L'AVVENIRE DEI LAVORATORI La più antica testata della sinistra italiana, www.avvenirelavoratori.eu Organo della F.S.I.S., organizzazione socialista italiana all'estero fondata nel 1894 Sede: Società Cooperativa Italiana - Casella 8965 - CH 8036 Zurigo Direttore: Andrea Ermano > > > PDF scaricabile su http://issuu.com/avvenirelavoratori < < < e-Settimanale - inviato oggi a 45964 utenti – Zurigo, 2 giugno 2016 |
LAVORO E DIRITTI a cura di www.rassegna.it
La Costituente e il voto alle donne, 70 anni tra storia, lavoro e diritti Primo giugno, il convegno organizzato dalle Fondazioni Giuseppe Di Vittorio, Giulio Pastore, Bruno Buozzi e da Cgil, Cisl e Uil presso la Sala del Tempio di Adriano, in Piazza di Pietra a Roma. Podcast 1: Gli interventi di Urbinati e Ornaghi Podcast 2: Gli interventi di Camusso, Furlan, Barbagallo di Simona Caleo “Abbiamo ancora molto da fare per applicare il grande lavoro che fecero i padri costituenti, affinché quella democrazia e quell'idea di uguaglianza tra i cittadini che la nostra Costituzione prevede venga compiutamente realizzata”. Sono queste le parole con cui ieri, 1° giugno, il segretario generale della Cgil Susanna Camusso ha aperto il suo intervento all'iniziativa “La Costituente e il voto alle donne, 70 anni tra storia, lavoro e diritti”. Un intervento che sintetizza bene i contenuti espressi dall'intero convegno organizzato dalle Fondazioni Giuseppe Di Vittorio, Giulio Pastore, Bruno Buozzi e da Cgil, Cisl e Uil presso la Sala del Tempio di Adriano, in Piazza di Pietra a Roma. Un momento di riflessione in occasione del 2 giugno, per ricordare il clima di quei giorni del 1946 in cui nacque la Repubblica, e in cui per la prima volta le donne italiane poterono interpretare un ruolo da protagoniste attive. Oltre agli interventi del presidente Fondazione Pastore, Aldo Carera, di studiosi e delegati sindacali, è stato letto un contributo inviato da Rosa Russo Iervolino, già ministro dell'Interno e sindaco di Napoli. Nadia Urbinati, docente di Teoria politica Columbia University, in collegamento video, ha poi sottolineato quanto il 1946 sia stato “un anno importante per la democrazia, perché le donne grazie al voto sono diventate cittadine a tutti gli effetti”. “Un fatto dirompente – ha aggiunto la professoressa Urbinati – perché ha cambiato la natura della nostra Repubblica a coronamento di una lunga lotta per la partecipazione a pieno titolo nella sovranità politica dei lavoratori e delle donne. Una battaglia per l'inclusione che ha portato la democrazia a fare finalmente i conti con la realtà oggettiva e materiale della vita quotidiana”. Lorenzo Ornaghi, presidente dell'Alta scuola di Economia e relazioni internazionali dell'Università Sacro Cuore, ha invece ricostruito “il clima psicologico collettivo di quel grande evento della storia. Un clima straordinario di rinascita che portò alla realizzazione di una Costituzione-programma che non si limita a circoscrivere i poteri, ma fornisce una libertà di sviluppo e crescita dell'intera collettività, proprio grazie alla rappresentatività sociale”. |
Matinée Per Andrea Rocchelli (27.9.1983 – 24.5.2014) Perché vogliamo esporre le sue foto
Domenica, 5. giugno 2016 dalle 10.15 alle 12.30 Cooperativo - St. Jakobstrasse 6 Zurigo – Stauffacher Per domenica 5 giugno il Coopi di Zurigo insieme alla Società Dante Alighieri ha promosso una Matinée dedicata ad Andrea Rocchelli. Alla manifestazione – che sarà condotta dalla giovane regista teatrale svizzera Miriam Lustig – prenderanno parte come relatori la madre di Andrea Rocchelli, Elisa Signori (autorevole studiosa di storia del Novecento e docente presso le Università di Pavia e di Lugano), il free lance di "Cesura" Gabriele Micalizzi e Miklós Klaus Rózsa, noto e importante fotografo. Interverranno inoltre Renzo Balmelli, già direttore del TG della Svizzera Italiana (e titolare sull'ADL della popolare rubrica "Spigolature"), il professor Emilio Speciale, presidente della Società Dante Alighieri, nonché Valeria Perzia, esponente di Libera Terra Mediterraneo. Ci sarà anche un intervento musicale da parte di due virtuosi della statura di Letizia Fiorenza (voce) e David Sautter (chitarra classica). A fine mattinata il Coopi offrirà un rinfresco. Il vino prescelto si chiama Centopassi, è prodotto con metodi biologici sui territori confiscati alla mafia ed è dedicato alla memoria di un altro giovane e indimenticabile martire del giornalismo italiano, Peppino Impastato. Evento sponsorizzato da Carlo Crivelli Borgovecchio S.A. di Balerna (Ticino) http://www.borgovecchio.ch/ |
Conformemente alla Legge 675/1996 tutti i recapiti dell'ADL Newsletter sono utilizzati in copia nascosta. Ai sensi del Codice sulla privacy (D.L. 30.6.2003, 196, Art. 13) rendiamo noto che gli indirizzi della nostra mailing list provengono da richieste d'iscrizione, da fonti di pubblico dominio o da E-mail ricevute. La nostra attività d'informazione politica, economica e culturale è svolta senza scopi di lucro e non necessita di "consenso preventivo" rivestendo un evidente carattere pubblico come pure un legittimo interesse associativo (D.L. 30.6.2003, 196, Art. 24). L'AVVENIRE DEI LAVORATORI contribuisce da oltre 115 anni a tenere vivo l'uso della nostra lingua presso le comunità italiane nel mondo tra quelle persone che si sentono partecipi degli ideali socialisti-democratici di Giustizia e Libertà. |
SPIGOLATURE Commozione e indignazione di Renzo Balmelli FOLLIA. Commuove e in pari tempo solleva sentimenti di forte indignazione l'odissea della piccola Favour, la bimba nigeriana di nove mesi arrivata da sola a Lampedusa dopo essere rimasta orfana nel più orribile dei modi. La madre è morta ustionata su un barcone in mezzo al mare. Commuove per lo slancio solidale del medico e dei generosi isolani che l'aiuteranno a superare il trauma. Indigna, poiché è inammissibile che quella che ormai si deve chiamare una vera e propria strage di innocenti prosegua senza che chi ha il dovere di indagare, intervenire e stroncare lo stillicidio non riesca a risalire all'origine del genocidio di intere popolazioni vittime della follia umana. Arrivati a questo punto quasi di non ritorno, a che servono i solenni proclami se non si dirà "basta" alla peggiore tragedia del secolo e alla bieca strumentalizzazione di chi fabbrica voti sulla pelle dei profughi! Solo frasi di circostanza? DISTENSIONE. Come con Cuba, anche col Vietnam Obama ha inteso chiudere la sua presidenza, giunta ai suoi ultimi mesi, con un gesto di pacificazione che fugasse anche le ultime nubi nelle relazioni bilaterali e rendesse meno doloroso il ricordo di una guerra che fu una catarsi per tutto il mondo, non solo per l'America. Per segnalare in maniera concreta l'inizio di una nuova era la Casa Bianca ha quindi tolto l'embargo alla fornitura di armi al Paese del sud est asiatico quale prova della ritrovata fiducia. La parola " embargo" ha sempre un suono negativo, ma se è vero che sarà la storia a svelare tutti i meriti del primo presidente di colore degli USA (e non sono pochi), qualche dubbio non mancherà di farsi strada nelle future analisi sulla contraddizione in termini tra la vendita di ordigni militari e la distensione di cui Obama è stato un infaticabile promotore. VERITÀ. Con la morte di Giorgio Albertazzi è tornato a riproporsi il delicato interrogativo dell'ambigua e colpevole relazione istauratasi tra il genio del teatro e l'epoca in cui l'Italia era in preda allo sconquasso del ventennio. Nel mondo altri intellettuali di vaglia hanno subito lo stesso destino e il grande attore, pur senza mai abbandonarsi al cattivo gusto nostalgico, non ha mai rinnegato i propri errori e l'appartenenza alla Repubblica di Salò. Una scelta che pone parecchi interrogativi; gli stessi d'altronde che sono riproposti dalla controversa, ma forse non inutile mostra inaugurata proprio nel museo di Salò per spiegare il culto del Duce e cosa sia stato il fascismo e il suo rapporto con il Paese. Confrontarsi con il proprio passato è un esercizio necessario, anche se doloroso, a patto però di evitare tentazioni apologetiche nell'intento di riscrivere la verità storica. La guerra è