L'AVVENIRE DEI LAVORATORI La più antica testata della sinistra italiana, www.avvenirelavoratori.eu Organo della F.S.I.S., organizzazione socialista italiana all'estero fondata nel 1894 Sede: Società Cooperativa Italiana - Casella 8965 - CH 8036 Zurigo Direttore: Andrea Ermano > > > PDF scaricabile su http://issuu.com/avvenirelavoratori < < < e-Settimanale - inviato oggi a 45964 utenti – Zurigo, 8 dicembre 2016 |
VERSO LA PAUSA DI FINE ANNO Con il prossimo numero la Newsletter dell’ADL, inizierà la consueta pausa di fine anno, durante la quale si procederà anche ai necessari aggiornamenti tecnici del servizio. - La red dell’ADL |
IPSE DIXIT Golpisti per raglio - «Ben ha fatto il Presidente della Corte Costituzionale a fissare per il 24 gennaio 2017 l'udienza di discussione delle tre ordinanze sull'Italicum. Spero che questa data ponga fine ai tentativi irresponsabili, o irrispettosi della Corte Costituzionale e delle prerogative presidenziali, di andare a votare prima della pronuncia della Consulta. Non capisco se si tratta di nemici dell'ordinamento democratico costituzionale o di golpisti per ignoranza». – Felice Besostri
Felice Besostri dopo un'udienza alla Consulta per l'abrogazione del Porcellum |
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EDITORIALE Ma il Sì avrebbe vinto a fronte di una revisione meno raffazzonata Ci sono state due specie di No, l'una "contro il Governo", l'altra "a salvaguardia della Costituzione", seriamente minacciata dal combinato disposto tra l'Italicum e la revisione Renzi-Boschi. di Andrea Ermano Sei votanti contro quattro hanno detto No. Ma se la revisione Renzi-Boschi fosse stata concepita in modo meno raffazzonato è lecito ritenere che i rapporti di forza risulterebbero ora rovesciati. E che sei contro quattro avrebbero detto Sì. Questo traspare con evidenza dalle motivazioni del No che, rilevate negli exit poll, sono di due tipi. 1) Il No ha vinto "contro il Governo Renzi" perché l'Italia che soffre, nel Mezzogiorno e nel resto del Paese, era stufa di annunci. 2) Il No ha vinto "a difesa della Costituzione" perché la revisione era, tecnicamente parlando, una "puttanata", come l’ha definita Massimo Cacciari, il quale pure aveva invitato a votare Sì. Dato importante: dalle rilevazioni emerge nettamente che due terzi dei No (cioè circa il 40% dei voti espressi) s'intendevano rivolti per protesta "contro il Governo", mentre un terzo dei No (cioè il 20% dei voti circa) era motivato da una seria preoccupazione di merito "a difesa della Costituzione". È logico assumere, dunque, che i No espressi "a difesa della Costituzione", ove fossero stati posti di fronte a un disegno di riforma più sensato e non pericoloso, si sarebbero tramutati in Sì, rovesciando l'esito del referendum. Da ciò consegue sul piano politico che, nonostante l'assordante raglio grillo-padano contro la coalizione di centro-sinistra e la Consulta, "solo" un 40% dei votanti ce l'ha con la maggioranza di governo. La quale esce, certo, ammaccata dalle urne, ma non delegittimata. Mentre il verdetto referendario suona più severo per il premier Renzi, giovane e simpatico, ma troppo divisivo e forse un po' carente in accuracy.
Zurigo, 1° maggio 1936 - Manifestazione di antifascisti italiani Ancora: sei votanti su dieci hanno detto No a una revisione costituzionale approvata da circa sei parlamentari su dieci. Quest'asimmetria accade a una coalizione parlamentare che è "maggioranza" solo grazie al Porcellum. Provate, però, ad addizionare il consenso del 3,5% accreditato ad Alfano con le percentuali (in voti e non in seggi) raccolte da Pd e dai Centristi alle politiche del 2013. Guarda caso, otterrete una somma intorno al 40-41%, sulla quale si sono attestati domenica scorsa i fautori del Sì. Il che ci aiuta a capire quanto tremendamente fragili fossero le basi legittimatorie di una revisione portata avanti a colpi di minoranza giacobina dentro un Parlamento di "nominati". La "quistione principale" (come dice Formica) è che certe leggi elettorali aprono porte e portoni a perigliose forzature costituzionali. Ripercorriamo brevemente le tappe della vicenda. Dopo la "non vittoria" alle politiche del 2013, Bersani è costretto a dimettersi in seguito a un’imboscata di Palazzo alla quale sono tutt’altro che estranei i "renziani". Renzi stesso, già battuto da Bersani alle primarie (contendibili) del 2012, rincomincia la scalata alle nuove primarie (non più contendibili) e diventa segretario del Pd, con l’aiuto dei poteri forti: è il 15 dicembre 2013. Un mese dopo, il 14 gennaio 2014, la Consulta boccia il Porcellum. Ma tre giorni più tardi Renzi stipula con Berluconi l’accordo del Nazareno, finalizzato a sostituire il Porcellum con l’Italicum, una fotocopia. Così il "potere di nomina" resta in mano ai capi-partito. Passa un altro mese e il neo-segretario del PD scalza Letta da Palazzo Chigi, subentrandogli. Di qui in poi il premier Renzi avvia un ampio rimaneggiamento della Costituzione "a colpi di maggioranza", combinato con l’approvazione dell’Italicum "a colpi di fiducia". La cavalcata ussara del giovane premier prosegue tra attacchi al sindacato, ammiccamenti a Marchionne, rottamazioni con sberleffo e annunci di grandi miglioramenti futuri in tutti i campi. Passano le settimane, i mesi e le primavere che – come diceva un antico poeta lirico – portano con sé "grandi fioriture, ma si mangia poco" e gli annunci si moltiplicano in un'escalation parossistica. Fin qui niente che non si sia già visto. Ma lentamente, dietro il gran polverone, emerge un punto pericoloso, molto pericoloso, per la democrazia nel nostro Paese: il combinato disposto tra revisione costituzionale e Italicum.
