L'AVVENIRE DEI LAVORATORI La più antica testata della sinistra italiana, www.avvenirelavoratori.eu Organo della F.S.I.S., organizzazione socialista italiana all'estero fondata nel 1894 Sede: Società Cooperativa Italiana - Casella 8965 - CH 8036 Zurigo Direttore: Andrea Ermano > > > PDF scaricabile su http://issuu.com/avvenirelavoratori < < < e-Settimanale - inviato oggi a 44203 utenti - Zurigo, 5 marzo 2015 |
IPSE DIXIT Sotto qualsiasi forma - «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.». – Costituzione della Repubblica italiana
Qualche giorno fa in Umbria è stato oltraggiata la Cascina Raticosa, luogo simbolo della Resistenza, rimuovendo una targa commemorativa e disegnando una svastica. L'ex partigiano novantenne Enrico Angelini (foto) è salito alla Cascina e ha rimosso la svastica armato di spazzola e sverniciatore. |
Conformemente alla Legge 675/1996 tutti i recapiti dell'ADL Newsletter sono utilizzati in copia nascosta. Ai sensi del Codice sulla privacy (D.L. 30.6.2003, 196, Art. 13) rendiamo noto che gli indirizzi della nostra mailing list provengono da richieste d'iscrizione, da fonti di pubblico dominio o da E-mail ricevute. La nostra attività d'informazione politica, economica e culturale è svolta senza scopi di lucro e non necessita di "consenso preventivo" rivestendo un evidente carattere pubblico come pure un legittimo interesse associativo (D.L. 30.6.2003, 196, Art. 24). L'AVVENIRE DEI LAVORATORI contribuisce da oltre 115 anni a tenere vivo l'uso della nostra lingua presso le comunità italiane nel mondo tra quelle persone che si sentono partecipi degli ideali socialisti-democratici di Giustizia e Libertà. |
LAVORO E DIRITTI a cura di www.rassegna.it Oltre l'Otto Marzo Guardare il mondo con gli occhi delle donne. Nella classifica mondiale della parità di genere restiamo tra i paesi con minore partecipazione delle donne nel mercato del lavoro e tra quelli con le maggiori disparità salariali. di Susanna Camusso Chi ha paura delle donne? È arrivato il momento di rompere il tabù che imperversa nel nostro paese, dove la questione delle pari opportunità e del superamento delle diseguaglianze tra uomini e donne è ampiamente occultata. Il governo italiano si è perfino dimenticato di aver ratificato la Convenzione di Istanbul, che dal 1° agosto 2014 rendeva obbligatoria l'applicazione dei principi e delle normative contenuti in quel testo, definito storico, che al primo articolo recita '...contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne e promuovere la concreta parità tra i sessi...'. Ma il silenzio che è seguito dimostra che il tema non rientra nell'agenda politica italiana.
Susanna Camusso Eppure occupazione e redditi delle donne sono da tempo i principali problemi, seguiti, ma non per ordine di importanza, dalle troppe diseguaglianze acuite da questa lunga crisi. E, nonostante leggi nazionali e internazionali prevedano parità di trattamento e di retribuzione, nella classifica mondiale della parità tra uomini e donne restiamo tra i paesi con minore partecipazione delle donne nel mercato del lavoro e tra quelli con le maggiori disparità salariali. Con l'effetto di un maggior divario pensionistico a sfavore delle donne, a cui non viene garantito il diritto all'autonomia economica a conclusione della loro vita lavorativa. Quello dell'Italia è una grave ritardo, non esclusivamente di ordine culturale, che penalizza il genere femminile e l'intera economia. Lo confermano studi, ricerche e statistiche nazionali e internazionali, il più recente dei quali è l'ultimo studio del Fmi, che quantifica i danni del sessismo nel mondo in 9.000 miliardi di dollari all’anno, a causa di restrizioni legali e della parità di genere ancora lontana da raggiungere. Una discriminazione contro il genere femminile che all'Italia fa perdere più del 15% della ricchezza potenziale. Dagli Stati Uniti è partita in questi giorni una vera e propria offensiva perché la partecipazione paritaria delle donne al mercato del lavoro, oltre che una battaglia di equità e democrazia, diventi prioritaria per la crescita. Il “tam tam” dell’equal pay lanciato da Barack Obama mobilita attori, politici, gente comune. Sul fronte europeo, negli ultimi anni, Francia, Belgio, Austria e Portogallo si stanno muovendo verso la parità retributiva con l'approvazione di apposite leggi che spaziano dal rafforzamento dei controlli all’obbligo periodico di presentazione di analisi comparative tali da monitorare quella che in azienda è la struttura salariale. La situazione italiana è una delle più contraddittorie: il formidabile avanzamento delle donne in politica – il governo è composto al 50% da donne, che nel Parlamento sono il 30% – è speculare all'aumento delle disuguaglianze