finita, ma coi tempi che corrono il fascismo non ancora! SCENARIO. Ha sollevato un certo scalpore e qualche giustificata inquietudine la profezia del politologo francese Dominique Reynié sull'ondata nera che percorrerà tutto il Vecchio Continente da nord a sud, mettendo a rischio l'esistenza stessa dell'Unione Europea. Professore al celebre istituto parigino di Science Po e autore del saggio "Les nouveaux populismes", Reynié avverte che il sollievo della sinistra per la sconfitta della destra in Austria potrebbe essere soltanto passeggero. Qualche indizio che il pericolo sia in agguato a dire il vero c'è, reso ancora più palpabile da chi, dalla Lega al Front National, evoca sante alleanze con gli sproloqui di Donald Trump e i vari Hofer che si agitano dall'Atlantico agli Urali per rovesciare gli assetti europei. Secondo il politologo il primo siluro arriverà dalla Francia della Le Pen. E' probabile, certo, senza dimenticare tuttavia che la democrazia quando si sente minacciata sa reagire, come è avvenuto appunto sullo scenario viennese. FUTURO. In questi giorni di gioia al San Gottardo, con la solenne e festosa inaugurazione della più lunga galleria ferroviaria del mondo, il discorso non poteva soffermarsi solo sulle cerimonie ufficiali. Sul treno che ha portato gli ospiti nell'interminabile budello scavato nella roccia è andato in scena anche un vertice, durante il quale sono stati affrontati alcuni temi caldi riguardanti il futuro dell'Europa unita. Se con questa opera di genio civile si annullano le distanze nel cuore dell'Unione, le notizie preoccupanti che arrivano da Londra e che danno i fautori del Brexit in vantaggio potrebbero invece, ove confermate, allargare il fossato e mandare in visibilio gli eurofobici. Nei quindici anni impiegati per scavare il tunnel di Alptransit hanno perso la vita nove operai, quattro tedeschi, tre italiani, un austriaco e un sudafricano. La maniera migliore per onorarne il sacrificio è fare in modo che la nuova via alpina sia un ulteriore contributo ad avvicinare sempre più la gente e sbaragliare i cattivi profeti. |
LAVORO E DIRITTI a cura di www.rassegna.it Settant'anni fa il voto alle donne di Maria Paola Del Rossi *) Nel 1946 le italiane si recarono per la prima volta alle urne, dopo che il 1 febbraio 1945 – in un’Italia ancora in guerra e con il Nord del Paese occupato dai nazifascisti – un provvedimento del governo Bonomi aveva sancito la conquista del voto femminile e un decreto del 10 marzo 1946 il diritto ad essere elette. Questa data, di cui oggi ricorre il settantesimo, costituisce un passaggio chiave per l’ingresso delle donne nelle vita democratica del Paese, un “evento storico” capace di produrre un cambiamento epocale nella stessa storia della Repubblica aprendo la strada ad iniziative che nei decenni successivi avrebbero garantito l’accesso delle donne a molte professioni, ma anche al riconoscimento di specifici diritti legati alla condizione femminile. “Bisognava attingere il vertice dell’orrore e della disperazione, bisognava che l’uomo si sentisse umiliato come non mai attraverso i millenni nella sua incapacità ad arginare la barbarie, perché potesse, povero uomo, persuadersi a chiedere l’ausilio della compagna, ammettere che questa abbia capacità d’intelletto tali da tentar con lui l’opera di salvezza e di rinascita”. Così commentava la scrittrice Sibilla Aleramo sulle pagine dell’Unità, nel febbraio 1946, la tarda conquista del suffragio femminile in Italia rispetto alle altre democrazie parlamentari, punto di approdo non solo della lunga e strenue battaglia condotta dal movimento femminista in età liberale, ma anche del ruolo svolto dalle donne nella Resistenza. Se alta fu la percentuale delle elettrici e delle donne elette nelle elezioni amministrative del marzo aprile 1946, che coinvolsero oltre seimila comuni, andando così a sfatare il pregiudizio sulla loro presunta indifferenza e incapacità, il 2 giugno dello stesso anno milioni di donne in tutta Italia, nelle grandi città industriali del Nord come in quelle del Centro Sud, sostarono composte in lunghe file davanti ai seggi elettorali per esprimere la propria volontà politica sul referendum Monarchia o Repubblica e per eleggere i membri dell’Assemblea costituente. Le donne elette alla Costituente furono 21 su un totale di 556 deputati (il 3,7%), di cui 9 nelle liste del Pci, altrettante in quelle della Dc, 2 nel partito socialista ed una nell’Uomo qualunque. Di queste 5 presero parte all’Assemblea dei 75 incaricata di redigere la Carta costituzionale che entrerà in vigore nel 1948, tra cui figurava Teresa Noce, futura Segretaria generale dei tessili. L’importanza e la novità rappresentata dal conseguimento del suffragio femminile attivo e passivo e i suoi riflessi nel panorama politico e culturale è stata a lungo trascurata dalla storiografia e dalla stessa pubblicistica, essa tuttavia ha rappresentato la rottura di una concezione del diritto di cittadinanza quale territorio maschile, fondato su un concetto «di uguaglianza improntata al principio dell’omologazione», incentrata sul «principio astratto dell’universalismo dei diritti» che nascondeva, invece, una connotazione sessuata (Bonacchi, Groppi, 1993, p. 3). Si ridefiniva così il paradigma stesso della cittadinanza e il concetto di uguaglianza per affermare i diritti degli uomini e delle donne nel quadro dell’“equivalenza” più che della semplice uguaglianza, mentre veniva messa in discussione la tradizionale divisione tra pubblico e privato facendo della maternità e del lavoro di cura le basi per l’accesso alla cittadinanza e per superare la loro tradizionale esclusione. Infatti, come sottolineato da Patrizia Gabrielli, sin dalle origini della Repubblica nella conquista della cittadinanza femminile “l’obiettivo era di coniugare ai diritti politici anche quelli sociali, nella convinzione che la piena acquisizione dei primi non fosse nel caso delle donne indipendente dai secondi”. La battaglia svolta dalle costituenti, da questo punto di vista, divenne centrale nell’avviare quel lungo processo di affermazione dei “diritti di cittadinanza” delle donne e trovò un forte ancoraggio, politico e culturale, nelle coeve esperienze che maturano nel sindacato e nelle sue rivendicazioni. Nella Costituente centrale fu il ruolo delle donne nel dibattito sull’uguaglianza tra i sessi nella sfera pubblica, a partire dalla ammissione ai pubblici uffici senza distinzione di sesso (art. 51), ai diritti di parità nel lavoro, così come nella battaglia sull’articolo 106 della Costituzione sull’accesso alla magistratura, che però verrà sanzionato solo da una legge nel 1963; inoltre, altrettanto importante si rivelò la battaglia intrapresa a partire dai lavori della Commissione dei 75 da parte di alcune costituenti, tra cui Teresa Noce, sul pieno riconoscimento da parte dello Stato della “funzione sociale” della maternità e in quanto tale il suo diritto alla tutela. Tuttavia, se nell’articolo 37 della Costituzione, comma I, si stabilisce che «la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di salario, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale, adeguata protezione», la Costituzione, nel momento in cui proclama anche per le donne il diritto al lavoro e riconosce il principio della parità salariale, limita questi solenni pronunciamenti richiamando l’«essenziale funzione familiare» della donna; pertanto, come sottolinea Annarita Buttafuoco, «ancora una volta le donne vengono collocate nel privato»; la loro tradizionale debole identificazione come lavoratrici non viene confermata e di conseguenza «se ne rende debole e precaria anche l’idea di cittadine». Un’impostazione, questa, contro cui si schierarono negli anni dell’immediato dopoguerra le donne del sindacato, a partire dalla Commissione femminile a importanti categorie come la Fiot. Infatti, il tema del lavoro rappresentò il nodo centrale di una nuova identità femminile, laddove le donne – scriveva Teresa Noce nel settembre 1945 – vanno a lavorare non solo perché costrette dall’indigenza, ma anche per rispondere ad altre necessità: “affermare la propria indipendenza economica e la