Genova, Piazza Matteotti, 25 Aprile 2015 Per intuire quanto questo "combinato disposto" fosse davvero pericoloso, basta la doppia svolta inaugurata da Beppe Grillo in questi giorni, all'indomani del voto referendario. Adesso il M5S potrebbe anche stipulare delle alleanze, ha detto: alleanze con la Lega e con le destre, mai con il Pd. E quanto all'Italicum, adesso andrebbe bene. Anzi, bisognerebbe estenderlo anche al Senato. Per poi correre verso elezioni anticipate. Perché correre? Perché, lo dicono gli opinionisti, Grillo lo vuole, la Lega lo vuole, Dio lo vuole… Evvia – cari amici opinionisti un tanto al chilo – a chi credete di darla ancora a bere, codesta narrazione neo-futurista d'accatto, dopo un quarto di secolo di scassinamenti istituzionali targati "Nuovo Che Avanza"?! Con l'Italicum tuttora in vigore, la cosa più probabile sarebbe un ballottaggio tra Pd e M5S alle prossime politiche, nel quale ballottaggio i grillini vengono dati vincenti. Ma qui inizierebbe una cavalcata ussara di nuovo tipo. Un movimento populista sostenuto da meno di un terzo degli italiani, privo di strutture democratiche interne, eterodiretto da un'opaca agenzia di comunicazione e comandato da un solo uomo, avrebbe in mano la Camera dei Deputati. Se la "puttanata" fosse passata, avrebbe in mano tutto il Parlamento… E allora ci mancava soltanto che domenica scorsa si fosse anche approvata la revisione costituzionale Renzi-Boschi. Perché, con la conseguente riduzione a 100 membri del "nuovo" Senato sarebbe automaticamente discesa a 366 seggi anche la maggioranza necessaria a mettere "in stato accusa" il Presidente della Repubblica di fronte al "Parlamento in seduta comune" (Art. 90 Cost.). Riflettiamo: se 366 parlamentari sarebbero bastati per destituire l'inquilino del Quirinale, l'Italicum ne garantisce già 340 grazie al solo premio di maggioranza, senza contare deputati eletti nella Circoscrizione Estero e i transfughi che non mancano mai. Sicché, a norma della Renzi-Boschi, sarebbe bastato aggiungere al premio di maggioranza della Camera un paio di sindaci e una ventina scarsa di "nuovi" senatori tra i 100 nominati dai consigli regionali per togliere di mezzo il Capo dello Stato. A individuare la virulenza di questo anello debole (non l'unico) nella revisione Renzi-Boschi è stato Felice Besostri, avvocato socialista che qui vorremmo permetterci di definire un benemerito della democrazia italiana in quanto protagonista prima della battaglia contro il Porcellum e ora coordinatore dei ricorsi in discussione contro la legge elettorale del governo Renzi. Riassumiamo: il vincitore populista di una prossima tornata elettorale avrebbe avuto in mano una mega facility per la destituzione del Capo dello Stato! Non solo: al Presidente destituito, la revisione Renzi-Boschi avrebbe fatto subentrare il/la Presidente della Camera, anch’esso/a in mano alla maggioranza di "un uomo solo al comando". E, a quel punto, tolto di mezzo l'alto garante della Costituzione, un plebiscito per l'uscita dell'Italia dall'Euro (o contro l'UE, o peggio) avrebbe avuto la strada spianata. Ma lo stesso dicasi per eventuali decisioni sullo stato di guerra, come faceva notare il generale Fabio Mini (vai all'intervista su MicroMega). Fortunatamente, nulla di tutto questo avverrà, dato che la revisione Renzi-Boschi è stata rigettata dal popolo sovrano e dato che l'Italicum vale solo per la Camera, mentre il Consultellum in vigore per il Senato esclude, quanto meno nel breve periodo, la possibilità di vedere la Repubblica messa in mano all'uomo forte. Insomma, l'abbiamo scampata bella. |
FONDAZIONE NENNI http://fondazionenenni.wordpress.com/ Presentazione del volume di: Giuseppe Tamburrano La sinistra italiana 1892-1992 Bibliotheka edizioni Roma, Biblioteca del Senato, Sala degli Atti parlamentari, Giovedì 15 dicembre 2016, ore 10 Ne discutono con l'autore: Emanuele Macaluso, Riccardo Nencini, Giuseppe Vacca, Lucio Villari, Sergio Zavoli. Sarà presente: Giorgio Napolitano, Presidente emerito
Vecchi socialisti - Napolitano con Tamburrano e Pirani a un convegno su Pietro Nenni (Roma, Monte Citorio, 2010) |
SPIGOLATURE Ed è subito sera. di Renzo Balmelli RICADUTE. Evocare lo scollamento tra politica e società è talmente ovvio da non trovare, paradossalmente, nulla di meglio da aggiungere per provare a decifrare la confusione che ci circonda. Nell'intreccio di situazioni sempre più complesse, persino Diogene con la sua filosofica saggezza e il suo mitico lanternino, farebbe fatica a rischiarare la scena. I nervi sono a fior di pelle e l'eccitazione spasmodica, enfatizzata dalla rete, che ha contrassegnato la Brexit, l'elezione di Trump e in ultima analisi anche il referendum italiano, ne è d'altronde una dimostrazione eloquente. I vecchi schemi sono saltati e quelli nuovi sono come certe idee: pochi, ma confusi. Ovunque, nei luoghi in cui il disagio sociale coniugato alla rabbia si rivolta contro la casta e non pare più disposto a fare sconti, prevale la sensazione – e qui chiediamo venia a Quasimodo per l'indebita citazione – che sia subito sera. Anzi, notte. DIGA. Avrebbe dovuto essere la marcia funebre dell'Europa. Dal Danubio, ancora blu nonostante l'inquinamento, sono sgorgate invece, tra il sollievo generale, le immortali melodie di Strauss. La slavina populista che minacciava di trasformarsi in una valanga capace di contagiare e travolgere i valori di libertà, uguaglianze e solidarietà che stanno alla base dell'Unione si è fermata davanti alla solida diga eretta dagli elettori di un Paese che a dispetto dei cattivi profeti ha deciso di restare europeista. La vittoria per la presidenza dell'ecologista Van der Bellen ha inoltre evidenziato che la battaglia contro l'estrema destra si può vincere anche se sarà lunga e difficile. Difatti la partita non si è chiusa il 4 dicembre. Dai ranghi dello sconfitto, l'ultra nazionalista Hofer, già si levano propositi di rivincita che guardano al futuro con l'intento di riportarci al passato. Per intanto prendiamo atto con soddisfazione dello smacco inferto alle forze reazionarie e intolleranti, augurandoci che il verdetto delle urne non sia una fugace eccezione. INCOGNITE. Il referendum è alle spalle. E adesso? Oggi, domani, fra un mese, fra un anno? Sono capitoli tutti da scrivere senza sapere come. Al netto dei passi falsi di Renzi, per i quali si è ormai esaurito il breviario dei commenti, dei possibili scenari e della satira pungente, l'impressione è che il dado, in assenza di una leadership credibile e nella prospettiva di frettolose elezioni anticipate, sia tornato alla casella di partenza in un clima carico di incognite. Se "del doman non v'è certezza", un punto fermo comunque c'è. La grande affluenza ha reso evidente il fatto che la gente, attraverso