segreto". |
La dichiarazione di Zanda, Presidente dei senatori Pd GUARDEREI CON FAVORE A FIDUCIA ANCHE SU IUS SOLI "Negli ultimi giorni una questione ha tenuto il campo e non voglio eluderla: se sia corretto approvare una legge elettorale con voti di fiducia. Tralascio ogni osservazione su come negli ultimi decenni tutti i governi abbiano sentito la necessità di usare con frequenza il voto di fiducia, nel tentativo di porre rimedio alle difficoltà della capacità decisionale del Parlamento. Ne ha fatto cenno ieri il presidente Napolitano e io debbo ricordare che si sono trovati in questa necessità tutti i presidenti degli ultimi 25 anni", ha affermato ieri il presidente dei senatori del Pd, Luigi Zanda, nel suo intervento in Aula. "Lo dico a malincuore, ma col nostro bicameralismo paritario e con un sistema politico così frammentato, la fiducia è diventata uno strumento abituale, usato da tutti i governi nel tentativo di far funzionare, com'è possibile, istituzioni molto traballanti. Per queste ragioni, i governi degli ultimi anni hanno posto la fiducia non solo su provvedimenti di propria iniziativa, ma anche su disegni di legge parlamentari. In questa legislatura è stata approvata con fiducia la legge sulle unioni civili, che pure era di origine parlamentare. Non appena avremo la certezza di aver voti necessari, accoglierei con molto favore una decisione del governo di mettere la fiducia sullo jus soli prima della fine di questa legislatura". "È stato, però, detto che non si approvano con fiducia le leggi elettorali. Con la sentenza n.35 di quest'anno la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili i rilievi sollevati sulla decisione di porre la fiducia su leggi elettorali. Dunque, se siamo dentro la Costituzione, chiedere o non chiedere la fiducia è un atto squisitamente politico. Dobbiamo valutarlo tenendo conto della delicatezza e dei rischi connessi all'attuale momento istituzionale, ordinamentale e politico", ha aggiunto Zanda: "Possiamo fingere di non sapere che l'Italia solo ora sta uscendo da una crisi economica e sociale che dura da più di dieci anni e che per non tornare indietro ha bisogno di un Parlamento almeno omogeneo nella composizione delle due Camere? Possiamo correre il rischio che uno sgambetto col voto segreto ci faccia andare al voto con due leggi profondamente diverse tra loro? Possiamo indebolire ulteriormente il nostro Parlamento in una fase internazionale nella quale i rischi della pace sono altissimi e si è persino riaffacciata la minaccia atomica? Possiamo andare in Europa cercando di far valere i nostri diritti con un Parlamento eletto con due diverse leggi? Con più di cento voti segreti, costruiti come si è visto per favorire gli agguati, il voto di fiducia alla Camera ha avuto molto semplicemente il valore di far votare a scrutinio palese una legge importante che al contrario, come è già accaduto, sarebbe certamente caduta in una delle tante trappole degli scrutini segreti. Al Senato la fiducia è stata non solo una decisione egualmente necessaria, ma anche un'assunzione di responsabilità politica. Non solo perché, irresponsabilmente, sono stati presentati una cinquantina di emendamenti suscettibili di voto segreto e visibilmente strumentali, ma anche per la necessità di non sovrapporre la legge elettorale alla legge di bilancio". |
SPIGOLATURE 200 milioni… di "cene eleganti" di Renzo Balmelli CENE. Che l'iperbole sia uno dei principali nutrimenti della politica non si scopre oggi. Di affermazioni magniloquenti e promesse mirabolanti sono piene le fosse. A volte però l'uso della figura retorica sconfina negli spropositi. Si arriva così alla mastodontica quota di 200 milioni di voti, tanti quanti ne avrebbe raccolti Berlusconi nella sua non proprio esaltante carriera. Più o meno come se l'intera popolazione italiana, neonati compresi, avesse votato per lui quattro volte di fila. Cose da fare impallidire la famosa maggioranza bulgara. Se non è una bufala colossale (fake news come si dice oggi) poco ci manca. D'altronde anche i turibolieri meglio indottrinati ammettono, seppure a denti stretti, che il calcolo è un po' forzato. Ma dopotutto che cosa non si farebbe per un posticino alle "cene eleganti" di cui i sostenitori agognano il ritorno. MONTAGNA. Col passare del tempo e volatilizzata l'euforia post referendaria, la Gran Bretagna è tormentata dai dubbi. La Brexit non è esattamente come l'avevano prospettata i suoi promotori. Costa una barca di soldi ed è soggetta a regole che allontanano la prospettiva di divorziare dall'UE senza perdere i vantaggi riservati ai Paesi membri. La stessa Theresa May, costretta a far buon viso a cattiva sorte, contribuisce ad aumentare l'incertezza non sapendo che pesci pigliare tra lo "exit" e il "remain" se si dovesse rivotare. La sua speranza è che sotto l'albero di Natale possa esserci un accordo che le risparmi di essere scalzata dai secessionisti più radicali. Ma oggi come oggi a Londra nessun bookmaker accetta scommesse su come andrà a finire questa storia, più impervia delle montagne che nell'ottocento gli alpinisti inglesi scalavano con albionica baldanza. IDENTITÀ. Soltanto grazie a una grande forza socialista l'Europa riuscirà a navigare in acque più tranquille. Ultimamente la sinistra europea dava l'impressione di essersi assopita, anziché elaborare le necessarie contromisure per fare argine all'onda nera e sovranista. Indubbiamente le controprestazioni elettorali, pesanti come macigni, hanno frenato gli ardori. Per fortuna, a furia di squillare sempre più forte, il