propria capacità produttiva, tecnica, culturale. Necessità di uscire in parte dall’ambiente ristretto della cucina e della casa, per partecipare anch’esse alla vita sociale e politica, attraverso il lavoro e le sue lotte, attraverso il contatto con altri esseri umani, attraverso la conoscenza di altri problemi di carattere più vasto e generale”. I termini dell’azione sindacale nel quadro delle politiche rivendicative femminili in questo frangente riguardavano, infatti, la parità salariale e la tutela. Iniziative che si tradussero dapprima nell’approvazione della legge sulla tutela della maternità (1950) e, a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta, nella mobilitazione che porterà alla firma dell’accordo interconfederale sulla parità salariale nel 1960. Un accordo quest’ultimo che segna il cambiamento qualitativo della politica contrattuale nel sindacato che, benché nei primi due congressi avesse enunciato i principi dell’emancipazione attraverso il lavoro e della parità di diritti e di salario, non aveva dato ad essi pratica applicazione. Del 1963 sono invece le leggi sul divieto di licenziamento per matrimonio e sul riconoscimento della pensione alle casalinghe, con cui si ha un’implicita ammissione del valore economico del lavoro domestico e si afferma il parziale messaggio di messa in discussione di un modello di emancipazione esclusivamente legato alla partecipazione al mercato del lavoro. Conseguita la parità alla fine degli anni sessanta, almeno sul piano legislativo, esplose il movimento femminista per dare alla parità giuridica una effettiva corrispondenza sociale, ancora non del tutto realizzata. Furono questi gli anni, dopo l’impegno nell’approvazione delle leggi istitutive delle scuole materne statali del 1970 e degli asili comunali del 1971, delle battaglie per la conquista dei diritti civili sanciti dalle leggi sul divorzio (1970), sulla istituzione dei consultori (1975), la legalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza (1978) e la riforma del diritto di famiglia (1975) con cui si chiuse sul piano normativo il ciclo della parità, apertosi alla fine del secondo conflitto mondiale, e si aprì la stagione della “differenza”. A settant’anni di distanza, seppure in una società in cui a fronte della stessa crisi sono cambiati ancora una volta il lavoro e la famiglia, la quotidianità e il tempo libero, appaiono ancora di grande attualità le testimonianze delle Costituenti e la stessa conquista della parità da declinare in tutte le sue molteplici forme e contenuti, laddove accanto all’importante percorso di conquiste dei diritti politici, civili e sociali delle donne per la realizzazione di una cittadinanza al femminile, la Repubblica ha faticato a riconoscere alle donne il diritto di rappresentarla, facendo della democrazia italiana una “democrazia incompiuta” (Gabrielli, 2009, p. 242). *) Docente di Storia del movimento sindacale all'Università di Teramo |
Da Avanti! online www.avantionline.it/ Francia, adesso pure le inondazioni dopo il Jobs Act A pochi giorni dagli Europei di calcio, Francia alle prese con scioperi e proteste contro il Jobs Act, un’ondata di maltempo che rischia di far straripare la Senna e un allarme terrorismo che arriva dagli Usa. Valls tenta di ricucire il dialogo con la Cgt mentre Hollande (14%) precipita nei sondaggi per le presidenziali doppiato da Marine Le Pen (28%). La sua presidenza oggi ‘piace’ solo a 5 francesi su 100. (Roma/Parigi, 1.6.2016) - Brutto periodo per i cugini d’Oltralpe alle prese con manifestazioni, scioperi e proteste contro la ‘loi travail’, il loro Jobs Act, e anche con un’ondata inusitata di maltempo che rischia addirittura di far straripare la Senna. L’unica speranza per tornare a sorridere è appuntata ormai sugli Europei che avranno il calcio di inizio venerdì 10. La Senna alla periferia di Parigi ha cominciato da ieri a fare davvero paura perché dopo settimane di pioggia sulla capitale che ha battuto ogni record di precipitazioni dal 1873, Meteo France ha lanciato un allarme meteo per la ‘Seine-et-Marne’ la zona orientale della banlieue parigina. Il massimo grado di allarme era già scattato per la regione a sud della capitale, il Loiret. Ieri sera, alle porte di Orlreans, 650 automobilisti sono rimasti imprigionati sull’autostrada A10, con le auto sommerse dall’acqua e una precipitosa fuga sui mezzi inviati dalla protezione civile che li hanno portati nel Palazzo dello sport dove hanno trascorso la notte. Nella Seine-et-Marine, dove i corsi d’acqua hanno raggiunto un livello mai raggiunto dalla storica piena del 1910 che toccò anche la capitale, centinaia di persone sono state evacuate, le strade nazionali sono interrotte, le scuole sono rimaste chiuse. Una situazione davvero difficile che si inserisce nel quadro delle proteste che stanno interessando tutta la Francia – a Parigi è stato bloccato uno dei più grandi impianti di trattamento dei rifiuti urbani con il rischio concreto di avere la capitale sommersa dalle immondizie proprio quando si inaugurano gli Europei di calcio – e che oggi ha visto le contro proteste di artigiani e commercianti sempre più preoccupati per l’andamento degli affari.
Il leader della Cgt Philippe Martinez A Rennes il leader della Cgt, il sindacato più importante, di sinistra, Philippe Martinez è stato accolto dalle proteste dei dimostranti secondo le manifestazioni e gli scioperi contro la riforma dellea legge sul lavoro minaccerebbe l’attività delle piccole imprese. In questo senso si era già espresso Pierre Gattaz, il leader del Medef, la Confindustria francese, che aveva definito in un’intervista gli attivisti della Cgt come ‘terroristi e delinquenti’, beccandosi una querela per diffamazione dal sindacato. La Cgt ha argomentato che definire come terrorismo le agitazioni sindacali in un Paese che ha vissuto quello che ha vissuto è assolutamente scandaloso e Gattaz è responsabile delle sue affermazioni nel momento in cui alimenta l’odio contro un’organizzazione sindacale. E il Medef ha risposto esortando i suoi aderenti a sporgere denuncia per il pregiudizio subito nella loro libertà di lavoro dai picchetti sindacali. Una situazione tesa e difficile perché il Governo teme di perdere la faccia se modifica la legge dopo aver fatto ricorso anche al voto di fiducia – una procedura assolutamente irrituale in Francia – per bypassare l’Assemblea senza passare dal dibattito e dal voto parlamentare. Per tentare di ricucire il dialogo, dopo giorni di silenzio, lo stesso premier Manuel Valls, dopo la ministra del lavoro Myriam El Khomri, che ha dato il suo nome alla legge, ha telefonato a Martinez. E come se non bastasse, l’ultima mazzata è arrivata dall’America col Dipartimento di Stato che ha emesso uno ‘sconsiglio’ a recarsi in Francia. Un’allerta viaggi in Europa citando potenziali rischi di attacchi nel corso di “eventi importanti e siti turistici”, citando specificatamente gli Europei di calcio. Nell’allerta, il Dipartimento di Stato cita anche la giornata mondiale della gioventù che si terrà a Cracovia, in Polonia dal 26 al 31 luglio. “Nell’ambito dei continui sforzi del Dipartimento di Stato per offrire agli americani che viaggiano all’estero informazioni sugli eventi rilevanti, avvertiamo i cittadini americani del rischio di potenziali attacchi terroristici in Europa, con nel mirino eventi importanti, siti turistici, ristoranti, centri commerciali e trasporti. L’allerta scade il 31 agosto 2016”, insomma alla fine del periodo delle vacanze estive. Obiettivi possibili sono “gli stadi, le aree per i tifosi in Francia e in Europa” e la Francia, da parte sua, ha già esteso lo stato d’emergenza fino al 26 luglio per coprire il periodo degli Europei e per il Tour de France che si terrà dal 2 al 24 luglio. “L’attenzione è alta – ha commentato Lamberto Giannini, direttore del Servizio centrale antiterrorismo italiano – ma non ci sono segnali specifici o evidenze particolari”. In questo panorama, nulla di cui stupirsi se i sondaggi in vista delle presidenziali del 2017 indicano un profondo rosso per François Hollande. Secondo un sondaggio Ipsos su un campione di ben 19.455 persone, pubblicato oggi dal quotidiano Le Monde, votando oggi, il capo dello Stato otterrebbe appena il 14% delle preferenze, record storico negativo per un presidente della Quinta Repubblica. Al contrario, ma neppure questa è una sorpresa, verrebbe doppiato dalla leader del Front National. Nel primo turno della corsa all’Eliseo Marine Le Pen staccherebbe Hollande di 14 punti, con il 28% delle intenzioni di voto, mentre Alain Juppé con il suo 35% continua a essere il favorito della destra neogollista. Da débâcle i numeri sul gradimento della presidenza Hollande: insoddisfatti al 72%, così-così al 23% e appena il 5% soddisfatti. Vai al sito dell’avantionline |