economiche e sociali, al peggioramento sul piano occupazionale e retributivo, che penalizza la vita materiale delle donne che lavorano. E di quelle che non lavorano più: le pensionate, spesso costrette dalla crisi, dallo svuotamento del welfare e dalla precarietà dei figli a svolgere il ruolo improprio di ammortizzatore sociale. La politica finge di non sapere che la mancanza di servizi è un freno all’occupazione femminile e allo sviluppo. Le donne sono penalizzate anche dalla maternità, come se non avesse un valore sociale. Soltanto 43 su 100 mantengono il lavoro dopo la nascita di un figlio, che insieme al lavoro di cura troppo spesso favorisce la loro uscita dal mercato del lavoro. Le aziende devono sapere che la diversità è una risorsa, bisogna solamente essere capaci di gestirla. Con i decreti attuativi, il Jobs Act è entrato nel vivo. Presentato come una misura a favore dei giovani e delle donne, è in realtà privo di un'analisi di genere e iniquo sul piano della parità e dell'equità. È il mantenimento delle differenze e non la lotta alla precarietà. I provvedimenti del governo hanno complessivamente saccheggiato il diritto del lavoro e per questo la Cgil presenterà una proposta di legge per un nuovo Statuto dei lavoratori, per estendere tutele e diritti a tutti i lavoratori e lavoratrici, indipendentemente dalla tipologia contrattuale. Il 9 marzo a New York si apre la 59a sessione della Commissione sullo stato delle donne delle Nazioni Unite, che valuterà i progressi compiuti dalla Conferenza mondiale di Pechino nel 1995, in cui si stabilì la necessità di una verifica ogni cinque anni rispetto all'attuazione del Programma d'azione fondato sue tre pilastri: genere e differenza, empowerment, mainstreaming. Ovvero: guardare il mondo con gli occhi delle donne. La Conferenza di Pechino ha rappresentato una pietra miliare nel riconoscimento dei diritti umani delle donne. Venti anni dopo, attraverso i rapporti quinquennali dei governi, si esamineranno i traguardi raggiunti rispetto agli obiettivi strategici delle 12 aree critiche individuate dalla Piattaforma di Pechino. Da allora in tutto il mondo sono state implementate nuove leggi, prodotte ampie documentazioni statistiche su discriminazioni e disuguaglianze, sono proliferate reti e associazioni di donne finalizzate al raggiungimento della parità di genere. Ma nessun paese ha ancora portato a termine gli impegni assunti e le condizioni di vita materiale di due terzi delle donne nel mondo non sono cambiate: guadagnano meno degli uomini e la loro occupazione è meno qualificata. L'appuntamento di New York dovrebbe essere dunque l'occasione per rinnovare la volontà politica e l’impegno di tutti i governi verso un cambiamento, che tarda troppo ad arrivare. Ci sono voluti secoli prima che i diritti delle donne fossero riconosciuti, almeno teoricamente, come diritti umani universali. Il problema non si risolve lasciando totale libertà al mercato, è necessaria la volontà politica e una sensibilità di genere di tutte le parti sociali. Per dare significato alla giornata dell'8 Marzo dobbiamo proseguire la nostra mobilitazione perché il governo metta in campo misure e investimenti che affrontino seriamente un problema non delle donne, ma di democrazia e di pesanti vincoli allo sviluppo di tutto il paese. Che vanno oltre l'8 Marzo, perché per dirla con le parole di Amartya Sen: “Il sessismo ci impoverisce tutti”. |
Un disegno di accentramento autoritario? In difesa della democrazia costituzionale di Felice C. Besostri In maggio si vota per il rinnovo di consigli regionali. Con metodo collaudato, le modifiche alla legge europea nell'imminenza delle elezioni del 2009 con la l.n. 10/2009, si modificano le leggi elettorale regionali in senso maggioritario con premi di maggioranza spropositati, in Umbria siamo arrivati al 65%. Se non si reagisce il Senato prossimo venturo sarà ancora peggio di quanto possiamo immaginare e/o temere. Tuttavia il pericolo maggiore è politico. Una caratteristica comune sono soglie di accesso differenziate, minori per le forze in coalizione, elevate per le liste singole. Le liste minori coalizzate beneficiano inoltre del premio di maggioranza: un'attrazione fatale e gli effetti si sono visti nelle elezioni emiliano-romagnole e calabresi. Il desiderio di essere eletti, con la giustificazione della sopravvivenza della propria formazione, genera una spinta di "corruzione politica" da parte del PD. C'è un nesso preciso tra abbassamento delle soglie di accesso delle forze coalizzate ed aumento del premio di maggioranza. Devi poter premiare le forze vassalle, ma nel contempo non dipendere da loro. La maggioranza assoluta deve spettare al partito guida della coalizione. Può sembrare