campanello d'allarme è stato recepito e la gloriosa famiglia del PSE, a dispetto delle sconfitte, è ora determinata a ricostituire una forte identità tanto nazionale quanto a livello internazionale. È un grande sfida democratica – ha detto il presidente Pittella alla Convention di Togheter – una sfida per sottrarre i cittadini a un senso di abbandono e solitudine che finirebbe col dividere e non a cambiare l'Europa in senso progressista. CASACCA. Erano quegli anni la, quando il "Libretto Rosso" di Mao andava a ruba anche in occidente. È stata l'opera che ha avuto la maggior diffusione con oltre 300 milioni di copie, ma quanto ancora resti di quella bibbia del comunismo ritenuta in grado di risolvere tutti i problemi della vita, è una questione rimasta irrisolta. Se una immagine vale più di mille parole, quella che mostra le hostess elegantissime che a passo marziale servono il tè al recente congresso del partito comunista cinese da la misura di quanto sia cambiato il Paese. Eppure, nonostante le apparenze, sembra di scorgere una sottile linea di continuità tra la politica dei cento fiori del "Grande timoniere" e il leader attuale che promette "una vita migliore e più felice" al suo popolo. Ora più nessuno indossa la casacca d'ordinanza, ma l'abito sartoriale non sempre è sinonimo di democrazia. |
LAVORO E DIRITTI a cura di www.rassegna.it Fuori dal tunnel? L’Italia è (tecnicamente) uscita dalla recessione. Mettendo però a confronto Pil, occupazione, ore lavorate, salari e produttività, emergono fragilità strutturali che consigliano cautela di Dario Guarascio e Marco Centra, Eticaeconomia La crisi è finita. Con la variazione positiva del Pil nel terzo e nel quarto trimestre del 2014 l’Italia è, tecnicamente, uscita dalla recessione. Negli ultimi 12 mesi, la crescita ha superato abbondantemente la soglia dell’1% e si prevede che nell’anno in corso superi l’1,5%. Gli occupati hanno raggiunto, nel secondo trimestre 2017, i 23 milioni, un livello analogo a quello del 2008 e prossimo al massimo storico dal 1992. Questi dati macroeconomici, tuttavia, possono celare criticità strutturali in grado di minare le prospettive future della nostra economia. Eccone alcune: la riduzione di quasi il 25% della capacità produttiva tra il 2008 e il 2013; i livelli di salari, produttività del lavoro, investimenti in capitale fisico e in R&S (ricerca e sviluppo), che sono significativamente inferiori alla media europea. Non solo: mentre Pil e occupazione crescono, le ore lavorate arrancano, restando lontane dai livelli pre-crisi e ciò fa pensare che manchi la capacità di sfruttare appieno la capacità produttiva e che vi sia la tendenza, con l’esaurirsi degli incentivi all’occupazione stabile nel biennio 2015-2016, a creare occupazione di scarsa qualità, come sembrano, peraltro, confermare la stagnazione dei salari – in contrasto con quanto avviene in media nell’eurozona – e la recente espansione del lavoro temporaneo a discapito di quello permanente. Per questi motivi, un’analisi accurata delle recenti riforme del mercato del lavoro italiano – le misure di contenimento dell’impatto della recessione sull’occupazione e sul reddito delle famiglie, le modifiche di aspetti della regolamentazione del lavoro, quali il controllo a distanza e l’attribuzione delle mansioni, l’introduzione temporanea di incentivi all’occupazione permanente e il ridisegno sostanziale della disciplina sui licenziamenti – deve tener conto non solo degli effetti di breve periodo, ma anche di quelli più strutturali, di medio-lungo periodo. Nel breve periodo, gli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato (e le trasformazioni di rapporti di lavoro a termine in contratti a tempo indeterminato) hanno generato un forte aumento dell’occupazione stabile. Al contempo, però, l’eliminazione della tutela reale – come il diritto al reintegro per il lavoratore oggetto di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo oggettivo – può aver minato l’effettiva solidità dell’occupazione permanente trainata dagli incentivi. Vi è, dunque, il rischio che la ripresa dell’occupazione stabile abbia carattere non strutturale, ma episodico, limitato al solo biennio di disponibilità degli incentivi, come lascia pensare il fatto che i contratti a tempo determinato, in perfetta sintonia con la riduzione dimensionale e poi con l’abolizione degli incentivi, hanno ripreso a crescere, con tassi più sostenuti rispetto a quelli a tempo indeterminato. A ciò si aggiunge la crescente incidenza del part time involontario e la distribuzione per età della nuova occupazione, che sembra concentrarsi nelle coorti d’età più anziane, mentre persistono elevati tassi di disoccupazione tra i più giovani. Crescita, occupazione e salari - Esaminiamo ora in dettaglio i dati relativi a prodotto lordo, occupazione, ore lavorate e salari. Mentre l’occupazione è ormai prossima ai livelli del 2008, nel secondo trimestre del 2017 il Pil è inferiore del 6,4% rispetto al primo trimestre 2008. Anche il totale delle ore lavorate nel secondo trimestre 2017 è inferiore del 5,8% rispetto al primo trimestre del 2008. >>> continua la lettura sul sito |