Da l’Unità online http://www.unita.tv/ Modello tedesco per i rifugiati? Un difficile compromesso tra Cdu-Csu e Spd: sussidi per il lavoro e corsi di formazione in cambio di corsi di lingua e aree off limits di Matteo Tacconi - @mat_tacconi Una pietra miliare. Così la cancelliera Angela Merkel ha definito la legge sull’integrazione dei rifugiati, messa definitivamente a punto dal governo nei giorni scorsi. Con essa, le autorità intensificano da un lato gli sforzi volti a integrare i rifugiati nella società e nel mercato del lavoro, dall’altro pretendono che i nuovi arrivati dimostrino concretamente di volersi integrare. Filosoficamente non fa una piega, ma a guardare il dettaglio di questa norma, che segna in ogni caso un passaggio importante per la Germania, emergono diverse sfocature e una tensione di fondo frutto del compromesso abbastanza sudato tra Cdu-Csu e Spd. Le due anime della coalizione hanno discusso a lungo sulla misura, presentata una prima volta nel mese di aprile, salvo essere rimandata di qualche settimana per l’assenza di un accordo chiaro su alcuni punti. I cristiano-democratici e i loro alleati cristiano-sociali hanno guardato con particolare attenzione a quegli aspetti capaci di rassicurare e di trasmettere l’idea, agli occhi dei tedeschi, che l’integrazione non scuoterà i valori della società e verrà fatta con ordine, disciplina e rigore. I socialdemocratici hanno invece messo più enfasi sul valore dell’integrazione. Sigmar Gabriel, presidente della Spd e vice cancelliere, ha spiegato che la legge costituisce non un punto d’arrivo, ma uno di partenza. A suo avviso è solo il primo passo in vista di quella che nei prossimi anni sarà una legge ancora più articolata, e possibilmente definitiva, sull’integrazione. La norma da poco formulata è un concentrato di incentivi e limiti, efficacemente riassunti dal sito di Deutsche Welle, radio pubblica tedesca. Il governo intende creare centomila posti di lavoro attraverso sussidi, che potrebbero però essere tagliati nel caso in cui il migrante si rifiuti di accettare l’impiego offertogli. Parallelamente, viene sospesa la regola, finora vigente, secondo cui un’azienda, prima di assumere un cittadino extra-comunitario, è tenuta a verificare se per il posto di lavoro in ballo non ci siano richiese provenienti da cittadini di uno Stato membro Ue. È prevista inoltre una maggiore flessibilità in merito ai corsi di lingua e a quelli iniziali che facilitano l’integrazione, cui adesso si potrà accedere anche prima che la richiesta di asilo venga accettata. Chi è in Germania da quindici mesi potrà anche richiedere sostegno finanziario per pagarsi dei corsi professionali, ma vengono esclusi da questo coloro che provengono da Paesi considerati “sicuri”. E sono sempre di più le situazioni che rientrano in tale concetto. Tra i limiti, si registrano anche quelli sul permesso e sull’obbligo di residenza. Il primo potrà essere richiesto solo dopo cinque anni (non più dopo tre), e la concessione sarà vincolata a una buona conoscenza del tedesco e a un reddito adeguato. Quanto alla seconda, i Lander potranno stabilire le aree dove i rifugiati non potranno insediarsi o dove al contrario potranno farlo, pur se questa discrezionalità non tocca chi ha un lavoro o segue corsi professionali. Questo punto è stato duramente contestato da Pro Asyl. L’associazione, fortemente impegnata per la causa dei rifugiati, ritiene che il diritto alla libertà di movimento venga oltre modo compresso. Sempre Pro Asyl ha espresso riserve sulla revoca dei sussidi lavorativi, spiegando che non si può imporre il lavoro da svolgere. Molto severo verso la legge è stato anche Reiner Hoffmann, capo della Confederazione dei sindacati (Dbg). Sebbene vi siano degli elementi che favoriscono l’integrazione e creano opportunità, le restrizioni presenti nella legge sono una forma di populismo, ha detto Hoffmann alla versione tedesca del sito Euractiv. E questi sono i principi, per come vengono intesi da chi la legge l’ha fatta e da chi la critica. Poi c’è la faccenda del vissuto quotidiano. In un articolato pezzo, il Financial Times racconta che la burocrazia tedesca è ancora troppo spigolosa per far sì che il mercato del lavoro assorba i nuovi arrivati. E sì che questo sarebbe necessario, dato che secondo studi recenti il 60% delle aziende del comparto della tecnologia dell’informazione hanno bisogno di addetti e che, tra le piccole e medie imprese, si conta un vuoto di personale da 350mila posti, che brucia circa quattro miliardi di euro ogni anno. Ma, scrive il giornale londinese, la tante carte da firmare e la conoscenza del tedesco, non sempre tuttavia necessaria, specialmente negli ambienti più internazionali, sono a volte degli ostacoli che spingono anche i rifugiati più qualificati a scegliere la strada dell’economia informale. Vai al sito dell’Unità |
Da MondOperaio http://www.mondoperaio.net/ La coscienza protestante
di Danilo Di Matteo Papa Francesco accoglie l’invito a rivedere il ruolo delle donne nella chiesa cattolica, sulla base di ciò che avveniva fra i primi cristiani con la figura delle diacone. Intanto prosegue la feconda esperienza ecumenica dei “corridoi umanitari”, promossa dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) e dalla Comunità di Sant’Egidio. Non solo: sta mutando l’atteggiamento della chiesa di Roma verso i divorziati e le divorziate (eventualmente sposati/e di nuovo con rito civile). E non mancano gli appelli di Francesco alla sobrietà, nel solco della chiesa delle origini. Tutti eventi che trascendono la sfera religiosa e diventano oggetto di dibattito pubblico, coinvolgendo gli ambiti più diversi: culturale, politico, mediatico. Sovente ho però l’impressione che qui in Italia, per comprendere questi e altri fenomeni, in genere non si tenga conto – per dir così – di varie, importanti tessere del mosaico spirituale e culturale. Da qui l’idea di riflettere fin d’ora sui 500 anni che, nel 2017, ci separeranno dall’inizio della Riforma protestante: dall’affissione, cioè, da parte di Martin Lutero delle 95 tesi contro la vendita delle indulgenze sul portone della cattedrale di Wittenberg. Infatti, ci troviamo in una posizione assai particolare e per certi versi curiosa. Da un lato gli evangelici rappresentano da noi una piccola minoranza e lo stesso influsso etico e culturale di ciò che dalla Riforma è scaturito è nella nostra penisola relativamente modesto. Dall’altro, specie dinanzi allo scenario globale odierno, continuando a ignorare quel mondo o a considerarlo a noi estraneo rischiamo di non cogliere correttamente dinamiche, moventi e condizionamenti decisivi che in una maniera o nell’altra finiscono per coinvolgerci. Né bastano i manuali di storia o di filosofia per colmare tale vuoto. Il protestantesimo è infatti un insieme complesso di fenomeni, di fermenti, di visioni teologiche, di pratiche, di atteggiamenti. Un esempio mirabile di ciò ci viene offerto dal libro collettaneo La coscienza protestante (a cura di Elena Bein Ricco e Debora Spini, presentazione di Massimo Aquilante, Claudiana, pp. 175, € 14.90). Si tratta della “coscienza” come la intendiamo comunemente? Sì e no. No, in quanto l’idea protestante di coscienza (ma sarebbe più corretto parlare di idee, al plurale) è intimamente legata alla fede e al rapporto con Dio e con le Scritture. Nel contempo, tuttavia, i concetti di libertà di coscienza, di tolleranza, di laicità, di individuo, di soggetto, di modernità sono profondamente influenzati dalla “coscienza protestante” e a essa strettamente connessi. Si tratta dunque di studiare – e allo stesso tempo di guardare – a noi stessi, come italiani e come europei, con occhi diversi: schivando le sirene dell’approssimazione, dei luoghi comuni, della superficialità. Lasciandoci toccare da pagine dense e appassionanti del passato e della nostra identità contemporanea, che si sia credenti oppure no. |