la democrazia referendaria, sa di poter disporre di uno strumento col quale partecipare, farsi sentire e ottenere udienza per i problemi quotidiani. Che non son pochi. Le ultime statistiche dicono che un italiano su quattro è a rischio povertà, che il divario tra ricchi e poveri continua a crescere e che l'emigrazione aumenta di giorno in giorno. Come si vede l'emergenza è altrove, e l'avere caricato di toni apocalittici e plebiscitari la riforma costituzionale è stato un errore fatale. A questo punto l'esigenza di una sinistra coesa, meno litigiosa e meno condizionata da mai sopiti rancori personali, diventa un fattore fondamentale per uscire dal labirinto e sgombrare il campo da antipatici equivoci. Si può infatti supporre che qualche dolorino di pancia sia stato avvertito in seguito alla corposa minoranza del NO in casa Pd che pur con argomenti legittimi e di ben altro spessore ha finito comunque col trovarsi , sicuramente senza averlo ne voluto ne cercato, sullo stesso carro di Salvini e Grillo che scalpitano per entrare nella stanza dei bottoni. Magari con una strategia condivisa sarebbe stato meno arduo affrontare le sfide che si affacciano all'orizzonte proprio ora, in una fase in cui un brutto vento di destra soffia su tutti i Paesi del mondo e l'Europa, che deve poter contare sul ruolo di un' Italia stabile, si trova ad affrontare la più insidiosa delle sue crisi. ESAMI. Diffidiamo dei sondaggi, d'accordo. Ma qualche considerazioni di carattere generale si può comunque fare nella prospettiva degli esami elettorali che agitano l'Europa in vista delle scadenze programmate l'anno prossimo. Ma come? Nelle valutazioni dei media internazionali balza subito all'occhio il fatto che i due maggiori leader di centro sinistra, Renzi e Hollande, hanno già dato o stanno dando addio alle loro cariche con onestà non usuale che però suona come un un gesto di resa. In Francia, con la sinistra indebolita, Marine Le Pen viene persino data in vantaggio anche rispetto al candidato repubblicano Fillon, mentre in Germania Angela Merkel , eletta con qualche punticino in meno per la sua nona presidenza alla guida della CDU, dovrà stringere i denti per limitare i danni nel momento in cui l'onda populista e la scalata del partito di estrema destra si fa vieppiù inquietante. Su questo panorama ben poco rassicurante troneggia la figura di Trump che se già ne combina di tutti i colori adesso, chissà cos'altro avrà in serbo quando sarà il proprietario unico di un micidiale arsenale atomico da fare impallidire il dottor Stranamore. Per scongiurare l'insonnia non resta che confidare nell'effetto benefico della cara, vecchia Austria riscopertasi un pochino "felix" in un ritrovato contesto liberale e cosmopolita. Finché dura! ORELLI. Alla lingua e alla letteratura italiana in Svizzera che non di rado deve sgomitare per avere lo spazio che le compete, è venuto a mancare un interprete di primissimo piano. Nella città di Lugano, dove ha trascorso gran parte della sua vita, si è spento a 88 anni, Giovanni Orelli, scrittore, poeta, saggista e alfiere di " un allegro espressionismo", come amava definirsi, contrassegnato da un grande rigore morale e intellettuale. Politicamente impegnato a sinistra, per decenni Orelli, laureato in filologia a Milano, professore e umanista , ha marcato il mondo politico e culturale della Confederazione. E non solo. Sia per gli studi universitari, sia per la consapevolezza di essere sospeso tra due realtà diverse, ha sempre avuto l'Italia nel cuore. L'Italia, il Paese che considerava depositario della sua lingua e cultura di appartenenza. Della sua passione per Dante e Montale e di tanti altri nomi parlò diffusamente nel corso di una memorabile serata letteraria al Coopi di Zurigo in cui diede al pubblico un saggio, frizzante come l'aria delle montagne in cui era nato , della sua biografia di uomo e di autore. Biografia, disse in una intervista apparsa sulla rivista di Pro Helvetia, deducibile "dai non pochi libri che ho letto". E dai non pochi che ha scritto e che gli sono valsi, tra tanti riconoscimenti, anche il Gran Premio Schiller per l'insieme della sua produzione che costituisce oggi uno straordinario patrimonio di cultura. |
LAVORO E DIRITTI a cura di www.rassegna.it Sinopoli (Flc-Cgil): "La conoscenza è l'ultimo argine alle disuguaglianze" Con Francesco Sinopoli, neoeletto segretario generale della Flc-Cgil, facciamo il punto sulle sfide che attendono nel prossimo futuro la categoria. “Il disastro della Buona scuola è sotto gli occhi di tutti. È ora di invertire la rotta”. di Maurizio Minnucci “È ora di invertire completamente la rotta. L'investimento nell'istruzione e nella ricerca è l'elemento fondante dello sviluppo. Veniamo da anni in cui la retorica ufficiale lo ha sempre sostenuto, ma solo a parole: una tendenza in atto prima della crisi e che negli ultimi anni si è addirittura drammatizzata, sia in Italia sia negli altri Paesi che hanno sperimentato le dure politiche di austerità, cioè proprio là dove ci sarebbe più bisogno di investire sulla conoscenza. Se aggiungiamo che dal 2008 si è imposta una visione ideologica secondo cui al nostro mondo serve la competizione fra strutture e fra lavoratori, il quadro completo. Anche su questo serve un cambio di passo”. Ecco le sfide che attendono negli anni a venire la Flc Cgil e il suo nuovo segretario generale, Francesco Sinopoli. Con una premessa: “Vogliamo un modello di istruzione che consideri la formazione un diritto delle persone”. Rassegna: Partiamo dalla “Buona scuola”. Secondo alcuni, Renzi è caduto anche per questa riforma e lui stesso pare esserne consapevole. Del resto, nel suo discorso da premer dimissionario, nel citare i provvedimenti del governo – e ne ha citati molti – non ne ha fatto cenno. Una semplice dimenticanza? Sinopoli: Avevamo ragione noi. È stato un errore macroscopico. Un fallimento che sta producendo grandi danni alla scuola e alle persone che ci lavorano. Lo conferma il voto del 4 dicembre in cui la scuola si è espressa con chiarezza. Adesso mi auguro che ci siano le condizioni per alcune modifiche: i primi atti dopo il referendum dovranno essere all'insegna della consapevolezza degli errori fatti e già nella legge di stabilità qualcosa si può fare. Non dimentichiamo che sono state raccolte 500 mila firme per cancellare quella legge, mi sembra un “sondaggio” abbastanza attendibile. In ogni caso, noi restiamo in campo con forza per sterilizzarne l'applicazione. Veniamo all'università, dove i ricercatori non sanno più come tirare avanti... Contro l'università è stata organizzata una battaglia epocale e ideologica che ha preparato il terreno alla sottrazione progressiva di risorse, sostenendo l'idea ridicola che in questo Paese ci sono soltanto alcune