ECONOMIA L'amaro frutto della Brexit di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia e Paolo Raimondi, Economista Nel mondo della finanza e delle grandi istituzioni bancarie cresce il turbinio di accuse incrociate contro chi sarebbe il primo responsabile di un'eventuale nuova crisi globale. Se fossero solo commenti più o meno forti non sarebbe un problema. Purtroppo i veri problemi ci sono e sono malamente celati sotto il tappeto. Si ricordi che il cuore finanziario mondiale è ancora Londra. Ecco perché certi effetti destabilizzanti della Brexit stanno emergendo in campo finanziario e bancario. Il governatore della Bank of England ha recentemente detto davanti al parlamento britannico che circa 25 trilioni (!) di dollari di derivati over the counter (otc) sarebbero a rischio, qualora la separazione tra Londra e l'Unione europea avvenisse in modo disordinato. Servirebbe un accordo tra le parti prima di marzo 2019 in modo tale che i contratti possano essere onorati. Altrimenti l'intero sistema di rischio, capitali, collaterali e persone coinvolte dovrebbero lasciare la City e trasferirsi in uno degli altri paesi dell'Ue. È ovvio che eventuali iniziative unilaterali non sarebbero risolutive. A oggi i contatti tra il governo britannico e la Commissione di Bruxelles non sembrano procedere positivamente. Anche il Comitato finanziario della Bank of England ha preparato uno studio sullo stesso argomento. Si dice che, senza un accordo congiunto, i derivati otc rischiano di essere invalidati. Anche una loro eventuale rinegoziazione richiederebbe tempi molto più lunghi rispetto ai pochi mesi che ci separano dalla primavera del 2019. Secondo una recente analisi del Financial Times, anche il mercato dei cambi monetari sarebbe messo in grande fibrillazione dalla Brexit. Si pensi che le relative operazioni quotidiane ammontano a circa 5 trilioni di dollari, il 40% delle quali è trattato nella City. Il giornale inglese riporta anche che circa la metà degli esistenti 600 trilioni di dollari di derivati otc sarebbe contrattata sul mercato londinese. È chiaro che Londra sta facendo di tutto per sollevare, forse anche con toni esagerati, i rischi e i pericoli insiti negli spostamenti dei mercati finanziari. Sta cercando in tutti i modi di mantenere la City come centro finanziario mondiale. Cosa non facile dopo la Brexit. Grandi attori economici, tra cui la Cina e il Giappone, hanno sospeso le proprie decisioni relative ai loro futuri rapporti con la City, in attesa di conoscere meglio gli effetti del divorzio con l'Ue. Londra vorrebbe che nel business si procedesse as usual e che alla City fosse garantito comunque il suo ruolo centrale e dominante nella finanza mondiale. Il problema di tutti gli attori in campo, però, potrebbe essere quello di sottovalutare i rischi e di sopravalutare una presunta capacità di gestione della crisi, che, nelle passate situazioni difficili, è sempre stata fatale. In questa diatriba, di fatto, si getta un velo sulla rischiosità intrinseca della montagna di derivati otc in circolazione e si mette in ombra la necessità di una profonda riforma di questo mercato molto speculativo, così come da noi ripetutamente evidenziato. Un altro argomento di scontro sulle responsabilità di una nuova crisi è la montagna del debito aggregato, pubblico e privato. Un recente dossier del Fondo Monetario Internazionale affermerebbe che l'intero sistema globale sarebbe minacciato dalla forte crescita del debito del settore non finanziario, pubblico e privato, della Cina. Si tratta cioè della somma del debito pubblico e di quello corporate, cioè delle imprese: Secondo il Fmi nel 2022 esso arriverebbe al 290% del Pil. Nel 2015 era al 235%. Indubbiamente in Cina sono cresciute molte bolle finanziarie. Ma ci sembra un tentativo pretestuoso per trovare un capro espiatorio. Invece è l'intero sistema che deve essere messo sotto la lente d'ingrandimento e riformato. Intanto economisti cinesi sono stati messi in campo per confutare le analisi del Fondo. Affermano che gran parte del debito cinese poggia su attivi e investimenti sottostanti nei settori dell'economia reale e delle infrastrutture. Ad esempio, nel 2015 i titoli sovrani cinesi erano pari a oltre 100.000 miliardi di yuan, equivalenti a circa 15.000 miliardi di dollari, però gli attivi sottostanti erano stimati a oltre 20.000 miliardi di yuan. Un rapporto indubbiamente migliore rispetto a tanti paesi dell'Occidente. La Cina, da parte sua, punta il dito contro le politiche di Quantitative easing che hanno inondato il sistema di liquidità senza mettere in moto nuovi investimenti e perciò causa di nuove instabilità. Sono segnali brutti. Quando, invece di incontrarsi per definire unitariamente la necessaria e improcrastinabile riforma del sistema finanziario globale, ci si accusa reciprocamente, allora c'è veramente da temere il peggio. Il che significa ignorare le lezioni del passato. Il black monday di trent'anni fa docet! |
Da Avanti! online www.avantionline.it/ Acquaviva: Le intuizioni e gli errori del PSI craxiano Martino Loiacono - Come erano visti i partiti nel corso degli anni Ottanta? Si percepiva già un sentimento antipartitocratico? Gennaro Acquaviva - Prima di dare dei giudizi bisogna fare una premessa indispensabile. Quando si riflette è doveroso cercare di fare astrazione dal ricordo, cercando di dare un giudizio che superi le emozioni dell’epoca. Altrimenti la testimonianza non può essere utile alla Storia. Io ricordo gli anni Ottanta come un periodo di grande entusiasmo, anche perché noi socialisti eravamo dei giovani ‘rampanti’ di livello. Il nostro gruppo aveva dentro di sé un insieme significativo di esperienze politiche, ma anche di studio: si veda De Michelis e la sua ricerca legata alle scienze, era un grande studioso di chimica; eppure nonostante questa formazione di livello sarà identificato come un giovane dissoluto, non vanno quindi dimenticate le sue doti intellettuali. Un discorso simile