Dalla Fondazione Rosselli di Firenze http://www.rosselli.org/ Iniziative per il 79° anniversario del sacrificio dei fratelli Rosselli
Parigi Venerdì 3 giugno, presso la Maison d'Italie della Cité Internationale Universitaire di Parigi (7A, boulevard Jourdan), la Fondazione Circolo Rosselli, la Maison d'Italie della Cité Internationale Universitaire di Parigi e la Società Dante Alighieri di Parigi organizzano la presentazione del libro: Carlo e Nello Rosselli. Testimoni di Giustizia e Libertà (Firenze, Clichy, 2016) a cura di Valdo Spini. Intervengono Michele Canonica (Società Dante Alighieri), Roberto Giacone (Direttore della Maison d'Italie), Stefano Montefiori (Corriere della Sera), Eric Vial (Université Cergy-Pontoise). Sarà presente Valdo Spini, autore del libro Bagnoles de l'Orne Sabato 4 giugno, alle ore 15.30, a Bagnoles de l'Orne, sul luogo dell'uccisione di Carlo e Nello Rosselli, inaugurazione del restauro del monumento ai Rosselli operato gratuitamente dagli Studi Nicòli di Carrara. Saranno presenti: Olivier Petitjean, Sindaco di Bagnoles de l'Orne-Normandie, Jean-Pierre Bloue, Sindaco delegato alla Mairie di Bagnoles de l'Orne Giandomenico Magliano, Ambasciatore italiano a Parigi Andrea Cavallari, Console generale d'Italia a Parigi Parteciperà Monica Rosselli a nome della famiglia. Parlerà Valdo Spini, Presidente della Fondazione Circolo Rosselli Firenze Giovedì 9 giugno, alle ore 17, presso la Fondazione Circolo Rosselli, in via degli Alfani 101 r. a Firenze, saranno ricordati Carlo e Nello Rosselli nel settantanovesimo anniversario del loro sacrificio. Nell'occasione si discuterà il libro Carlo e Nello Rosselli. Testimoni di Giustizia e Libertà (Firenze, Clichy, 2016) a cura di Valdo Spini. Ne discutono con Valdo Spini, autore del libro: Francesco Ghidetti (Quotidiano Nazionale) Mauro Bonciani (Corriere fiorentino/Corriere della Sera) Presiede: Ariane Landuyt (Università di Siena). |
FONDAZIONE NENNI http://fondazionenenni.wordpress.com/ Così Umberto II tramò contro l’Italia Il 15 marzo del 1983 Riccardo Lombardi prese la parola in Parlamento per impedire il ritorno in Italia di Umberto II, ormai in fin di vita (sarebbe morto a Ginevra tre giorni dopo quel discorso). Non si trattò di una postuma vendetta di un vecchio capo della Resistenza né di un eccesso da “estremista” repubblicano. Tutto ruotava intorno alla XIII disposizione transitoria e finale che all’epoca era in vigore in tutte le sue parti recitando così: "I membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici né cariche elettive. Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale. I beni, esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli". L’11 luglio del 2002, la Camera dei deputati con il voto a favore di 347 deputati ha reso inefficaci i primi due commi consentendo ai discendenti di Umberto II di rimettere piede nel paese d’origine. Ma per quello che alla storia è passato come il “re di maggio” la questione era più complessa perché Umberto molto si era prodigato per suscitare nel paese reazioni di tipo eversivo, facendo interdizione, ritardando dopo il voto l’uscita di scena, cercando sponde nazionali e internazionali per la realizzazione dei suoi progetti di rivincita, arrendendosi alla fine con un proclama che di fatto metteva in discussione la legittimità della neonata Repubblica. E pur di non riconoscere la legittimità della nuova forma istituzionale, preferì partire in esilio, alla volta del Portogallo. Nessuno gli aveva ancora inflitto quella “condanna”, tanto è vero che la XIII disposizione transitoria e finale sarebbe arrivata soltanto un anno e mezzo dopo. L'intervento di Lombardi, ultimo sopravvissuto tra i protagonisti-testimoni di quelle vicende, è una piccola lezione di storia nazionale che sarebbe opportuno rivisitare anche a scuola dove la figura del “re di maggio” viene presentata in una veste sin troppo accettabilmente romantica. Quell’intervento parlamentare fu, come sottolinea lo stesso autore, una grande fatica: le condizioni di salute del leader stavano peggiorando e poco più di un anno dopo sarebbe scomparso. Si sottopose alla “fatica” per fedeltà ad antichi e incrollabili principi, gli stessi che quattro anni prima avevano convinto Pietro Nenni a farsi portare a braccia alla seduta inaugurale del Senato pur di evitare che il diritto di anzianità attribuisse a un fascista il privilegio di presiedere la seduta d'inizio legislatura. I medesimi principi che ispirano questa Fondazione sin dalla nascita e che sempre la ispireranno. Lombardi Riccardo. Signor presidente, onorevoli colleghi, ignoro quali siano il valore e la consistenza dei nuovi propositi annunziati dal relatore, onorevole Bozzi, e discussi in Commissione affari costituzionali, forse, se ci fossero stati esposti, avremmo potuto cominciare fin da oggi a prenderne atto e discuterne. La probabilità che queste nuove proposte rendano inutile la discussione di oggi mi pare sia grande. E di tempo da perdere non ne abbiamo molto, in questa Camera. Comunque, allo stato degli atti, la proposta di fronte alla Camera è quella della Commissione, cioè essenzialmente la proposta di legge Bozzi-Mammì, e su di essa, a giudicare anche e soprattutto dalla seduta precedente (l’unica fino ad oggi dedicata a questo argomento), abbiamo constatato una singolare distorsione tra chi ha pensato di proporre la legge di abrogazione della XIII disposizione, pensando che come sottoprodotto, come conseguenza indiretta, l’abrogazione sarebbe stata un atto di umanità verso un uomo anziano e sofferente, e chi, al contrario (lo ricaviamo sempre dalla seduta precedente e dal dibattito che si è svolto sulla stampa) non vuole consentire all’ex re di passare gli ultimi giorni della sua vita in Italia, provvedendo allo scopo ad una modifica costituzionale. Devo dire che questa singolare inversione di termini è stata resa, in modo evidentissimo dall’incredibile intervento del ministro Darida (nella seduta precedente), allorché abbiamo assistito a stravolgimenti davvero sorprendenti, arrivati al punto di suggerire una modifica della Costituzione per decreto legge. Veramente siamo fuori dalla logica ordinaria ed anche dal modo comune di esprimere i propri propositi! Quindi per il momento dobbiamo discutere sul progetto presentato alla Camera ed io non ho che da perdere pochissimi minuti in una discussione che, tra l’altro, affronto con fastidio. Sono guidato soltanto dalla considerazione secondo la quale mi sembra che, nella polemica pubblica e, in parte, nel dibattito già svoltosi in questa Camera, si sia dimenticata una questione elementare, vale a dire che l’ex re Umberto non è stato affatto esiliato, ma si è auto-esiliato. Bisogna ricordare che il giorno 13 giugno 1946, allorché dopo le vicissitudini alle quali accennerò, egli si decise ad accettare, o per lo meno a prendere atto del responso del referendum, nessuno lo obbligò a partire. La XIII disposizione transitoria e finale fu discussa e approvata 18 mesi dopo la partenza dell’ex re. Si era nel giugno del 1946 e la Costituzione della Repubblica, con i suoi articoli che escludevano il rientro in patria del Savoia, è del dicembre 1947. Non esiste quindi un decreto della Repubblica che abbia allontanato il Savoia o i Savoia. Egli si è autoescluso e questa è la conclusione che rende a mio giudizio incomprensibile una revisione della XIII disposizione improponibile per ragioni morali e politiche, improbabile forse per ragioni giuridiche. Mi consentirete ancora alcuni minuti per dirvi che, purtroppo dei membri del Governo che presiedettero alla transizione dalla monarchia alla Repubblica sono il solo superstite in questa Camera, tutti gli altri sono morti. Io sopravvivo e sono l’ultimo testimone di una fase che fu drammatica – non fu pacifica, Mellini – e rappresentò minacce dirette, sentite come tali da uomini rispettabili come De Gasperi e Brosio. Cosa è accaduto? È accaduto che negli otto giorni che trascorsero tra l’annuncio del risultato del referendum e la decisione da parte del re, di riconoscere finalmente il fatto compiuto, il Governo fu costretto a sedere in permanenza, giorno e notte, tanto fu avvertita come grave e urgente la minaccia di eversione, e tanto si sapeva, in modo indiscutibile, che le tergiversazioni, gli appelli ad interpretazioni inammissibili del risultato del referendum erano fatti unicamente allo scopo di sollecitare movimenti eversivi del paese, di cui erano un segnale gli eventi napoletani di quei giorni. Problema reale, problema che comprendeva alcune incertezze manifestate dall’allora capo del governo militare alleato, ammiraglio Stone, problemi gravi all’interno dell’Arma dei carabinieri, problemi non più gravi, per ragioni fortunate nella marina. Sulla marina i Savoia contavano, data la fede monarchica della maggior parte dei quadri superiori e intermedi, fede che a differenza di quella dell’esercito, si era mantenuta intatta anche perché, a differenza di quella dell’esercito, non era stata sottoposta al trattamento vergognoso cui l’esercito fu invece sottoposto con la fuga e con l’abbandono dei Savoia e del Governo Badoglio, l’8 settembre. La marina era in mare, perdette alcune navi nell’urto, nel momento di riparare in Sardegna, ma non subì… e quindi non condivise il comune astio della popolazione italiana verso i Savoia. Tuttavia si aveva qualche pericolo, che però era stato evitato dalla fedeltà riconosciuta dei supremi dirigenti della marina, anche di quelli che erano monarchici. Mi piace citare l’ammiraglio Maugeri Capo di S.M. della marina. L’ammiraglio Maugeri – non rivelo niente di straordinario, perché queste cose le dissi a De Gasperi e a Romita che erano i responsabili dell’ordine pubblico – che tuttavia era monarchico ma voleva essere fedele alle istituzioni, in antecedenza, un mese prima dell’evento, in una conversazione che ebbi con lui su sua proposta, mi disse che la marina sarebbe stata concentrata a La Spezia, che egli garantiva la fedeltà, purché vi fosse, un governo in caso di eversione, tanto il pericolo di eversione era temuto da uomini non facili alle suggestioni. Dunque, che un governo vi fosse, che fosse in grado di parlare, di essere un interlocutore e che poi – piccolo accorgimento – non fosse imposto rapidissimamente, in poche ore, il cambio di bandiera alle navi. A parte questa sicurezza che alcuni di noi avevano da parte della Marina, i pericoli esistevano, erano reali e su essi speculava freddamente, con tortuosità e contegno che non esito a qualificare ignominioso, l’ex re, allora non ancora ex, e soprattutto il suo maestro di palazzo, o maestro della real casa che fosse, marchese Lucifero. I colloqui che si svolsero in quei giorni, le trattative tra il governo che – ripeto – sedeva in permanenza, e la casa reale furono del resto raccontate da Mario Bracci allora ministro del commercio con l’estero, che come giurista fu incaricato dal presidente De Gasperi di accompagnarlo e di assisterlo nelle conversazioni con i dirigenti della casa reale e con lo stesso Umberto. Devo dire che in quell’occasione De Gasperi si mostrò un uomo di alta statura, pieno di coraggio, coraggio perfino fisico, poiché ad un certo punto fu minacciato persino di vie di fatto e credo che ne abbia subito, specialmente nell’ultimo dei colloqui che ebbe con i dirigenti di casa reale. Si mostrò – dicevo – all’altezza della situazione e quando si trattò di interrompere ogni tergiversazione e di compiere l’atto non di forza, ma giuridicamente necessario, per troncare il nodo e dichiarare l’assunzione provvisoria dei poteri di Capo dello Stato da parte del Presidente del Consiglio (cioè dello stesso De Gasperi) egli fu il primo a proporlo ed il governo ad accettarlo all’unanimità, meno un voto che non ricordo di chi fosse, probabilmente di uno dei ministri che politico non era, cioè dell’ammiraglio de Courtnen che era nel consiglio dei ministri più per incarico alleato che su designazione nazionale. Il contegno di quei giorni e la soluzione che quel contegno lasciava figurare, oltre agli antecedenti di tale contegno… Qualcuno qui ha ricordato che casa Savoia si era dimostrata durante il periodo di preparazione del referendum, capace di mantenere gli impegni. Non è affatto vero. Non è affatto vero! Il compromesso istituzionale che era stato raggiunto con il Comitato di liberazione e con il Governo, dopo l’insediamento di quest’ultimo a Roma, era stato che la situazione della casa regnante fosse mantenuta, fino al referendum, vale a dire che Umberto rivestisse la carica di luogotenente del regno, non di re. L’assunzione dei poteri monarchici, con l’abdicazione, fu una vessazione e una forzatura, sentita come tale e giudicata come tale dal Governo e dal paese. Fu un mezzo per poter forzare una situazione presentando all’elettorato che poco tempo dopo avrebbe dovuto pronunciarsi con il referendum una situazione già monarchica, stabilizzata in qualche modo e rilegittimata. Quindi, si trattò di una prima violazione precedente, cui seguì la violazione successiva delle tergiversazioni, dell’ostilità e della renitenza ad accogliere il verdetto costituzionale. Quando alla fine il Governo fece il gesto che non chiamo di forza, ma di diritto, di proclamare l’insorgenza del periodo di transizione e l’assunzione dei poteri di Capo provvisorio dello Stato da parte del Governo, Umberto partì. Debbo dire che per questa partenza, io personalmente – scusatemi se faccio un riferimento personale – ebbi l’impressione che molte cose fossero maturate nella notte. Incontrai il re, non più re, poiché il referendum era già avvenuto, su sua richiesta, la mattina del giorno in cui poi partì. De Gasperi, Presidente del Consiglio, mi autorizzò ad andare supponendo che si trattasse di stabilire facilitazioni per il viaggio (io ero ministro dei trasporti) o per ragioni valutarie, ed invece mi trovai di fronte ad un fatto che umanamente mi colpisce ancora. Egli mi disse che aveva voluto vedermi perché fra gli uomini che si erano opposti alla monarchia riteneva che io e la mia parte fossimo stati i più intransigenti ma anche i più leali. Disse che non serbava alcun rancore e che partiva con il rammarico di dover vivere lontano dalla sua patria. Debbo dire che mi fece l’impressione non soltanto di essere in buona fede, ma di provare un sincero dolore e un sincero rammarico. Con la risposta umana che gli diedi, ricordandogli quanta gente, senza colpa, era morta in esilio e che tutti nella nostra generazione, una generazione tragica, dovevamo sopportare i pesi di una situazione in cui le responsabilità personali sono sempre difficili da accettare, pensavo si ponesse fine, in forma pacata, alla situazione. Fu la mia sorpresa, la mia grande sorpresa, il proclama che apparve l’indomani a firma di Umberto. Si deve pur ricordare che cosa era scritto. Vi si proclamava che… : “In spregio alle leggi ed al potere indipendente della magistratura, il Governo ha compiuto un atto rivoluzionario…” Non si tratta di domandare ad Umberto, che viva all’estero o che ritorni in Italia, di diventare repubblicano. Se egli non avesse scelto l’esilio e se ciò non fosse stato reso obbligatorio proprio in seguito al suo contegno, al suo misconoscimento della legittimità… E questa è una cosa grave. Non sollevo questioni di imputazione né giuridica, né morale, ma mi richiamo semplicemente ad un elementare buon senso giuridico. Lasciatelo fare a me, non giurista… Significava allora e significa oggi! Perché in Italia è consentito essere monarchici: il fatto che sia stata stabilita la forma repubblicana non significa certo che sia proibito alla gente di nutrire sentimenti monarchici. Lo stesso re, se fosse rimasto in Italia, avrebbe potuto continuare a contestare la Repubblica, ma dopo aver riconosciuto la legittimità della sua nascita! Prima si riconosca che la Repubblica è nata nella piena legittimità, poi la si contesti quanto si vuole, le si oppongano