eccellenze e tutto il resto deve andare al macero. I ricercatori ovviamente ne fanno le spese, le loro condizioni sono quelle che ben conosciamo. Quello che serve è un piano straordinario di reclutamento, sono stati espulsi migliaia e migliaia di precari in questi anni. Quantifichiamo? Occorre recuperare immediatamente un miliardo di euro per il fondo ordinario. E anche se nell'ultimo periodo finalmente c'è il segno più, resta il problema di come utilizzare le poche risorse. Perché se anziché valorizzare le strutture e poi individuare investimenti aggiuntivi, si decide di favorire soltanto presunte eccellenze, si commette un grave errore. Ciò di cui abbiamo bisogno, invece, è un grande investimento sulle infrastrutture, il vero driver dello sviluppo in grado di colmare i divari territoriali. Vale per le università così come per gli enti pubblici di ricerca: non effetti speciali, è sufficiente un investimento mirato. Rimettendo insieme i tasselli, tra scuola e università, sembra che ci sia un preciso disegno dietro a tutti questi provvedimenti. È così secondo te? Alla base c'è l'ideologia neoliberale po' rimasticata applicata ai settori dell'istruzione, già sperimentata tanti anni fa in Inghilterra e non solo, veicolata poi in Italia attraverso i provvedimenti adottati negli anni della crisi. Da ultimo, la “Buona scuola” che favorisce un'insensata competizione tra istituti e, attraverso il meccanismo dei bonus, esercita una fortissima pressione sugli insegnanti con una visione manageriale povera. Per quanto riguarda l'università, lo accennavo, accade la stessa cosa: la legge 240 indebolisce gli organi di autogoverno e rafforza il potere unilaterale della dirigenza. In altre parole, concentrazione dei poteri da un lato, impoverimento degli spazi di partecipazione democratica dall'altro. Eppure le nostre strutture dovrebbero avere una governance naturalmente connotata dal punto di vista democratico: la libertà d'insegnamento è garantita dalla Costituzione. Cosa significa in termini concreti ridimensionare il mondo della conoscenza, quali rischi si corrono? La missione fondamentale per le istituzioni della conoscenza è garantire il diritto individuale alla formazione. Ma c'è anche un diritto collettivo da tenere presente, cioè il ruolo che la conoscenza ha come strumento di emancipazione per la società. E soprattutto, come argine al dilagare delle disuguaglianze. Invece, gli interventi legislativi fanno l'esatto contrario, le amplificano, tanto da chiudere alcuni atenei del Mezzogiorno, cosa che non c'entra nulla con la crisi. Dal punto di vista degli investimenti è emblematico come le risorse vadano nelle zone già avvantaggiate attraverso meccanismi fintamente tecnici. Dobbiamo invertire la rotta e costruire un progetto che restituisca a queste istituzioni la loro funzione sociale fondamentale, con le risorse che servono. C'è poi il tema della condizione dei lavoratori… Dopo nove di anni blocco della contrattazione e di applicazione di queste “cure”, c'è bisogno anzitutto di recuperare spazi di negoziazione a partire dal rinnovo dei contratti. Non è solo lo strumento per una retribuzione dignitosa, si parla anche di organizzazione del lavoro, sviluppo professionale, formazione: tutte materie che devono tornare oggetto di contrattazione. Com'è il rapporto della Flc con l'associazionismo e gli studenti? Abbiamo sempre avuto grande attenzione a questo mondo: la battaglia sulla legge 107, in cui il sindacato è stato un punto di riferimento e un interlocutore, lo dimostra. Dobbiamo continuare a mantenere queste relazione, abbiamo in mente un'organizzazione che guarda anche fuori da se stessa. E con gli altri sindacati del settore? Negli della crisi l'unità sindacale è stata un elemento di grande valore. È qualcosa da ricercare faticosamente, ma quando la si trova, poi ripaga tutti gli sforzi. Penso che dobbiamo puntare a convergenze più avanzate con le altre organizzazioni sindacali. Un'ultima domanda sul mondo dei Conservatori. Sembra che almeno qui qualcosa si stia muovendo... Finalmente sì. L'Afam aspettava da anni una vera riforma. Adesso siamo di fronte a un disegno di legge con alcuni avanzamenti, sebbene siano necessari dei correttivi. Certo, la situazione in cui è finito il governo non aiuta. Ci auguriamo quindi che il Parlamento si assuma le proprie responsabilità, anche perché c'è un'emergenza precari da gestire. Credo poi che, rispetto al passato, dobbiamo avere maggiore attenzione verso i settori privati del mondo della formazione professionale, che ha subito colpi durissimi, cosa che vale anche per i settori privati della conoscenza. |
ECONOMIA Un uomo Goldman Sachs al Tesoro americano La nomina di Steven Mnuchin a segretario del Tesoro della nuova amministrazione Trump non è certamente un segnale positivo in rapporto al rafforzamento di politiche sociali negli USA. di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi) e Paolo Raimondi, Economista Noi l’abbiamo paventato in un articolo scritto due settimane fa. Mnuchin è un rampollo della Goldman Sachs, la banca numero uno della grande speculazione. Anzi, si potrebbe dire che vi è ‘nato dentro’: il padre Robert ne è stato partner per ben 30 anni; Steven vi ha lavorato per 17 anni, fino al 2002, arrivando a gestire il delicato settore dei titoli di stato, delle obbligazioni e delle ipoteche immobiliari. In questo periodo Mnuchin ha collaborato anche con il Fund Management di George Soros, il megaspeculatore tristemente noto in Italia per i suoi "assalti" contro la lira nel 1992-93, che misero in ginocchio la nostra moneta. Nel 2004, dopo l’esperienza alla GS, il futuro segretario del Tesoro si mise in proprio creando un suo hedge fund speculativo, il Dune Capital Management, uno di quelli che sono stati spesso chiamati "fondi avvoltoio". Ha partecipato ai progetti di investimento immobiliare di Trump e investito anche in Hollywood e nella produzione di alcuni film di cassetta. Sono stati gli anni della deregulation e della grande abbuffata speculativa che hanno creato la bolla finanziaria e quella dei mutui subprime scoppiate nel 2008 con il fallimento della Lehman Brothers. Per meglio capire le idee e il modus operandi di Mnuchin, è importante analizzare la sua decisione di comprare, nel 2009, la banca di credito immobiliare IndyMac dopo il suo fallimento. Perché si compra una banca fallita? Per fare soldi con simili investimenti occorre essere molto furbi e senza scrupoli. La sua furbizia fu nella clausola imposta all’agenzia statale venditrice, la Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), di "condivisione delle perdite", qualora eventuali mutui e titoli acquisiti fossero diventati inesigibili. Nel contempo con aggressiva determinazione parecchie migliaia di