paradossale ma il sistema politico più somigliante è quello delle ormai defunte democrazie popolari nell'Est europeo. Un partito egemone e una pletora di partitini satelliti senza potere reale. Accanto alle regioni l'altro punto di forza del PD è il governo locale, sia dove vi è elezione diretta del Sindaco collegato a un premio di maggioranza del 60%, sia nelle Province e Città metropolitane con elezioni di secondo grado. Come si è puntualmente verificato tra settembre e ottobre del 2014 quelle elezioni sono state sottovalutate, mentre erano un notevole esperimento di soppressione della democrazia rappresentativa. Qual formidabile passo in avanti sapere chi governerà già la sera… prima delle elezioni! Nel sistema ci sono state falle come i sindaci arancioni, ma a distanza di pochi anni non sembrano modelli di successo, anche a causa della riduzione dell'autonomia comunale e dei tagli agli enti locali. In conclusione, la difesa della democrazia costituzionale non può limitarsi al contrasto alla revisione costituzionale e all'Italikum, se chi si oppone a livello nazionale non sarà capace di presentarsi in maniera coordinata per un progetto alternativo. * * * Assemblea pubblica promossa dal COORDINAMENTO PER LA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE Un disegno di accentramento autoritario? Modifiche della Costituzione e legge elettorale: Difendere la Costituzione nata dalla Resistenza per impedire lo stravolgimento dei suoi valori fondamentali ROMA LUNEDI 9 MARZO Aula dei gruppi parlamentari della Camera in via di Campo Marzio dalle ore 15 alle ore 18.30 |
MOSTRO ITALICUM - 3/3 Puntate 1/3 e 2/3 apparse sull’ADL del 12 e del 19 febbraio 2015 NON E’ MITE Sulla legge elettorale partorita dal patto del Nazareno molti si affannano a spiegare che si tratta di un mostro legislativo meno mostruoso della sua versione primitiva. Per noi una cosa è certa: che questo mostro non è mite. di Luciano Belli Paci Le preferenze come ludi cartacei. - L’altro motivo di incostituzionalità del Porcellum statuito dalla sentenza n° 1/2014 riguarda le liste bloccate che, sottraendo all’elettore la facoltà di scegliere l’eletto, violano i precetti costituzionali sul voto “libero, personale, diretto” (artt. 48, 56, 58 Cost.). Nella legge Calderoli, osserva la Corte, “tale libertà risulta compromessa, posto che il cittadino è chiamato a determinare l’elezione di tutti i deputati e di tutti senatori, votando un elenco spesso assai lungo (nelle circoscrizioni più popolose) di candidati, che difficilmente conosce. Questi, invero, sono individuati sulla base di scelte operate dai partiti, che si riflettono nell’ordine di presentazione, sì che anche l’aspettativa relativa all’elezione in riferimento allo stesso ordine di lista può essere delusa, tenuto conto della possibilità di candidature multiple e della facoltà dell’eletto di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito”. L’Italicum tenta di aggirare l’indicazione della Corte, lasciando “bloccati” solo i capilista delle nuove 100 circoscrizioni e consentendo invece all’elettore di esprimere il voto di preferenza per gli altri candidati. Oltre al danno, la beffa. Infatti, salvo casi del tutto eccezionali, il sistema funziona in modo tale per cui tutte le liste diverse da quella che si vedrà attribuito il premio di maggioranza – il che significa liste che potrebbero avere raccolto complessivamente fino al 60 % del voto popolare, e anche oltre se si è andati al ballottaggio – non avranno altri eletti all’infuori dei capilista. In altre parole, per la maggior parte degli elettori, tutti i deputati eletti con il loro voto saranno quelli individuati sulla base di scelte operate dai partiti; e neppure potranno dire di avere scelto il capolista, essendo rimasta inalterata la possibilità di candidature multiple e della facoltà dell’eletto di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito. Anche in questo caso la situazione, rispetto al Porcellum, è per certi versi addirittura peggiorata perché il meccanismo è ingannevole: milioni di elettori, la maggioranza, saranno chiamati ad esprimere un voto di preferenza del tutto virtuale, privo a priori di ogni possibilità di tradursi in autentica scelta dell’eletto. Così la consultazione elettorale viene degradata a recita, si sprofonda nei “ludi cartacei” di mussoliniana memoria. Le istituzioni di garanzia col trucco contabile. Il presidenzialismo come male minore. - Gli inventori dell’Italicum, per ripararsi dalle critiche di chi paventa che dal rischio della classica “dittatura della maggioranza” si scivoli addirittura verso quello della “dittatura della minoranza”, hanno proposto la riforma dell’art. 83 Cost., prevedendo che per l’elezione del Presidente della