altre forme ritenute migliori, ci si butta contro di essa! Non si neghi, però, la legittimità della sua origine: è questo diniego della legittimità della sua origine che, a mio giudizio, non – forse – per ragioni giuridiche, ma certamente per ragioni morali e politiche, rende non proponibile l’abrogazione della XIII disposizione transitoria. Tralascio i problemi posti dall’onorevole Mellini, che sono di qualche rilevanza (lo riconosco) e tali da non essere trascurati, ma qui siamo oggi di fronte a una proposta molto precisa, molto importante, già dibattuta dall’opinione pubblica, che ha pure, abusivamente, dato adito ad una immensa cortigianeria di cui l’Italia non sentiva proprio il bisogno, ad una riproposizione servizievole di uomini e donne, pubblicisti e non: sentiamo appellata alla radio l’ex regina (una onesta signora, peraltro) come “maestà”! Signori miei! La Repubblica è adulta, è forte: avevamo proprio bisogno che ad ogni morte, funerale, battesimo, nascita o matrimonio, re, ex re, servitori di re, cortigiani d’Europa di ogni sorta venissero a Roma ad infastidirci? È una questione anche di costume e di pulizia! Ma non è questo che mi induce ad esprimere un’opinione assolutamente contraria alla proposta di legge, bensì il problema del riconoscimento della legittimità della Repubblica. Si riconosca prima tale legittimità, poi si potrà discutere tutto. Ciò non significa un suggerimento di do ut des, di compromesso: il riconoscimento della legittimità della Repubblica contro l’abolizione della XIII disposizione. No si tratta di una premessa che si deve verificare “gratuitamente”; solo dopo tale premessa potrà essere impostato un discorso su questi problemi. Ma prima che tale premessa sia realizzata un discorso di revisione costituzionale non è a mio giudizio proponibile. Questo volevo dire, e con questo ho concluso una ingrata fatica. (Vivi, prolungati applausi dei deputati del gruppo del Psi, dell’estrema sinistra, dei deputati del gruppo Pdup e radicale e della sinistra indipendente – Molte congratulazioni) |
Storia dell’emancipazione Se otto ore ci sembran tante… L'anniversario delle lotte delle mondine, centodieci anni fa, riporta alla luce la figura di Modesto Cugnolio di Marco Barberis e Giovanni Ferraris “Se otto ore ci sembran tante…” è il titolo del convegno promosso a Vercelli dal Gruppo di Volpedo e dal Circolo Modesto Cugnolio il 14 maggio in vista del 110° anniversario delle lotte sindacali in risicoltura che portarono – il 1° giugno del 1906 – al riconoscimento delle otto ore lavorative. Come si sa, le mondine furono le protagoniste di quelle lotte. Da allora le 8 ore sono diventate prima l’obiettivo e poi il risultato di tutte le rivendicazioni sindacali. Il convegno, ricordando quel grande evento, è stato anche occasione per iniziare a riflettere se le 8 ore sono ancora un sistema di organizzazione del lavoro valido, soprattutto nel momento della massiccia introduzione della robotica nelle attività produttive. Non tutti sanno invece che all’origine di quel movimento vi fu il lavoro di Modesto Cugnolio, della cui figura e opera hanno parlato a Vercelli Marco Barberis, già giornalista dell’Avanti!, e Giovanni Ferraris, presidente della società storica vercellese. Barberis ha spiegato che «celebrare oggi la conquista delle “otto ore” di lavoro delle mondariso vercellesi – nel lontano 1906 – con la devozione che si deve alla memoria di un passato di grandi sconfitte e di ancor più grandi vittorie, vuol dire essere consapevoli che quelle lotte, quei dolorosi scontri sociali esprimono valori di tutta attualità e… parlano ancora al cuore e alla mente della nostra gente. Nel 1976, la giunta comunale di Vercelli, retta da Ennio Baiardi, organizzò al Teatro Civico la manifestazione celebrativa per la ricorrenza settantennale, quando ancora alcune testimoni ultra ottuagenarie erano in vita e narrarono episodi di quelle giornate infuocate. L’evento trovò il suggello in una pubblicazione curata dalla civica amministrazione che riporta la cronaca degli avvenimenti e raccoglie gli atti del processo seguito agli scontri di piazza: 26 persone tradotte in catene di cui 11 donne: la più giovane di 16 anni, la più anziana di 32. Nella prefazione che il leader socialista Pietro Nenni scrisse di suo pugno: «le mondine assolsero ad un mandato in certo qual senso prioritario, quello di aprire la via alle più vaste agitazioni contadine e bracciantili, mentre nasceva la grande industria sulla quale doveva poi trasferirsi l’onere più pesante della lotta di classe…». Secondo la ricostruzione fatta da Barberis, il congresso della Federazione Regionale Agricola, costituita dalle Leghe, svoltosi nel dicembre del 1902 pose le basi delle lotte che dilagarono in tutta la pianura risicola negli anni successivi. Uno dei relatori, l’Avv. Modesto Cugnolio si soffermò sul Regolamento per le risaie, firmato dal Ministro Cantelli e mai applicato nonostante fosse in vigore dal 1869. Il Regolamento prevedeva che “i lavori della risaia devono iniziarsi un’ora dopo il levar del sole e terminare un’ora prima del tramonto”. «Denunciando le inadempienze di legge da parte degli agrari, le agitazioni assunsero un preciso carattere rivendicativo in ordine sia all’orario di lavoro, sia alle retribuzioni orarie, sia alle condizioni igienico-sanitarie in cui vivevano e lavoravano le mondine. All’inizio di giugno 1906, Vercelli fu paralizzata da un massiccio sciopero dei braccianti cui si unirono gli operai delle officine e delle attività commerciali. Nei quartieri periferici furono erette barricate mentre il centro città era presidiato dalla Cavalleria. Un plotone di fanti fece una carica per sgomberare il passaggio a livello dell’Isola ove erano rimasti bloccati alcuni convogli ferroviari. Esplosiva la tensione in città nella mattinata del 6 giugno: la folla aveva invaso il portico del Municipio dove si stavano svolgendo le trattative fra i rappresentanti degli agricoltori e i Sindacati. Tre squilli di tromba fecero temere lo scontro fisico fra le parti; truppe e Carabinieri si limitarono invece a fare scudo, poi addirittura indietreggiarono nel cortile del Municipio. La folla si sciolse in un applauso liberatorio mentre i capi della Camera del Lavoro si incaricarono di bloccare le isolate teste calde che volevano salire negli uffici. La folla di dimostranti continuò a rumoreggiare… poi serpeggiò una voce: “C’è l’accordo… 8 ore”. Dalla loggia comunale il Sindaco diede l’annuncio, confermato dall’operaio Somaglino, presente alla trattativa, e dall’Avv. Cugnolio. Le 8 ore erano diventate una realtà unitamente alla paga oraria di 25 centesimi». La legge che regolamenterà l’orario di lavoro, come ha ricordato Barberis, dovrà ancora attendere alcuni anni, fino al 1911. Il dado, tuttavia, era tratto; e a propiziare la svolta erano stati personaggi come Cugnolio. Questo è il ritratto che ne fa il professor Ferraris: «Modesto Cugnolio nacque a Vercelli da Pietro e da Giuseppina Riva il 21 marzo 1863. Di famiglia agiata, fu educato dai Barnabiti di Moncalieri, cioè nel più aristocratico collegio del Piemonte. Si laureò in legge nell’Università di Torino. Avendo incominciato a esercitare la professione forense, venne subito a contatto con la più triste realtà del Paese. Già nel 1897, nelle sue prime cause penali, si trovò a dover difendere politici perseguitati e umili lavoratori, e 1a sua partecipazione al ruolo di difensore fu così intensa e vissuta che durante le agitazioni del 1898 le autorità lo cacciarono in prigione per tre settimane. Nella torre del castello del Beato Amedeo, a Vercelli, fece la scelta della sua vita: entrato borghese, uscì socialista. Cugnolio ricoprì varie cariche pubbliche: consigliere comunale a Vercelli dal 1909; eletto alla Camera nel 1913; consigliere provinciale per il collegio di San Germano Vercellese dal 1914. Fu membro dell’Amministrazione dell’Ospedale Maggiore di Vercelli e consigliere della Stazione Sperimentale di Risicoltura. Morì di polmonite e Roma il 18 marzo 1917. Una settimana prima aveva parlato alla Camera sulle condizioni dell’agricoltura durante la guerra. Fu un discorso molto contestato