famiglie, incapaci di pagare i mutui accesi, furono messe alla porta e le loro case acquisite dalla banca, che nel frattempo aveva cambiato nome in OneWest Bank. Per Mnuchin è stato un grande affare: la FDIC nel frattempo versa 1 miliardo di dollari per la parte dei crediti inesigibili e la vendita successiva della OneWest nel 2015 frutta 3,4 miliardi di dollari, il doppio del prezzo d’acquisto. Evidentemente gli insegnamenti acquisiti alla Goldman Sachs sono stati molto utili e fruttuosi per il futuro segretario al Tesoro. Perciò è opportuno ricordare che, in rapporto alla crisi finanziaria americana e globale, la GS è stata oggetto di approfondite indagini da parte di due commissioni bipartisan, una del Senato americano e l’altra indipendente, ma formata da esperti nominati dal Partito Democratico e da quello Repubblicano. La Commissione del Senato, denunciando l’operato delle grandi banche americane, in primis la GS, ha scritto:"E’ stata una distruzione fino alle fondamenta del sistema finanziario". Persino Trump durante la campagna elettorale ha denunciato i dirigenti della GS come la personificazione dell’elite globale che "ha derubato gli operai americani". Mnuchin sarebbe il terzo segretario al Tesoro che si è fatto le ossa alla Goldman Sachs. Prima di lui vi sono stati Henry Paulson con il presidente George W. Bush e Robert Rubin con il presidente Clinton. Il primo divenne famoso per avere permesso alle banche di speculare fino al crack per poi salvarle con i soldi pubblici, il secondo preparò l’abrogazione della legge Glass-Steagal di separazione bancaria. Cosa ci si può quindi aspettare dal nuovo segretario al Tesoro, se verrà confermato all’inizio del 2017 da un Congresso a maggioranza Repubblicana? In primo luogo che possa ridare mano libera alle grandi banche per operare "as usual". Si ricordi che i tentativi del presidente Obama di realizzare la riforma della grande finanza sono stati contenuti e alla fine quasi sconfitti dalla potente lobby bancaria americana. Le banche ‘too big to fail’ ora sicuramente si sentono pronte per la spallata definitiva a ogni tipo controllo sul loro operato e ad ogni tentativo di frenare le loro azioni, anche quelle speculative ad alto rischio. Ci si potrebbe chiedere se l’approccio prettamente finanziario possa entrare in collisione con il Trump imprenditore che dice di voler rilanciare gli investimenti, anche nelle infrastrutture. Non sarebbe salutare per la comunità americana, e nemmeno per il resto del mondo, se si raggiungesse un compromesso per far gestire gli investimenti alle grandi banche. |
Da Avanti! online www.avantionline.it/ Disoccupazione stabile. Nel terzo trimestre all’11,6% di Salvatore Rondello L’Istat ha comunicato i dati sull’occupazione nel terzo trimestre. Nulla di nuovo dal fronte occupazionale. Nel terzo trimestre del 2016 il tasso di disoccupazione è rimasto fermo all’11,6% rispetto al secondo trimestre proseguendo la serie di quattro trimestri consecutivi. Comparandolo allo stesso periodo del 2015 risulta aumentato dello 0,4% pari a 132.000 disoccupati. Sono stabili rispetto al secondo trimestre il tasso di occupazione al 57,3% (+0.8% sullo stesso periodo del 2015) ed il tasso di inattività al 35,1%. Rispetto al terzo trimestre 2015 il tasso di inattività si riduce di 1,2 punti percentuali. Complessivamente i disoccupati sono 2.987.000. L’occupazione, al netto dei lavoratori stagionali, è di 22.775.000 unità. Con riferimento all’offerta di lavoro, dopo cinque trimestri consecutivi di crescita, nel terzo trimestre del 2016 si registra una battuta di arresto e mostra un lieve calo rispetto al trimestre precedente (-14.000 unità pari allo 0,1%). Il dato rappresenta la sintesi della crescita dei lavoratori dipendenti (+66.000 unità pari allo 0,4%) inferiore al calo dei lavoratori indipendenti (-80.000 unità, pari a – 1.5%). L’aumento tendenziale in un anno riguarda maggiormente le donne con +189.000 unità concentrate esclusivamente tra gli over 50. A livello congiunturale rimane piuttosto stabile anche il tasso di occupazione, tuttavia, le tendenze mensili, relativi ai dati di ottobre 2016, al netto delle stagionalità, manifestano un nuovo calo degli occupati concentrato nei dipendenti a tempo indeterminato a fronte di una modesta crescita dei dipendenti a termine e della stabilità dei lavoratori indipendenti. Le dinamiche tendenziali del terzo trimestre del 2016 confrontate con lo stesso periodo dell’anno precedente portano ad una crescita complessiva di 239 mila occupati, meno accentuata rispetto a quella registrata nel secondo trimestre. Per il terzo trimestre consecutivo diminuisce, in modo più consistente, il numero degli inattivi tra 15 e 64 anni (-528 mila in un anno) ed il corrispondente tasso di inattività. Nel confronto tendenziale, la diminuzione dell’inattività è diffusa per genere, territorio, classe di età e riguarda sia quanti vogliono lavorare (-212 mila le forze di lavoro potenziali, soprattutto tra le donne) sia la componente più distante dal mercato del lavoro (-316 mila chi non cerca e non è disponibile). Dal lato delle imprese, si confermano i segnali di crescita congiunturale della domanda di lavoro, con un aumento delle posizioni lavorative dipendenti pari allo 0,6% sul trimestre precedente, associato ad una lieve riduzione delle ore lavorate per dipendente (-0,3%). Continua inoltre a diminuire il ricorso alla Cassa integrazione. L’aumento delle posizioni lavorative è una sintesi della stabilità dell’industria in senso stretto e dell’incremento dei servizi; il tasso dei posti vacanti aumenta di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali mentre è stabile su base annua. Per quanto riguarda il costo del lavoro, diminuiscono ancora gli oneri sociali (-0,6%), effetto della riduzione contributiva associata alle nuove assunzioni a tempo indeterminato. Dai dati pubblicati dall’Istat si potrebbe individuare una debole ripresa dell’attività economica nel nostro Paese con livelli tuttora inferiori alle medie dell’eurozona. Vai al sito dell’avantionline |