vale anche per Martelli ed altri. Questo gruppo si inserì in uno schema immobilizzato e paralizzato dalle divisioni che nascevano dalla ‘guerra fredda’. Lo spirito di Craxi è quello di voler rompere questa gabbia per realizzare una strategia importante: voleva ridimensionare il Pci portandolo verso di sé, sulla via del riformismo e costruire così la gamba di sinistra del bipolarismo necessario. Il gruppo socialista di quegli anni si impegna a fondo su questo, seguendo la forza e la spinta di Craxi. Questo avviene a partire dal 1978, soprattutto dopo il congresso di Palermo in cui Craxi conquista definitivamente il partito. Negli anni Ottanta, tornando alla tua domanda, non c’era la percezione del crollo del sistema, si percepiva soprattutto l’impasse, il blocco del sistema politico. Tuttavia il sistema dei partiti si sentiva fortissimo perché controllava tutto e il mondo intero percepiva questa stabilità. Nessuno in quei momenti aveva la lucidità retrospettiva che possiamo avere oggi noi. Anche se la morte di Moro è un serio campanello d’allarme. In questo contesto il Psi è ottimista, e ha in mente di riformare il sistema dei partiti anche provando a guidarlo. Il problema del Psi è che gli mancano i voti, se avesse avuto un 20% avrebbe potuto trattare in modo diverso con i comunisti; ad esempio avremmo potuto attrarre i miglioristi e il Pci più di ‘destra’. L’errore grave del Psi, su cui ho insistito più volte, è collocabile nel 1987. Allora Craxi (e il Psi) accetta la staffetta di De Mita: e invece avrebbe dovuto cercare di rimanere alla guida del processo. Abbandonare il governo dopo un’ottima prova senza reagire radicalmente è l’errore gravissimo che peserà molto su di noi. Ci sono anche delle responsabilità della cattolicità italiana (Cei e vescovi), perché nel 1987 combattono Craxi e il Psi, facendo una campagna elettorale largamente ostile. Il tutto per salvare la Dc nella sua situazione di crisi, in cui il Psi avrebbe potuto sottrarle voti importanti. A questo poi bisogna aggiungere anche il fatto che il potere ha dei lati negativi, siamo forse stati un po’ logorati dal potere e c’è mancato equilibrio e capacità di tenuta. Martino Loiacono - Ci puoi spiegare meglio l’errore del 1987? Gennaro Acquaviva - Craxi sbaglia perché non rompe definitivamente con il sistema di potere in cui di fatto è rimasto ingabbiato. Avrebbe ad esempio potuto imboccare la strada ‘populista’ e cioè denunciare al popolo le ingiuste pretese della Dc. Si sarebbe potuto chiamare fuori dal sistema, rivendicando la sua buona prova di governo. Avrebbe dovuto insomma mostrarsi come alternativa al corporativismo e all’immobilismo di Dc e Pci. Questo però era pericoloso sul breve periodo perché avrebbe così perso la prospettiva di tornare al governo promessogli dalla Dc. Tutto ciò porta il Psi ad una fase conservativa che lo danneggia perché a gestire l’esistente sono meglio i democristiani. Da innovatore il Psi appare gestore del potere, da ciò deriva l’impossibilità di promuovere un rinnovamento vero nei tempi necessari. Craxi avrebbe potuto fare altrimenti? Non lo so anche perché avrebbe dovuto attendere tempi troppo lunghi. É un fatto comunque che con quella mossa si consegna al sistema. Quella legislatura finale (1987-1992) significa per l’innovatore Craxi consegnarsi alla decadenza e alla morte. Non si deve poi dimenticare l’abbassamento fisico e psicofisico di Craxi, dopo l’infarto da diabete subìto nel 1989, in cui vede la morte in faccia. Anche questo probabilmente ha influito sulle sue future scelte politiche. Questo gruppo rampante durante gli anni di governo ha fatto un’esperienza di potere intensa, ma ha anche subìto il fascino della mondanità. Questo si legge su Repubblica ma anche Civiltà cattolica ed altri giornali cattolici lo denunciano con attacchi pesanti. Oggettivamente c’era qualche eccesso, basti pensare al libro di De Michelis sulle discoteche. Abbiamo subìto un po’ il fascino del potere, e poi non dimentichiamo che abbiamo ottenuto potere sovradimensionato rispetto al nostro peso elettorale, e in troppo poco tempo. Questo probabilmente ha contribuito a far saltare i meccanismi di controllo dentro qualcuno. Martino Loiacono - Certa stampa ha descritto Craxi come un corrotto, cosa ne pensi? Gennaro Acquaviva - Craxi non era mai stato avido, anzi me lo ricordo spesso come un grande tirchio. Per quanto riguarda la politica aveva visto e ben capito che senza autonomia finanziaria il Psi non avrebbe mai avuto l’autonomia politica indispensabile per cambiare le cose. Aveva visto negli anni del frontismo e del centrosinistra che la mancanza di soldi era gravosa, aveva visto singoli e gruppi letteralmente comprati dal denaro altrui. I soldi li considerava importanti perché gli servivano a fare politica autonoma. Nel suo schema lo scopo prevalente della tangente era fare politica seria, formare una classe dirigente capace. Un mezzo deprecabile ma costruito per un buon fine. Martino Loiacono - Che ricordi hai del 1992? Gennaro Acquaviva - Io sono abbastanza incosciente nel 1992. Mi fido delle capacità superiori di Craxi e seguo la sua linea ed i suoi comportamenti. Craxi, che era obiettivamente in una posizione di minor forza, accetta anche che lo facciano fuori da Presidente del Consiglio. La scelta decisiva è però quella fatta da Scalfaro, cioè di non conferire l’incarico a Craxi per via delle indagini dandolo ad Amato. Se Craxi fosse diventato Presidente del Consiglio avrebbe fatto delle scelte in grado di contrastare fortemente l’emergente strapotere della