da rumori e da intemperanze. Cugnolio appariva indisposto e affaticato, ma tenne testa agli oppositori sino alla fine, compiendo una fatica superiore alle sue forze. Subito dopo si rifugiò in albergo, dove si pose a letto per non rialzarsi più. Per i contadini della pianura vercellese egli è stato voce, guida, apostolo. Il miglioramento della condizione umana del lavoro in risaia è stato lo scopo essenziale della sua esistenza. Nel suo testamento egli chiese: “solo funerali civili e i miei contadini”. E dalle campagne “i suoi” contadini accorsero a migliaia al suo funerale, assiepandosi nelle strade di Vercelli come mai era avvenuto. E’ sepolto a Vercelli nel cimitero di Biliemme; per lascito testamentario la tomba deve essere mantenuta in buone condizioni dall’Ospedale S. Andrea, cioè dall’ASL di Vercelli. Cugnolio svolse un’intensa attività sindacale e politica. Nel Vercellese organizzò le prime leghe contadine, organizzò il partito, guidò agitazioni e scioperi che, vittoriosi o meno, a poco a poco resero meno disumane le condizioni di vita dei lavoratori delle risaie. Con i contadini a poco a poco riuscì a stabilire un efficace contatto umano. Nei comizi che faceva nei paesi parlava in dialetto, esponendo le sue idee con semplicità. Nel 1901 fondò La Risaia di cui fu direttore politico. Ne1 1903, per dissensi con i suoi compagni, lasciò La Risaia e fondò La Monda, che ebbe vita breve; infatti, le esigenze unitarie dell’azione sindacale e politica sanarono presto il piccolo scisma e Cugnolio ritornò alla guida delle organizzazioni proletarie locali. Ebbe un’enorme risonanza la lunga lotta che ingaggiò per limitare a otto ore il lavoro in risaia. Fu una lotta contro una mentalità, contro presunte ragioni di tecnica agricola, contro non piccoli interessi economici e persino contro autorevolissimi compagni di partito. Incominciò avanzando motivazioni giuridiche. Andò a riesumare un vecchio regolamento fatto per debellare la malaria (il regolamento Cantelli), che era rimasto sempre inosservato ed obliato per oltre un trentennio, ma che in pratica non consentiva più di otto ore di lavoro in risaia, e ne sollecitò l’applicazione, creando sconcerti ed imbarazzi. In questo modo i legalitari di sempre, gli agrari, vennero a trovarsi nell’illegalità, mentre i contadini divennero i fautori del rispetto della legge. L’opera di Cugnolio per tutto il biennio 1904-1905 fu di instancabile, paziente e martellante tenacia nello spingere all’azione carabinieri, sotto-prefetti e magistrati al fine di far rispettare il regolamento Cantelli. Con tale azione conseguì il duplice risultato d’incrinare il fronte padronale e di creare attorno al concetto delle otto ore la solidarietà delle leghe, che ora si davano un grande obiettivo di lotta. Gli agrari, con la complicità del governo, riuscirono a fare abolire il regolamento Cantelli, ma non riuscirono più ad arrestare la poderosa spinta di migliaia di lavoratori, decisi ormai ad ottenere come conquista sindacale ciò che non veniva più concesso in forza di legge. Nel 1906, l’anno dei grandi scioperi, Cugnolio superò se stesso dimostrando capacità politiche e sindacali eccezionali, ma soprattutto dimostrando doti di straordinaria umanità, che gli diedero la possibilità di portare i contadini alla vittoria senza quei tragici eccessi, che altrove, per vertenze sindacali di minor conto, insanguinarono le campagne. Con questo suo metodo coscienzioso e anti-demagogico, non solo riuscì a fare progressivamente accettare il limite delle otto ore, ma, sebbene non fosse ancora deputato, riuscì a fare migliorare tutta la legislazione che regolava il lavoro in risaia. (…) Cugnolio non era uomo da lasciarsi facilmente incastrare negli schematismi di partito. La sua formazione spirituale era classica, i suoi interessi culturali erano intensi e molteplici, la sua mente era portata all’indagine critica. Conseguentemente anche le sue scelte politiche, sindacali e amministrative non furono mai conformiste e talvolta risultarono molto scomode ed ingombranti per il partito, in cui egli rimaneva un solitario. L’ideale di libertà, insieme con il profondo convincimento che questo ideale non poteva in concreto svilupparsi se non in un mondo di eguali, fu l’ideale semplice e supremo di Modesto Cugnolio. Scrisse di lui l’on. Fabrizio Maffi, suo compagno e molte volte suo avversario interno di partito: “egli non ebbe mai feticci e non li creò mai: fu sempre un uomo libero nella parola e nella vita”. La composizione senza gravi incidenti della vertenza del 1906, con la conquista delle otto ore giornaliere nei lavori di risaia, sollevò vari interrogativi su come, il pur abile Cugnolio, fosse riuscito a “convincere” gli agrari. Una forte tradizione orale volle che le trattative più proficue si fossero svolte “tra squadra e compasso”, come si dice in gergo. D’altronde, ricerche d’archivio hanno permesso di stabilire, senza ombra di dubbio, che Cugnolio fu affiliato alla Massoneria. Durante e dopo il Congresso di Ancona, dove, su proposta di Mussolini, fu dichiarata l’incompatibilità fra l’iscrizione al PSI e l’appartenenza alla Massoneria, Cugnolio continuò a difendere la posizione contraria, nonostante i fulmini del Partito (…) Nel secondo Dopoguerra ci fu poi una contrapposizione continua tra amministrazioni di sinistra che gli intitolavano una via e successive amministrazioni di parte opposta la cancellavano. Qualche intitolazione ancora resiste, in particolare resiste a Vercelli Piazza Cugnolio». |
LETTERA Ma veramente Sarà stato sicuramente un bravissimo reporter, Andrea Rocchelli, e dispiace che un giovane abbia perso la sua giovane vita durante la quale si sarà sicuramente espresso concetti più felici. Perché nelle società capitalistiche normalmente, se "produci" sei un dipendente. Spesso anche molto dipendente. Glissiamo sul legittimo appello al si motivato da una serie di "io mi ricordo" e petizioni di principio non indimostrate, semplicemente indimostrabili. Veramente è difficile capirvi una volta concedete spazio un provocatore professionista come Rondolino adesso l'appello per il sì. Una linea editoriale che pare un dente di sega va su e giù senza che ne si possa cogliere il senso. Aspetti, ecco, ho trovato: siete veltroniani, diciamo, quelli del "ma anche": Sosteniamo Besostri contro la legge elettorale, ma anche Renzi per il Sì al referendum sulla riforma costituzionale di cui quella legge è il pivot. Chi vi capisce è bravo. Ma veramente! Lettera firmata Ma veramente lei non coglie il senso che "produzione" aveva per Rocchelli, il quale intendeva questo termine come contrario di "rimasticazione di notizie preconfezionate". Quanto al Referendum – premesso che siamo da sempre contrari nel metodo e nel merito alla revisione renziana – vediamo bene che gli argomenti proposti dai fautori del Sì meritano anch'essi riflessione politica. Perciò riteniamo utile il confronto delle idee anziché lo scontro. – La red dell’ADL |
L'AVVENIRE DEI LAVORATORI EDITRICE SOCIALISTA FONDATA NEL 1897 Casella postale 8965 - CH 8036 Zurigo L'Avvenire dei lavoratori è parte della Società Cooperativa Italiana Zurigo, storico istituto che opera in emigrazione senza fini di lucro e che nel triennio 1941-1944 fu sede del "Centro estero socialista". Fondato nel 1897 dalla federazione estera del Partito Socialista Italiano e dall'Unione Sindacale Svizzera come organo di stampa per le nascenti organizzazioni operaie all'estero, L'ADL ha preso parte attiva al movimento pacifista durante la Prima guerra mondiale; durante il ventennio fascista ha ospitato in co-edizione l'Avanti! garantendo la stampa e la distribuzione dei materiali elaborati dal Centro estero socialista in opposizione alla dittatura e a sostegno della Resistenza. Nel secondo Dopoguerra L'ADL ha iniziato una nuova, lunga battaglia per l'integrazione dei migranti, contro la xenofobia e per la dignità della persona umana. Dal 1996, in controtendenza rispetto all'eclissi della sinistra italiana, siamo impegnati a dare il nostro contributo alla salvaguardia di un patrimonio ideale che appartiene a tutti. |
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