Repubblica, dopo i primi tre scrutini nei quali è richiesto il quorum dei 2/3, occorra una maggioranza qualificata dei 3/5 (oggi basta la maggioranza assoluta dei grandi elettori). Apparentemente questo dovrebbe impedire alla lista che ottiene il premio di eleggersi da sola anche il Presidente della Repubblica, mantenendo in tal modo a quest’ultimo il ruolo di organo di garanzia. Peccato che ci sia una sorta di trucco contabile che rende ben poco rassicurante la riforma. Infatti, il quorum dei 3/5 (equivalente al 60 %) non si calcola solo sulla Camera, dove la lista vincitrice ha già il 55 %, bensì sul collegio dei grandi elettori che comprende anche il Senato. E qui si capisce l’utilità della curiosa riforma del Senato. La seconda camera, privata ormai del potere di dare la fiducia al Governo e relegata al ruolo di comparsa anche nel processo legislativo, avrebbe potuto essere abolita del tutto per evitare un nuovo organismo senza sostanza, tipo Cnel. Oppure, se proprio la si voleva mantenere, avrebbe potuto essere eletta in modo proporzionale per fungere da “specchio del Paese”, con competenza sulle questioni più delicate, come le leggi costituzionali, le leggi elettorali e, appunto, l’elezione degli organi di garanzia. Invece il Senato riformato, grazie all’elezione di secondo grado da parte dei Consigli Regionali - che a loro volta sono frutto di elezioni a turno unico che assegnano alla coalizione del presidente (con la semplice maggioranza relativa) un premio abnorme - avrà una conformazione iper-maggioritaria. In tal modo vi sono elevate probabilità che quel 5 % mancante perché la lista che domina la Camera arrivi al 60 % complessivo possa essere garantito proprio dall’apporto dei senatori, tra i quali la medesima “maggioranza” potrà essere ulteriormente sovra-rappresentata. A ciò si aggiunge il fatto che nell’ultima versione dell’Italicum il premio non va più alla coalizione bensì alla singola lista; il che rende possibile che chi vince (specie se vincesse solo al ballottaggio, avendo perciò ottenuto al primo turno meno del 40 %) abbia in parlamento altre liste alleate che portino in dote quel 5 % mancante per fare cappotto. Questa elevata probabilità che l’effetto della combinazione tra Italicum e riforma del Senato porti ad un sistema in cui con una sola votazione, di fatto, si prende tutto – parlamento, governo, presidente della repubblica e, a cascata, maggioranza della corte costituzionale, ecc. – dovrebbe indurre a riflettere attentamente sull’opportunità di preferire, al confronto, un sistema di elezione diretta del Capo dello Stato. I critici del presidenzialismo (tra i quali si colloca chi scrive) si sono sempre opposti all’elezione diretta temendo che da essa, in una democrazia fragile come quella italiana ed in presenza di già eccessivi fenomeni di personalizzazione, potessero scaturire degenerazioni plebiscitarie. Oggi però si rischia qualcosa di molto peggio: un presidenzialismo di fatto, ma senza neppure il bagno democratico dell’investitura popolare e senza alcun sistema di checks and balances. Insomma, rispetto al quadro che emergerebbe dalle riforme del Nazareno, il presidenzialismo o meglio ancora il semi-presidenzialismo sarebbe di gran lunga il male minore. Un sano esercizio: immaginare la vittoria degli altri. - Il dibattito sulle riforme in commento si sta svolgendo in un contesto di scarsa attenzione, se non di anestesia delle coscienze. La ragione di questo inquietante fenomeno solo in parte può essere individuata nella mitridatizzazione prodotta da anni e anni di demonizzazione del proporzionale, di delegittimazione del parlamento come sede della mediazione politica e di crescita del leaderismo. In una buona parte dell’opinione pubblica solitamente sensibile al tema dei valori costituzionali prevale, oltre alla stanchezza, l’idea che si tratti di riforme fatte su misura, che potranno avvantaggiare solo il PD del 40 % alle europee ed il suo capo; soggetti ritenuti dai più magari criticabili, ma non sospettabili di involuzioni anti-democratiche. Chi scrive non condivide questo pregiudizio favorevole, ma il punto non è questo. In materia elettorale le “leggi-fotografia” sono un grave errore ed il legislatore dovrebbe sempre decidere “dietro il velo dell’ignoranza”, ma ancor più sbagliato sarebbe giudicare le regole come se la situazione data fosse immutabile. Poiché le riforme elettorali ed istituzionali si fanno, tendenzialmente, per sempre, è doveroso interrogarsi sui risultati che produrrebbero in presenza di equilibri politici completamente diversi dagli attuali, nei quali potrebbero prevalere forze che sono le più lontane da noi. Dobbiamo immaginare che possa rivincere, se non Berlusconi in persona, un altro