magistratura. Non penso che quello del 1992 sia stato un golpe. Il problema è che il Psi aveva ridotto la propria capacità di potere e di peso. E poi fa anche una serie di errori. A questo bisogna aggiungere le misteriose dimissioni di Cossiga che cambiano radicalmente le carte in tavola. Insomma si costruiscono anche una serie di errori che sono insiti nel sistema dei partiti, attraverso cui si arriva alla stessa morte di questo assetto. Possiamo mai pensare che Scalfaro, che aveva fondato la Dc, voleva la morte dei partiti? Eppure è questo che allora avvenne, anche per colpa ed ignavia di molti, compreso l’allora Presidente della Repubblica. Non dimentichiamoci che se Cossiga non si fosse dimesso, avrebbe dato l’incarico a Craxi come stabilito dagli accordi con il vertice DC, e cosa sarebbe successo in quel caso? E poi Scalfaro era allora indubbiamente impaurito anche da possibili sue compromissioni e non essendo un ‘cuor di leone’ non compie le scelte che avrebbe dovuto e potuto prendere. Ricordiamo che in quella fase il sistema dei partiti era ancora, più o meno, in grado di reggere anche perché aveva comunque una maggioranza in Parlamento. Martino Loiacono - Quali sono le cause del crollo dunque? Gennaro Acquaviva - Le cause sono insite nella stessa crisi del sistema politico. Pensiamo solo al mancato ricambio e alla pesantezza della conventio ad excludendum. E poi i cinque anni (1987-1992) che anticipano la tragedia, sono anni che sfibrano e indeboliscono fortemente il sistema, insomma conducono ad una degenerazione del sistema politico. Ripeto che in ogni caso nel 1992 i partiti tradizionali hanno comunque ancora la maggioranza sia alla Camera sia al Senato. La questione preliminare è pienamente legata a Scalfaro che sotto ricatto non dà l’incarico a Craxi. Un altro errore strategico riguarda il referendum (1991) sulla preferenza unica con cui Segni sconfigge la partitocrazia. Craxi avrebbe dovuto e potuto andare ad elezioni anticipate bypassando il referendum di modo da mettere in crisi il Pci. Purtroppo temporeggia come fa per tutto il contesto di quei cinque anni drammatici. Al congresso di Rimini del 1991, D’Alema e Veltroni vanno da Craxi per pregarlo di non ucciderli e lui acconsente. Craxi pensa di annetterli nel futuro, quando avrà il governo, commettendo così un grave errore. Si sarebbe dovuti andare ad elezioni anticipate, anche per mettere definitivamente il Pci in crisi. Tra l’altro andando ad elezioni nel 1991 Craxi avrebbe probabilmente preso in contropiede Tangentopoli, che già si preparava. Anche i corsivi sull’Avanti! contro Di Pietro sono un errore grave. Se Craxi effettivamente avesse avuto prove delle malefatte di Di Pietro avrebbe potuto e dovuto fare degli esposti oltre a velate minacce. Non dimentichiamo che il Ministro di giustizia era Martelli, pur recalcitrante ed infido. Martino Loiacono - Perché Craxi diventa il capro espiatorio di questa stagione? Gennaro Acquaviva - Perché era l’unico che poteva cambiare l’Italia, aveva dimostrato di essere un grande leader e di poter riformare tutto. Era un leader naturale. Ancora nella fase della decadenza sembrava fosse in grado di cambiare il Paese. Martino Loiacono - Cambiando argomento: all’interno della Grande riforma, quando si afferma il presidenzialismo? Gennaro Acquaviva - Mai, in nessun congresso socialista si afferma compiutamente. L’avvio della grande riforma è l’articolo di Craxi del 1979, che prosegue il saggio di Amato del 1977. Il riformismo si sviluppa con il congresso di Rimini del 1982. Craxi sapeva che il presidenzialismo era troppo divisivo per la Dc, e che quindi non avrebbe mai potuto promuoverlo con il suo alleato maggiore, in modo decisivo e definitivo. I due schieramenti bipolari avrebbero costretto la Dc a prendere una posizione netta, facendo saltare il carattere interclassista della Dc e la stessa sopravvivenza del movimento politico dei cattolici. Vai al sito www.avantionline.it/ |
Freschi di stampa, 1917-2017 (22) Ancora i due duellanti di Russia Mentre L'ADL del 18 agosto 1917 va in stampa, il movimento operaio internazionale è diviso più che mai. E l'editoriale, a firma di Luigi Rainoni, riassume questa spaccatura nel nome dei due duellanti di San Pietroburgo: Lenin, Kerensky e la sconfitta russa, recita il titolo dell'articolo. In esso troviamo un ritratto del futuro fondatore dell'URSS: «Nel 1903 egli si separa dai compagni Martoff e Axelrod e fonda la frazione dei così detti "bolscevichi"… Già prima della rivoluzione del 1905 discuteva e preparava l'insurrezione armata. Lo zar gli aveva impiccato un fratello» (ADL 18.8.1917). Secondo alcuni critici, fanatizzato dal desiderio di vendetta per il fratello, Lenin è «un tipo a cui manca "la finezza dello spirito latino"». Finezza che Rainoni giudica però alla stregua di «una reminiscenza petrarchesca…, sotto la quale si nasconde quella leggerezza ed evanescenza delle idee democratiche francesi» (ADL 18.8.1917). La questione delle "libertà borghesi" costituisce già un tema virulento nel confronto in atto all'interno del campo rivoluzionario. Ezio Mauro ricorda il vecchio amico di Lenin, Maksim Gor'kij, che già nel giugno 1917 stronca l'ideologia bolscevica: «Prima nelle lettere private: "Sono i veri idioti russi. Li disprezzo e li odio ogni giorno di più". Poi in un articolo sul suo giornale…: "Sia Lenin che Trockij non hanno nessuna idea di ciò che significhino la libertà e i diritti dell'uomo"». Gor'kij polemizzerà anche con Zinov'ev capo del partito a Pietrogrado accusandolo di "crimini vergognosi".