Da l’Unità online http://www.unita.tv/ Alla rivoluzione segue il Termidoro? La Rivoluzione in marcia. Il suo fallimento. Il Termidoro. La Restaurazione. Tutto scritto, documentato (si veda l’ottimo Storia della Rivoluzione francese di Israel da non molto uscita). Che il copione, sia pure in forma bonsai, si stia ripetendo? di Mario Lavia - @mariolavia Come sempre in situazioni convulse e incerte come sono le crisi di governo rimbomba una locuzione austera: il senso di responsabilità. Tutti la evocano. Ma c’è senso di responsabilità e senso di responsabilità: ognuno lo declina a proprio modo. C’è il senso di responsabilità dei momenti gravi, quando il Paese è sotto attacco, come negli anni Settanta. Ma nell’accezione più comune, quella che in queste ore rimbalza di bocca in bocca in Transatlantico, nei Palazzi, nelle chiacchiere di politici e giornalisti la locuzione si traduce così: il governo è caduto? E che problema c’è, se ne fa un altro. Non c’è forse la legge elettorale, le scadenze internazionali, i problemi economici eccetera eccetera? Tutto vero. Ma siccome – ecco un altra frase che piace tanto a politici e politologi – “in politica i vuoti si riempiono sempre”, niente paura, un altro presidente del Consiglio si trova sempre, un’altra compagine di governo pure, una maggioranza parlamentare figuriamoci, è uno scherzo. Discorsi molto da Prima Repubblica, quando ogni anno il governo cadeva. Allora però c’era una continuità di fondo – tutto ruotava attorno alla Dc, poche storie – ma oggi? Eppure la trincea del Psr – partito del senso di responsabilità – è già bella e pronta per accogliere forze politiche, gruppetti incontrollati, singoli parlamentari, scissionisti di vario conio, al grido di “andiamo avanti il più possibile”: alcuni lo dicono per mandare in soffitta anche solo il ricordo di Renzi (le varie sinistre), altri per guadagnare tempo per incollare le tessere disperse del proprio puzzle (Berlusconi), altri per ragioni di sopravvivenza personale (centristi, senza partito), un magma di interessi nobili e meno nobili che ribolle alla sola idea di sottoporsi nuovamente al corpo elettorale. Ma sì, un premier si trova: per un governo tecnico? “Non esistono governi tecnici, un governo è un governo” è un’altra massima di questa filosofia un poco spicciola ma molto pratica. Conta, il Psr, del favore che potrebbe incontrare nella “gente”, probabilmente estenuata dalla violenta campagna referendaria testé conclusa e desiderosa di prudenza piuttosto che dell’ “ardimento” di cui parlava Aldo Moro (che però sapeva miscelare la prima con il secondo). D’altra parte, se il triennio renziano è stato a suo modo “rivoluzionario” è fisiologico che ad esso segua un Termidoro morbido e sonnacchioso, una bella fase di stagnazione mascherata da tregua politica, tale da consentire a chiunque di farsi gli affari propri. Il senso di responsabilità vero è un’altra cosa, è risolvere i problemi, non sfruttarli a proprio vantaggio. Ma è proprio quest’ultimo l’orizzonte del Psr – partito trasversale a tutti i partiti – che in queste ore va forte, molto forte. Vai al sito dell’Unità |
Da MondOperaio http://www.mondoperaio.net/ Fine della legittimità? di Tommaso Gazzolo La sconfitta referendaria segna l’inizio di una nuova fase di quella che ormai non è più una crisi politica – come forse era sembrato esserlo fino al 2010 – ma una crisi organica: una crisi «d’autorità», ossia una situazione in cui, come scrive Gramsci, i partiti «non sono più riconosciuti come espressione» dei gruppi sociali e si crea un contrasto tra rappresentanti e rappresentati. La classe “dirigente” cessa di essere tale e diviene classe “dominante”, ossia perde la capacità di riprodurre e trasmettere ideologicamente, all’interno della società, le condizioni del proprio dominio. Questa crisi – il cui carattere, per definizione transitorio, non significa che essa non possa durare indefinitamente – è entrata oggi in una fase per la quale non ho saputo trovare altro termine che quello di “illegittimista”, riprendendo una differenza introdotta da Ortega y Gasset, in un breve testo del 1925 dedicato al fascismo italiano (Il potere illegittimista, in «Mondoperaio», 8-9, 2016, pp. 66-70). Illegittimista, qui, significa una fase in cui tutti i soggetti politici sono spinti non più a cercare una propria legittimazione, ma diversamente a mantenere il vuoto di legittimazione di sé e degli altri in quanto unica condizione a disposizione per potersi affermare. Nessun partito, nessuna forza politica, oggi in Italia, si trova nelle condizioni di andare al potere in quanto legittimato dal rapporto con i suoi rappresentati, in quanto “espressione” di uno o più strati sociali. Né Renzi, né il M5s esprimono alcun “gruppo sociale”, né la loro pretesa di trovare consenso tende a produrre una propria giustificazione se non in negativo (retorica della casta, del nuovo, del “tutti a casa”): e ciò costituisce l’essenziale del loro “illegittimismo”. Essi assumono piuttosto l’assenza di legittimazione altrui come l’unica “ragione” della propria pretesa di governare: c’è un vuoto, e noi lo amministriamo. Renzi e i 5 stelle sono due volti, in questo senso, dello stesso “illegittimismo”: le due soluzioni per assumere la mancanza di legittimazione come meccanismo di potere. L’illegittimismo renziano assume la propria mancanza di legittimazione per far credere di poterla così ricevere da chi la ha: il proprio partito, il Parlamento: non ho legittimità, e solo per questo posso essere legittimato. L’illegittimismo grillino, invece, assume la propria ed altrui mancanza di legittimità come se fosse una forma di legittimazione: non siamo come loro. Da qui l’illusione, e l’ossessione attuale, dell’elezionismo, ossia della falsa idea che il ricorso al corpo elettorale possa costituire di per sé un principio di legittimazione politica. Ma un governo non acquista una legittimità politica perché è stato eletto, ma viene eletto perché possiede in sé una legittimità politica (Kojève). L’elezionismo scambia la causa per l’effetto: la legittimazione non è cioè una conseguenza dei voti ricevuti, ma il contrario. Si dichiara di voler andare al più presto al voto nell’illusione che ciò possa produrre effetti di legittimazione, laddove invece le elezioni, in questa situazione, non hanno altro che la funzione di de-legittimare chi perde, senza legittimare chi vince. Le elezioni, di per se stesse, non sono affatto un meccanismo democratico, non costituiscono in alcun modo quella che i partiti attuali continuano a chiamare un’investitura “democratica” del governo. Il “principio democratico” esiste, appunto, se è un principio: principio di legittimità. Laddove però della legittimità non ne è più nulla, i “principi” democratici cessano di avere la loro ragion d’essere restando al più semplici regole. Da questo punto di vista le elezioni non risolveranno nulla, ma accentueranno la delegittimazione dei partiti e del sistema politico. Questa fase “illegittimista” potrebbe durare per molto tempo o per pochissimo, e dar luogo a diverse soluzioni politiche, sia reazionarie che progressiste. Non possiamo saperlo. Ma se analizziamo i fatti, ciò che è destinato ad essere superato non è tanto – come si tende a dire – il soggetto politico «partito», quanto la nozione di legittimità, ossia l’idea che non esista potere se non nel suo giustificare la propria pretesa di essere obbedito. Questa idea – che sembrava essere stata confermata dall’avvento della