come lui; che possa vincere Salvini con una specie di Front National italiano; o che possa vincere Grillo, magari uscendo da un primo turno molto distaccato e poi raccogliendo al ballottaggio un ampio voto di protesta goliardica e trasversale (come è già accaduto a Parma e a Livorno). Ecco che l’eliminazione di pesi e contrappesi e l’impossibilità di realizzare una convergenza repubblicana per sbarrare la strada in un secondo turno ad una forza eversiva che dovesse arrivare al 40 % (come avvenne in Francia alle presidenziali del 2002 quando anche la sinistra votò per Chirac contro Le Pen) risulterebbero esiziali per le sorti della Repubblica nata dalla Resistenza. Se oggi si prende alla leggera il problema, si rischia di svegliarsi quando il danno è fatto. (3/3 – Fine) * * * PER UNA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE Tra Italicum e Riforma del Senato. I rischi di un modello sconosciuto al mondo occidentale. Incontro con VITTORIO ANGIOLINI, ordinario di Diritto Costituzionale, Università degli Studi di Milano FELICE BESOSTRI, avvocato, direzione nazionale PSI Alfredo D'Attorre, deputato Partito Democratico FABIO MUSSI, coordinamento nazionale Sinistra Ecologia Libertà Intervistati da LUCIANO BELLI PACI MILANO CAM Ponte delle Gabelle via San Marco, 45 MM2 Moscova Venerdì 6 marzo 2015 | ore 21,00 organizza Circolo SEL Zona 1 |
SPIGOLATURE E sulle loro tombe cadrà il fiore dell'oblio… di Renzo Balmelli OBLIO. Forse non basterebbe nemmeno tutta la sagacia di Petrovic Fandorin, l'investigatore uscito dalla penna di B. Akunin, per fare piena luce sui gialli politici russi. In quei meandri è facile perdersi senza mai trovare una traccia precisa di chi può essere stato il vero assassino. La storia si ripete con la morte di Boris Nemtsov per la quale è stata formulata, ripresa con enfasi dalla destra nostrana, l'ipotesi che il Cremlino non avesse interesse a zittirlo non essendo catalogato tra i potenziali nemici del sistema. Figuriamoci gli altri! Comunque sia, adesso Nemtsov, definito una persona onesta, è sepolto guarda caso accanto ad Anna Politkovskaya, la giornalista sgradita al potere e uccisa in circostanze mai chiarite. Sulle loro tombe cadrà il fiore dell'oblio e nessuno pagherà per il duplice delitto. MACCHIA. Mancano ancora quasi due anni alle presidenziali americane, ma i repubblicani , che da quando Obama siede alla Casa Bianca hanno perso la testa, già affilano le armi per riconquistare il potere con qualsiasi candidato disponibile sulla piazza, purché sia conservatore a tutto tondo, militarista senza riserve e disponibile a scendere a compromessi con i più facoltosi centri di potere. Ovviamente per il bene supremo della Nazione. Orbene, come se due non fossero bastati , sulla scena sta facendo le sue prime apparizioni un terzo Bush, John Ellis, detto " Jeb", già governatore della Florida grazie ai voti degli immigrati anti-castristi. Per i repubblicani Bush III sarebbe il candidato ideale a meno di non evocare la guerra in Iraq che oscura il ritratto di famiglia. INTRUGLIO. Capita anche in politica che in tavola arrivino pietanze per le quali occorre uno stomaco di ferro. Ma se il cuoco confonde la cucina con il rancio , nemmeno l' Alka-seltzer potrà servire allo scopo. Neppure presa in dosi industriali la celebre polverina potrebbe facilitare la digestione della miscela in salsa nostalgica servita da Salvini e che ha quali ingredienti di base la nuova Lega " lepenista" , il fascismo di Casa Pound, le croci celtiche, le foto di Mussolini, il linguaggio sboccato, gli slogan di facile presa e abbondanti spruzzate di " vaffa..." per "impreziosire" le varie portate. Se questo è il pantheon della destra italiana, in fuga dal berlusconismo, c'è poco da stare allegri, soprattutto pensando alle future generazioni. All'apposto del famoso slogan questo intruglio più lo mandi giù e meno ti tira su. TRAPPOLA. Rimpiangere Berlusconi? Non sia mai. Troppe ne ha fatte e altre potrebbe ancora combinarne non appena riavrà la piena agibilità politica. Qualcuno però , ancora sotto choc per quanto proposto dal vociante sabato romano del Matteo lombardo, potrebbe essere indotto a credere che l'anziano sultano di Arcore sia tutto sommato il male minore. Sarebbe una trappola. Dall'ex ormai al tramonto, l'astro nascente del Carroccio ha ereditato il populismo incantatore che passa attraverso l'uso disinvolto dei social media. Considerarlo una meteora sarebbe un sbaglio che la sinistra potrebbe pagare a caro prezzo, soprattutto se dovesse continuare a sfarinarsi nella litigiosità , riesplosa alle recenti primarie, e che è tutta olio che cola per chi spinge il Paese alla deriva qualunquista. FALCATE. Da quando è salito sul soglio di Pietro circa due