Capri, 1908 - Gor'kij assiste a una partita a scacchi tra Alexander Bogdanow e Lenin Ma ora, due mesi dopo quel giugno 1917, Lenin è di nuovo esule e perseguitato, mentre Kerenskij governa su tutte le Russie, perseverando in una guerra che violenta il sentimento popolare. Perciò L'ADL, accantonando antiche differenze con il leader bolscevico, lo difende: «Epurato di tutte le artate esagerazioni, il pensiero leniniano nell'immane sommovimento russo, può riassumersi benissimo nelle ripetute dichiarazioni di Zineviov: lotta per impedire la contro-rivoluzione…, scioglimento della Duma e del suo Comitato esecutivo, governo esclusivamente socialista, pubblicazione dei trattati segreti, realizzazione del programma socialista» (ADL 18.8.1917). Qui Rainoni relativizza: «Più che mirare alla effettuazione precipitata del socialismo», Lenin intende soprattutto «assicurare il potere indebellabile di quelle forze, che sono per il socialismo». Tutto il potere ai Soviet! In realtà, i bolscevichi non dicono quel che dicono intendendolo in senso metaforico. Manca loro, per l'appunto, l'esprit de finesse… Poi c'è la vexata quaestio della "pace separata" con la Germania. E L'ADL non ci può ancora credere perché ogni cuore e ogni mente socialista deve volere la "pace universale". E così persino i "menscevichi" si battono per la cessazione del macello: «Noi domandiamo l'immediata conclusione di un armistizio generale, noi vogliamo la pace» (ADL 18.8.1917). Questa "chiara valutazione" – che a Pietrogrado è sostenuta "da quattrocentomila lavoratori" – non piace ovviamente alla stampa "guerraiuola" dell'Intesa. La "Morning Post", per esempio, dipinge il movimento operaio russo come un'accozzaglia di «agenti pagati dalla Germania», lamenta Rainoni. Per il quale Lenin, il duellante bolscevico, è «l'uomo più chiaro, più risoluto, più ardito, molto superiore a Kerensky». Il cui Governo provvisorio continua a combattere fedele all'Intesa. Nella conduzione degli altri affari di Stato il duellante laburista però è ondivago. Di lì a qualche giorno batterà in breccia i contro-rivoluzionari, ai quali aveva lasciato fare per un po', ordinerà l'arresto degli ufficiali ribelli, libererà i bolscevichi, incarcerati un mese prima. Ma l'Offensiva Kerenskij è stata un «salto nel buio, una follia», anche e soprattutto sul piano militare: «L'esercito rivoluzionario non può attaccare fintanto che ogni soldato non abbia l'assicurazione ch'egli combatta per la causa della libertà e della rivoluzione. Per conseguenza se l'attività del governo nel dominio della politica estera non abbia tolto tutti i dubbi relativi agli scopi ed al carattere della guerra, l'attacco non può aver luogo», si leggeva sulla "Isvestia" agli inizi di giugno. L'azione è giudicata "pericolosa" da tutti i social-democratici. Persino la stampa dell'Intesa riporta all'inizio di giugno «che "tutti i giornali socialisti russi continuano a combattere apertamente l'idea di un'offensiva". Zernoff critica e sconfessa Kerensky. Il generale Alexieff è costretto dal "Soviet" a dimettersi in seguito ai suoi sfoghi oratori patologici per l'attacco immediato» (ADL 18.8.1917). Nel corso di quei giorni, tuttavia, «il "Soviet" cade nelle perplessità e inclina alle concessioni», c'informa l'editoriale. E a nulla vale la protesta di Lenin al Congresso panrusso contro un'offensiva che in quel momento sarebbe «la continuazione della guerra imperialistica». Ma forse è proprio lo scontro verbale tra Lenin e Kerenskij a spostare l'ago della bilancia. Il duellante bolscevico propone di arrestare centinaia di imprenditori in quanto tali. Il duellante laburista sale sul palco subito dopo per opporsi. E Lenin abbandona platealmente la sala. In quest'atmosfera altamente drammatica «il "Soviet" scivola il primo passo sulla via dell'offensiva "considerandola una questione puramente strategica"». In seguito, Lenin e i bolscevichi verranno accusati di disfattismo: «Ma Repington, il freddo critico militare inglese, aveva scritto che "l'offensiva non può essere l'effetto di una improvvisazione o di qualche impulso generoso, ma richiede una minuta lunga preparazione, una grande disciplina, uno Stato Maggiore allenato, un ordine perfetto nelle retrovie, le comunicazioni assicurate"» (ADL 18.8.1917). Per inciso, il problema delle comunicazioni, cioè la netta superiorità austro-germanica nell'uso di questa tecnica, costerà all'esercito italiano, proprio in questi un secolo fa, lo sfondamento di Caporetto. La Caporetto di Kerenskij avviene attraverso la Galizia e l'Ucraina causando una ritirata di 240 chilometri: «Il grande e tragico errore è stato commesso, appunto, dall'impulso non generoso, ma folle del Kerensky», osserva Rainoni: «La compagine ministeriale era già scossa dalle radici dagli aspri contrasti sulla riforma agraria, sulla proclamazione della repubblica, sull'elezione per la Costituente. Troppo forte fu la spinta del Lenin provocando pubbliche manifestazioni armate durante una situazione militare artificiosa e fragile, che doveva essere prima o poi rotta dalle truppe del Kaiser» (ADL 18.8.1917). E la conclusione è che Kerenskij «è la prova vivente che le idee vaghe e le esplosioni frasaiuole sono, se riescono a imporsi, una grande rovina per le nazioni rivoluzionarie». Ormai, la rivoluzione russa è quasi perduta. Potrà salvarsi solo se muterà strategia in senso difensivistico. A tale scopo sarebbe necessaria, però, la formazione di un nuovo governo fondato sull'alleanza di tutti i socialisti, dai massimalisti ai minimalisti, sostiene Rainoni. (22. continua) |