democrazia di massa come pratica politica di costruzione del “consenso” (anche le dittature cercano di “ingannare” le masse, di “convincerle” della bontà del loro potere, non possono imporsi con la mera forza) – va oggi abbandonata, smentita dalla realtà oltre che dalle sue debolezze teoriche. Va sostituita con quello che Spinoza aveva già individuato con il problema fondamentale di ogni filosofia politica, di ogni domanda sul potere: e che è dato dal fatto che gli uomini combattono per la loro servitù come se si trattasse della loro salvezza. Le masse non sono mai “ingannate”: hanno voluto e desiderato il fascismo. Certo, tutto passa per i meccanismi – ideologici, economici, sociali, politici – che determinano la produzione e riproduzione di quelle passioni, e non di altre (ed è allora contro di essi che si deve anzitutto lottare). Ma ciò non ha nulla a che vedere con la «legittimazione» del potere, con l’idea che gli uomini non obbedirebbero ad un potere che non fosse, o non si rappresentasse, come legittimo. In determinate condizioni, siamo pronti ad obbedire a tutto. E’ vero: nessun potere si mantiene con la sola forza, con la sola violenza. Ma l’assenza di violenza non significa affatto la pretesa di una “giustificazione”. Questa è la ragione per la quale nulla assicura che soltanto una “rilegittimazione” delle istituzioni e dei soggetti politici possa portare ad un potere stabile in Italia. L’illegittimismo potrebbe bene, infatti, lasciare il posto ad una nuova fase in cui il potere politico sia semplicemente obbedito, senza alcuna ragione, o proprio perché non ha alcuna ragione. |
Il libro L’arte del non governo Roma, Venerdì 16 dicembre, ore 16.00 Istituto della Enciclopedia Italiana, Sala Igea Presentazione del volume di: Piero Craveri L’arte del non governo. L’inarrestabile declino della Repubblica italiana Marsilio, Venezia, 2016. Associazione Socialismo www.associazionesocialismo.it segreteria at associazionesocialismo.it |
La lettera Ripartiamo dalla Sinistra o da una Sinistra Socialista? Rilanciare la "questione socialista" senza nostalgie né preconcetti di Aldo Ferrara La sinistra italiana deve ridefinire obiettivi, scelte politiche, equilibri interni, identità. La loro mancata definizione ha impedito che si incidesse anche nel palcoscenico internazionale, europeo e non. Sarebbe, tuttavia, sbagliato pensare che scelte di ristrutturazione di partiti della sinistra siano tali da comportare, per sé, una sorta di cancellazione della "questione socialista", che certo fa parte della storia politica italiana, ma che non per questo si può pensare di archiviare e che, anzi, mantiene una sua attualità in rapporto alle prospettive di profonda trasformazione della società contemporanea. Né si deve ritenere che si tratti di questione da risolvere tutta all’interno del PD ma sono in gioco gli sviluppi futuri della sinistra italiana nel suo complesso. Il concetto di sinistra deve coniugarsi per esistere con il sostantivo socialismo umanitario. Ogni tentativo di collocare il socialismo in altri versanti o di creare una sinistra a-socialista è clamorosamente fallito. Il passato alle spalle - La vitalità della sinistra, di matrice e ispirazione socialista, si misura dalla sua capacità di progettare il futuro, partendo dai bisogni del presente piuttosto che dall’incapacità di regolare i conti del passato. Nella fase storica apertasi dopo il 1989, sono da ricercare le ragioni di una ricomposizione unitaria delle correnti politiche che a quella matrice fanno riferimento, lasciando alle nostre spalle e agli approfondimenti dell’indagine storiografica le divisioni, anche drammatiche, prodottesi nel corso del ‘900. Intendiamo essere parte di una sinistra non solo europea ma internazionale dichiaratamente socialista, espressione del mondo del lavoro, capace di interpretare, in termini di trasformazione sociale e di liberazione del lavoro umano, le sfide della globalizzazione, rifiutando ogni riferimento ad un generico e velleitario radicalismo antagonista. Nel confronto che intendiamo aprire non c’è spazio per nostalgie. Se proprio dobbiamo guardare al passato, si tratta di riesaminare in una prospettiva storica i rapporti tra comunisti e socialisti e dei socialisti tra loro nel secolo scorso: dalla rottura livornese del 1921 all’impegno nella lotta antifascista, dal Fronte popolare alla rottura di Palazzo Barberini, dalla Rivoluzione Ungherese alla Primavera di Praga, dal primo centro-sinistra al compromesso storico, dalla concezione etica della militanza politica e dell’impegno nelle istituzioni alla mancata soluzione del problema dei costi della politica e del malcostume corruttivo. Tra una improbabile catarsi purificatrice e la rimozione sistematica di nodi critici e contraddizioni, noi scegliamo di occupare lo spazio in cui si pratica l’esercizio dialettico della memoria, proprio perché rifiutiamo di rivolgere il nostro sguardo perennemente al passato e miriamo alla costruzione di un futuro sulla base di ciò che ci unisce. Ciò implica la necessaria elisione di termini "comunista" e "socialista" per importare il termine sostantivante di " sinistra sociale". Il futuro - Un "socialismo umanitario" rinnovato nella sua visione del mondo, nei suoi obiettivi generali, nella sua stessa concezione della democrazia, non può limitare il proprio orizzonte ad una prassi politica politicienne, che tutto riduce ad un’ansia di partecipazione ai vari livelli istituzionali di governo, ma deve saper interpretare e rappresentare la voglia di cambiamento che emerge da parti sempre più estese della società, a fronte del fallimento delle politiche liberiste, neoliberiste e conservatrici nonché dell’ideologia totalizzante del mercato, che tutto mercifica, dalla salute alla cultura, ai sentimenti, alle stesse relazioni interpersonali. Ambiente ed Energia - La prassi dominante, ispirata dal pensiero omologato dagli interessi finanziari, spesso meramente speculativi, produttivi delle multinazionali, militari e di potenza non ha risolto uno solo dei grandi problemi dell’umanità: sottosviluppo, miseria, fame, analfabetismo nonchè le epidemie letali per enormi masse umane; le crescenti minacce all’integrità dell’ambiente e alle risorse, energetiche e non, del nostro pianeta. Si assiste ad un progressivo dominio di pochi sui tanti popoli del terzo e quarto mondo: il 22% della popolazione mondiale esercita il suo potere sul restante 78%, per quanto attiene la disponibilità delle fonti energetiche e lo sfruttamento della stesse risorse idriche e alimentari. Questi problemi non sono lontani dal nostro quotidiano: i drammatici cambiamenti climatici e l’epocale fenomeno delle migrazioni di massa toccano ciascuno di noi e mai, come in questo periodo, cresce una paura del futuro, che