anni fa (13 marzo 2013) Papa Francesco ha dovuto sgomitare. Fin dal primo giorno gli ossequi ingannevoli hanno fatto il paio con le critiche e gli attacchi, diventati sempre più manifesti nello svolazzare delle tonache curiali. Anticonformista anche nel rifiutare scarpette e mantelline rosse, il Vescovo di Roma attraversa a larghe falcate il rosario delle lamentele, nella consapevolezza che ai gesti simbolici e mediatici dovrà fare seguire presto atti ben più significativi per non deludere i fedeli, specie dopo le aperture in fatto di morale sessuale, familiare, matrimoniale e sociale. Ma Jorge Bergoglio potrebbe essere sotto tiro dei tradizionalisti, allo scopo di rendere se non impossibile perlomeno difficile un dibattito approfondito sulla questione. |
Economia HSBC Una banca al centro di frodi fiscali e operazioni finanziarie illecite di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi) e Paolo Raimondi, Economista E’ dal 2008 che liste di grandi evasori fiscali sono emerse e portate all’attenzione degli organi di vigilanza finanziaria e dei governi di molti Paesi. In primis degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Finora però vi sono stati solo grandi polveroni mediatici, misere condanne ufficiali e scarse contromisure legali. Prima Hervè Falciani, poi SwissLeaks e infine il Consorzio Internazionale di Giornalisti Investigativi hanno indicato la HSBC Private Bank SA di Ginevra in Svizzera come uno dei centri operativi che organizzano servizi finanziari illegali, lavaggi di soldi sporchi e frodi fiscali per cittadini e organizzazioni interessati. Le frodi fiscali complessivamente coinvolgerebbero almeno 130.000 potenziali evasori internazionali (industriali, politici, attori, sportivi, ecc.) per parecchie centinaia di miliardi di dollari. Oltre 7.000 sarebbero cittadini italiani. A questo punto riteniamo sia indispensabile gettare luce sulla HSBC e sul suo ruolo di leader della grande finanza globale. La banca di Ginevra è la filiale delle britannica Hong Kong and Shanghai Banking Corporation. E’ la maggiore banca europea ed è la terza al mondo. Fu fondata nel 1865 da un consorzio di interessi coinvolti nel commercio della seta, delle spezie e, si dice, anche dell’oppio. Oggi ha 60 milioni di clienti in 80 Paesi e ha attività pari a 2,7 trilioni di dollari. E’ la classica banca “too big to fail” con una capacità di fuoco ed una influenza politica senza pari. Gli uffici centrali e le sue filiali sono coinvolti in tutte le indagini più grandi ed esplosive. Finora però ne è sempre uscita quasi indenne, pagando pochi spiccioli di multa. Le autorità americane hanno denunciato la HSBC Bank Usa (HBUS) per complicità nel lavaggio dei soldi sporchi dei cartelli della droga messicani e in operazioni fatte per aggirare le sanzioni nei confronti di Paesi come Cuba e l’Iran. Secondo l’Office of the Comptroller of the Currency americano dal 2006 al 2009 la HBUS avrebbe incrementato del 50% i trasferimenti di denaro via wire fino a raggiungere i 94,5 trilioni all’anno senza veri controlli e avrebbe permesso in particolare il trasferimento di 15 miliardi in contanti da parte delle filiali messicane. La Commissione per le Indagini del Senato, guidata dal democratico Carl Levin, nel 2012 ha formalmente denunciato la HBUS di riciclaggio di soldi provenienti dal traffico di droga. La HSBC messicana nel 2008 aveva creato anche una filiale nel paradiso fiscale delle Cayman Islands, senza uffici e senza impiegati, con oltre 50.000 conti correnti di clienti anonimi. Nel suo rapporto “US vulnerability to money laundering, drug and terrorist financing. HSBC case history” di 330 pagine la Commissione sostiene anche che i controlli messi in atto dalla banca per evitare che la propria struttura fosse sfruttata da organizzazioni criminali erano inefficaci e che i campanelli d'allarme suonati da alcuni dipendenti sono stati regolarmente ignorati dal top management. Di fronte ad innumerevoli ed inconfutabili prove, nel 2012 la banca ha preferito pagare una multa complessiva di 1,9 miliardi di dollari e chiudere convenientemente i casi legali. D’altra parte questa cifra era solo l’8,6% dei 22 miliardi di profitto di quell’anno. Nessuno venne condannato per i crimini penali. Questo “lassismo” nei controlli sui movimenti finanziari sembra sia stato sfruttato anche da reti e sospette organizzazioni fondamentaliste islamiche. Si ricordi che la HSBC è anche sotto inchiesta per i noti scandali Libor ed Euribor. Nel 2012 gli organismi di controllo finanziario, l’americana SEC e la britannica FSA denunciarono una ventina di banche internazionali per aver manipolato il famoso London interbank offered rate (Libor), cioè il tasso che stabilisce la base per definire