FONDAZIONE NENNI http://fondazionenenni.wordpress.com/
Anna Frank, l'Olimpico e un morbo che infetta il Paese di Antonio Maglie La vicenda degli adesivi di Anna Frank con la maglia della Roma che gli autori (cioè un gruppo ultras sotto diversi aspetti, anche politici, della Lazio, hanno affisso nella curva Sud aperta, in maniera molto originale, al prezzo di un euro a poltroncina a tifosi che non sarebbero dovuti entrare allo stadio) ha riaperto un dibattito ipocrita. Siamo razzisti? Siamo anti-semiti? Ovviamente, prevale la risposta negativa: italiani come sempre nei secoli, brava gente, nonostante qualche macchia scura sulla nostra coscienza storica, che so gli stermini del generale fascista Rodolfo Graziani in Libia o le leggi razziali volute da Mussolini in ossequio al suo alleato Hitler e che portarono alla persecuzione di tantissimi ebrei nostri connazionali, molti dei quali avviati verso tristemente famosi campi di sterminio. Ma si sa, italiani brava gente e, per giunta, dalla memoria cortissima. C'è chi, per interesse, come il presidente della Lazio, Claudio Lotito, dice che in fondo gli autori sono solo quattro ragazzini a caccia di visibilità. Il fatto è che le cose non stanno così e che il problema esploso tanto rumorosamente, è la spia di un malessere più generale. Diciamolo con chiarezza: i razzisti sono tra di noi e gli antisemiti anche. E sarebbe sciocco pensare che la loro presenza si limiti agli stadi. Gli stadi sono il palcoscenico, la "vetrina". Quel che spesso sfugge ai raffinati interpreti della realtà italiana è che il calcio, nella sua apparente banalità, è nel nostro Paese più che altrove, una sorta di laboratorio socio-politico che anticipa i fenomeni e, nel momento in cui assumono caratteri più generali, li accompagnano. Il leghismo nella sua forma originaria anti-meridionalistica e secessionistica cominciò a emergere nelle curve degli stadi del Nord agli inizi degli anni Ottanta con invocazioni rivolte al Vesuvio invitato a "lavare" con il fuoco i napoletani, veri e propri archetipi dell'uomo meridionale. È dalla fine degli anni Novanta che si parla di saldature politiche tra i gruppi di destra nel nome di "Eupalla" (sostantivo caro a Gianni Brera); i saluti fascisti, le croci celtiche, l'urlo "duce, duce" spesso accompagnano le esibizioni che si svolgono sul terreno di gioco insieme ai "buuuh" nei confronti dei giocatori di colore e a un campionario di insulti che anni fa indussero il calciatore, all'epoca del Milan, Kevin Prince Boateng, a interrompere una partita (era un'amichevole e il dettaglio aggiunge solo degrado culturale a degrado). Lo stadio anticipa, non inventa. Molte delle rivolte che si sono verificate nelle periferie di diverse città italiane (a cui hanno partecipato attivamente anche gli "eroi da curva" mescolati agli agitatori di professione di noti gruppi di destra) o in piccoli centri e attribuite al fastidio determinato da una immigrazione possente per flussi e sregolata per modi, non è che siano state alimentate da pulsioni solidaristiche, semmai sono state arricchite da insofferenze razziali. Se tutto questo veniva in qualche maniera, sino a una ventina di anni fa, occultato da quella che alcuni, spregiativamente, consideravano una logica politically correct e che altro non era, invece, che la tenuta di alcuni valori ancora abbastanza radicati nell'animo nazionale, adesso si manifesta con chiarezza: in uno stadio, in una metropolitana o in quartiere dormitorio, poco importa. L'impasto tra una predicazione politica che demagogicamente raccatta consensi scaricando sugli altri, sui "diversi" da noi "italiani" (elevati a simboli di una purezza razziale che non abbiamo mai avuto) la responsabilità delle nostra sofferenze e lo sdoganamento di posizioni che ai principi democratici si sono avvicinate solo parzialmente o per nulla, sta producendo un cortocircuito che potrebbe avere sulla nostra vita di comunità un impatto devastante. L'idea che il nazismo e il fascismo (con il corollario di razzismo e antisemitismo) sia roba vecchia, da noiosi libri di storia perché ormai son passati più di settant'anni da allora e le cose non possono ripetersi, affascina ampi settori delle giovani generazioni; la democrazia con i suoi principi di convivenza pacifica e rispetto degli altri, di chiunque altro, viene considerata un dato ormai acclarato; l'antifascismo che è stato un sentimento essenziale per la tenuta di questo Paese in momenti durissimi (gli Anni di Piombo, ad esempio) viene oggi vissuto come un reperto archeologico, qualcosa che semmai si conserva in un museo ma di cui nella vita quotidiana si può fare tranquillamente a meno. È in questo vuoto terribile che si inseriscono episodi come quelli dell'Olimpico e che vanno decisamente al di là del recinto specifico (in questo caso, calcistico) in cui si manifestano. Il fatto è che mancano i maestri mentre purtroppo abbondano i "pessimi maestri". |