se non sarà contrastata e guidata razionalmente, verrà strumentalizzata dalla demagogia e da fanatismi di ogni tipo e di qualsivoglia ispirazione ideologica, religiosa, etnica o localista che sia. L’attuale ordine mondiale non garantisce il bene primario della pace, mortifica l’affermarsi dei diritti fondamentali dell’umanità, che dovrebbe comportare l’eliminazione del lavoro servile, in particolare dei minori, eguali opportunità e diritti di cittadinanza per donne e uomini, la messa al bando della pena di morte e di ogni discriminazione dovuta a differenze etniche, religiose o di orientamento sessuale. Più Stato nello Stato - Solo quando questi problemi risulteranno chiari in tutta la loro drammaticità e occuperanno la priorità che loro spetta nell’agenda politica, solo allora si potrà ragionare in termini di compatibilità di bilancio o di rispetto di parametri e vincoli esterni come quelli di Maastricht, di cui respingiamo la rigidità e la logica puramente monetaria. Dobbiamo dare risposte concrete alle grandi sfide epocali attraverso interventi che privilegino la crescita dell’economia reale e produttiva, in cui la qualità del lavoro, la ricerca e lo sviluppo tecnologico svolgano un ruolo prioritario rispetto agli interessi puramente finanziari. Un ruolo importante spetta, altresì all’intervento pubblico in economia, troppo spesso superficialmente ed aprioristicamente demonizzato, alla funzione di coordinamento e controllo delle autorità pubbliche ed alla partecipazione cittadina. Lo esigono i nostri valori e il senso che attribuiamo al nostro agire politico. Giù le mani dalla Costituzione - Intendiamo occuparci precipuamente dell’oggi e del futuro, ben sapendo che, nella realtà sociale e politica del nostro Paese, l’avversario da battere è costituito principalmente dalla diffusa presenza di tendenze ultraliberiste in economia e populiste in politica, che hanno trovato nel "fenomeno Berlusconi" e successivamente nell’esperimento Renzi le chiavi di volta di un progetto di governo, di cui abbiamo ampiamente sperimentato gli effetti nefasti. Di quel progetto, ha fatto e tuttora fa parte integrante la volontà di rimettere in discussione la Costituzione repubblicana, nei suoi stessi principi ispiratori. Quella Costituzione, nata dalla Resistenza antifascista, resta per noi un riferimento fondamentale e motivo di ispirazione della nostra iniziativa politica. Con particolare riferimento agli articoli 1, 3, 11 e 21 della Costituzione repubblicana, indichiamo come prioritari per la nostra iniziativa politica i temi del lavoro, della piena occupazione e delle pari opportunità d’accesso sia all’istruzione sia al lavoro, da garantire specialmente ai più giovani, nonché la libertà d’espressione. Più in generale, vanno estesi e garantiti i diritti di cittadinanza per tutte e per tutti. Il diritto all’istruzione e quello alla salute devono essere riportati alla dignità costituzionale di diritti inalienabili, pienamente garantiti dallo Stato. Analogamente va rivendicato allo Stato un ruolo primario nell’organizzazione e nella regolazione di servizi essenziali, che incidono direttamente sulla qualità della vita dei cittadini, cogliendo e realizzando tutte le potenzialità offerte dall’art.32 della Costituzione. Dalla piena applicazione del dettato costituzionale dovrà nascere una forte e diffusa ripresa della partecipazione democratica, che veda protagonista il cittadino in quanto "persona unica, irripetibile e titolare di diritti", a partire da quello legato all’espressione del proprio voto, che deve vedere riaffermato il principio inderogabile dell’eguaglianza ("una testa un voto") e dunque l’attuazione di un sistema elettorale sostanzialmente proporzionale, con gli opportuni correttivi tecnici. In riferimento all’art.11 della Costituzione, occorre dar vita ad un nuovo internazionalismo pacifista, che ci veda impegnati attivamente nel recupero delle risorse umane del terzo e quarto mondo (attualmente 214 milioni di bambini non raggiungono i 5 anni d’età, per mortalità infantile), puntando al superamento dell’attuale europeismo e del suo economicismo esasperato, perché si dia vita ad un’Europa capace di darsi finalmente un’anima politica. Sempre la Costituzione ci guida nella separazione netta tra Stato e Chiesa, in una rigorosa concezione della laicità delle Istituzioni che non ammette interferenze delle gerarchie ecclesiastiche nelle scelte del Legislatore. Va ripensato in profondità, per riportarlo all’originario spirito della Costituzione, il ruolo dei partiti politici al pari di quello degli eletti nei diversi livelli istituzionali. Va riportata la politica alla sua dignità di servizio alla collettività, liberandola da ogni personalismo, carrierismo, aspirazione fine a se stessa a gestire poteri politici o amministrativi. Va collocato, in questo quadro e in un ritrovato costume di rigore e di sobrietà, il tema dei costi e dei finanziamenti della politica. In Italia, anche negli anni del più duro confronto a sinistra, c’è sempre stato un tessuto unitario nei sindacati, nel movimento cooperativo, nell’associazionismo culturale, sportivo e ricreativo, per non parlare dei governi municipali, provinciali e regionali. Questo è il passato che più ci piace guardare, ricavando da esso il filo rosso della nostra storia utile a tessere e a disegnare il futuro: questo è il compito che assumiamo, nella consapevole certezza che resta del tutto attuale la missione del socialismo umanitario, come idea e prassi politica per una società più libera, più democratica, più solidale, più giusta. |
L'AVVENIRE DEI LAVORATORI EDITRICE SOCIALISTA FONDATA NEL 1897 Casella postale 8965 - CH 8036 Zurigo L'Avvenire dei lavoratori è parte della Società Cooperativa Italiana Zurigo, storico istituto che opera in emigrazione senza fini di lucro e che nel triennio 1941-1944 fu sede del "Centro estero socialista". Fondato nel 1897 dalla federazione estera del Partito Socialista Italiano e dall'Unione Sindacale Svizzera come organo di stampa per le nascenti organizzazioni operaie all'estero, L'ADL ha preso parte attiva al movimento pacifista durante la Prima guerra mondiale; durante il ventennio fascista ha ospitato in co-edizione l'Avanti! garantendo la stampa e la distribuzione dei materiali elaborati dal Centro estero socialista in opposizione alla dittatura e a sostegno della Resistenza. Nel secondo Dopoguerra L'ADL ha iniziato una nuova, lunga battaglia per l'integrazione dei migranti, contro la xenofobia e per la dignità della persona umana. Dal 1996, in controtendenza rispetto all'eclissi della sinistra italiana, siamo impegnati a dare il nostro contributo alla salvaguardia di un patrimonio ideale che appartiene a tutti. |
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