tutti gli altri tassi di interesse applicati sui mercati finanziari. La HSBC era in testa alla lista. Dal 2005 al 2007 le banche in questione avevano gonfiato i loro dati per far salire il Libor e incassare sui tassi alti. Dopo lo scoppio della crisi hanno invece giocato i loro dati al ribasso per mascherare le proprie difficoltà ed abbassare il costo dei prestiti di cui avevano bisogno per sopravvivere. Hanno quindi semplicemente fornito informazioni fasulle a proprio profitto. La HSBC è anche una delle 5 grandi banche internazionali che hanno manipolato per anni, almeno dal 2009 fino alla fine del 2013, i cosiddetti tassi Forex, i tassi di scambio delle valute, sfruttando la conoscenza di informazioni confidenziali dei clienti e operando pochi secondi prima che i tassi di riferimento fossero fissati. Ogni giorno sul mercato dei cambi si fanno operazioni per 5,3 trilioni di dollari. Anche per queste manipolazioni la multa da pagare avverrà con la solita completa sanatoria delle violazioni e dei reati. E’ chiaro che se la HSBC fosse una banca italiana verrebbe chiamata la “banca della mafia e del crimine organizzato”. Il fatto che non sia un semplice sportello locale “occupato” dalla camorra, ma una delle principali banche globali, pone delle domande inquietanti sull’intero sistema delle grandi banche internazionali e della “finanza ombra”. Ne abbiamo scritto altre volte, ma ora riteniamo che la riforma e la trasparenza del mondo finanziario e bancario non siano più eludibili. Sono troppi gli squilibri economici che di volta in volta questo sistema malato provoca. |
Da Avanti! online www.avantionline.it/ Àncora Italia Ancora morti nel Mediterraneo. Ancora una tragedia figlia della disperazione. Dieci i migranti morti e novecento quarantuno i salvati nel Canale di Sicilia martedì dalla Guardia Costiera. di Ginevra Matiz In meno di 24 ore, sono state in totale 7 le operazioni di soccorso coordinate dalla Guardia Costiera in una zona di mare a circa 50 miglia a nord della Libia. Dirottati anche 3 mercantili, uno dei quali ha salvato 183 persone. Disposto l’invio della nave Fiorillo della Guardia Costiera, che ha tratto in salvo 319 migranti. Richiesto l’impiego di una unità della Marina Militare inserita nel dispositivo Triton che è intervenuta anch’essa nei soccorsi. Tra le varie operazioni coordinate dal Centro nazionale di soccorso a Roma, quella di un barcone rovesciato con 121 persone salvate e 10 corpi recuperati dalla nave Dattilo che già aveva a bordo 318 migranti salvati in una precedente operazione. Eventi che hanno acuito ancora di più il senso di emergenza. Tanto che, come ha affermato il primo vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans, la Ue ha deciso di accelerare sull’Agenda europea sulle migrazioni anticipandola a metà maggio, mentre prima era previsto a metà luglio. “Occorre – ha detto Timmermans – un atteggiamento aggressivo nella lotta ai trafficanti di esseri umani responsabili di tragedie” come quelle avvenute stanotte. “L’immigrazione – ha aggiunto – è un problema che riguarda tutti gli Stati membri, non è più Mare Nostrum, ma Europa nostra. Dobbiamo fare in modo – ha detto ancora Timmermans – che gli strumenti esistenti funzionino meglio e che tutti gli stati membri applichino le regole nello stesso modo. Attualmente non c’è l’ipotesi di modificare il sistema, ma di migliorarlo, prima di pensare a modificare le regole”. Timmermans ha sostenuto che la Ue deve cooperare anche con i regimi dittatoriali per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione, contrastare i trafficanti e “proteggere meglio” i propri confini. Il commissario all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos, nel presentare i risultati del primo dibattito orientativo del collegio dei commissari sull’Agenda europea sulle migrazioni, ha affermato che è arrivato il momento di dire basta alla “politica dello scaricabarile, abbiamo un atteggiamento realistico e chiaro su quello che l’Ue può fare e ciò che non può fare. Frontex non è la guardia delle frontiere Ue, se vogliamo un sistema di guardie di frontiera dobbiamo crearlo: se vogliamo che Frontex faccia di più, dobbiamo dargli più risorse. L’operazione congiunta Triton – ha aggiunto – ha già permesso di salvare migliaia di vite umane, ma è vero che bisogna fare ancora di più ed è compito sia dell’Ue sia degli Stati membri salvare vite, non abbiamo altra scelta. La discussione di oggi sull’Agenda europea delle migrazioni – ha concluso Avramopoulos – è stata offuscata dagli eventi vicino alla costa libica, che ci ricordano ancora una volta che le sfide dell’immigrazione non spariranno da sole e che ora più di sempre abbiamo bisogno di una strategia omnicomprensiva e a lungo