Da CRITICA LIBERALE riceviamo e volentieri pubblichiamo http://www.criticaliberale.it/news/237256 Per un Risorgimento Meridionale Contro le falsificazioni della Storia. Contro le nostagie di un eden borbonico mai esistito. Contro una classe dirigente che scarica sul passato le proprie responsabilità. Per una conoscenza autentica del Risorgimento meridionale. Per un nuovo Meridionalismo. Per un Sud Mezzogiorno d'Europa. Il 18 ottobre 1794 venivano giustiziati mediante impiccagione, per ordine del paterno governo borbonico, in piazza Castello a Napoli, Emanuele De Deo, Vincenzo Galiani e Vincenzo Vitaliani, rei di stato per aver "seminato nel popolo" le idee di libertà e di uguaglianza. Iniziava così il Risorgimento italiano. Ricordare il sacrificio dei giovani patrioti repubblicani meridionali oggi vuol dire respingere tutte le letture distorte e le falsificazioni che vogliono ridurre il Risorgimento a mera conquista regia dei Savoia a discapito degli altri Stati italiani, ad un evento diplomatico e militare, favorito da fantomatiche cospirazioni internazionali. Vuol dire riaffermare il carattere di rivoluzione politica e culturale del Risorgimento. Una rivoluzione che ha avuto il suo prezzo, come tutte le rivoluzioni, ma senza la quale non avremmo mai avuto la moderna nazione italiana, libera, democratica, repubblicana, aperta all'Europa, voluta da Mazzini e Garibaldi Una rivoluzione di cui il Sud non è stato spettatore passivo o peggio ancora vittima sacrificale, ma protagonista attivo. Vuol dire rivendicare l'attualità della Rivoluzione napoletana del 1799, dei moti del 1820-21 e del 1848, del sacrificio di Carlo Pisacane,dell'impresa garibaldina che vide partecipare decine di migliaia di meridionali a fianco dei volontari provenienti da tutta Italia e non solo, delle molteplici anime del Meridionalismo, della tradizione democratica mazziniane e garibaldina dei Bovio, dei Colajanni, degli Imbriani – del Secondo Risorgimento – la Resistenza – che ebbe nelle quattro giornate di Napoli uno dei suoi momenti più alti di partecipazione corale e popolare. Vuol dire ribadire la necessità di un Meridionalismo rinnovato, che si ricolleghi alle proprie radici illuministiche, risorgimentali e democratiche, la cui latitanza ha consentito il diffondersi di un sudismo piagnone e vittimista. Facciamo quindi appello all'opinione pubblica, alla società civile e al mondo culturale meridionali e italiani perché rifiutino la logica rituale della rievocazione di una memoria che, in quanto tale, non può che essere soggettiva e di parte ed altro non è oggi che l'alibi per classi dirigenti incapaci, pronte a scaricare sul passato la responsabilità dei propri fallimenti e – respingendo le suggestioni di un Sud folcloristico che altro non fa che riproporre riverniciati a nuovo tutti i più vieti stereotipi sul Mezzogiorno – animi una nuova stagione culturale di ricerca e di dibattito che, a partire dalla riscoperta autentica del Risorgimento meridionale in tutta la sua complessità, sappia imporre nuovamente la questione meridionale come grande questione nazionale, immaginando un Sud Mezzogiorno d'Europa, lontano da ogni chiusura identitaria e da ogni nostalgia reazionaria. Annita Garibaldi Jallet (Associazione Garibaldini) Mario Di Napoli (Associazione Mazziniana Italiana) Clicca qui per aderire al Manifesto |
L'AVVENIRE DEI LAVORATORI EDITRICE SOCIALISTA FONDATA NEL 1897 Casella postale 8965 - CH 8036 Zurigo L'Avvenire dei lavoratori è parte della Società Cooperativa Italiana Zurigo, storico istituto che opera in emigrazione senza fini di lucro e che nel triennio 1941-1944 fu sede del "Centro estero socialista". Fondato nel 1897 dalla federazione estera del Partito Socialista Italiano e dall'Unione Sindacale Svizzera come organo di stampa per le nascenti organizzazioni operaie all'estero, L'ADL ha preso parte attiva al movimento pacifista durante la Prima guerra mondiale; durante il ventennio fascista ha ospitato in co-edizione l'Avanti! garantendo la stampa e la distribuzione dei materiali elaborati dal Centro estero socialista in opposizione alla dittatura e a sostegno della Resistenza. Nel secondo Dopoguerra L'ADL ha iniziato una nuova, lunga battaglia per l'integrazione dei migranti, contro la xenofobia e per la dignità della persona umana. Dal 1996, in controtendenza rispetto all'eclissi della sinistra italiana, siamo impegnati a dare il nostro contributo alla salvaguardia di un patrimonio ideale che appartiene a tutti. |
|