termine in aggiunta al supporto agli Stati membri che affrontano alte pressioni migratorie”. L’operazione congiunta Triton torna così al centro delle polemiche per le modalità in cui viene gestita, argomento su cui è intervenuto anche il segretario socialista Nencini ribadendo che: “Triton non risolve il problema”. Naturalmente l’occasione è stata ghiotta per la Lega che ne ha approfittato per lucrare qualche consenso in più speculando sull’ennesima tragedia: “A Roma e a Bruxelles ci sono tasche piene e mani sporche di sangue. Stop alle partenze, stop alle morti, stop invasione! Renzi e Alfano, siete pericolosi per gli italiani e per gli immigrati”, – hanno commentato i padani. Il tema dell’immigrazione sarà discusso nel Consiglio Esteri del 16 marzo. Lo ha annunciato l’Alto rappresentante, Federica Mogherini. “La gestione ordinata e lungimirante delle politiche migratorie – ha detto – è un preciso dovere strategico della Ue. Per fare in modo che non si ripetano più le tragedie nel Mediterraneo – ha aggiunto Mogherini – dobbiamo mettere insieme tutti gli strumenti della Ue”. Vai al sito dell’avantionline |
Fare del Mediterraneo un mare di pace e di progresso Una proposta per la politica estera dell’Italia: il ripristino della stabilità e dello sviluppo nel Sud del Mediterraneo. Pubblichiamo qui di seguito il testo introduttivo al Convegno promosso dalla Fondazione Socialismo e da MondOperaio e tenutosi a Roma il 3 marzo 2015 sul tema “Italia e Mediterraneo”. Il video integrale dei lavori del convegno sarà consultabile a partire da domani sul sito della Fondazione Socialismo (www.fondazioneoscialismo.it). di Antonio Badini 1. Un’Italia non più protagonista. - I più recenti sviluppi della vicenda politica nella regione mediterranea hanno visto l’Italia impreparata ed anche poco pronta ad assumere iniziative capaci di prevenire minacce esterne alla sua sicurezza. La sensazione che si percepisce é che il nostro Paese – anche in ragione delle caratteristiche epocali della crisi che lo attraversa – sembra aver perso ruolo ed influenza sugli accadimenti alle sue porte di casa, con conseguenze di rilievo nelle aree che toccano direttamente la sua geo-politica e che incidono inevitabilmente anche sullo sviluppo della sua economia. È un fatto comunque che quelle che sporadicamente si sono potute udire sono state voci per invocare, spesso a sproposito, il ricorso all’intervento delle «Istituzioni Internazionali»: per intendere, si presume, ONU, NATO e UE, un insieme che fa a pugni. Rispetto a queste modalità prevalenti noi pensiamo, al contrario, che per l’Italia sia oggi più utile parlare poco ma con chiarezza, ricordando sempre che senza una preparazione previa ed una sicura conoscenza delle mosse concordabili sia sempre meglio lavorare al riparo dei media. Forse qualcuno ancora ricorderà che, non molto in là nel tempo, l’opinione dell’Italia aveva un suo peso, e la sua azione diplomatica era spesso sollecitata e comunque sempre ben accetta. Assai apprezzate erano ad esempio le iniziative dell’Italia nella regione Mediorientale ed in particolare quelle per il Sud del Mediterraneo. Nel 1998 ad esempio l’Italia riuscì a evitare, riunendo in fretta una riunione di emergenza a Palermo, che l’impianto di partenariato euro-mediterraneo istituito a Barcellona nel novembre del 1995 andasse anzitempo in frantumi. Si riuscì in quell’occasione, ministro degli Esteri Lamberto Dini, a riprendere in fretta le fila di un dialogo che l’Italia seppe poi gestire con autorità, anche avvalendosi dell’efficace sostegno del ministro degli Esteri egiziano Amr Moussa. 2. Un passato di forte dinamismo. - Non fu quello un episodio isolato. Non appena nella Regione prendeva spessore una nuova tensione o apparivano focolai di crisi all’orizzonte si mettevano rapidamente in moto, spesso su impulso italiano, consultazioni con i partner più in sintonia per studiare il da farsi. Senza inutili proclami, si faceva trapelare che intese suscettibili di serrare i ranghi erano nell’ordine delle cose. Algeria, Tunisia, Egitto e Arabia Saudita erano allora le prime direttrici del dialogo, che coinvolgeva regolarmente Francia e Spagna, e talvolta Malta e Portogallo. Erano i Paesi da cui presero origine il «Gruppo dei Cinque più Cinque» prima, e l’Iniziativa Mediterranea voluta da Mitterrand dopo. Oltre i già citati, nei due Gruppi confluirono Grecia e Mauritania mentre l’Arabia Saudita restò attento interlocutore, solo geograficamente separato, soprattutto dell’Italia. La Libia non volle allora formalmente partecipare ad alcuno dei due Gruppi, ma Italia e Tunisia a turno tenevano al corrente la sua dirigenza politica. Il monito a Gheddafi avanzato da Craxi nel 1986 dopo il lancio, di uno Scud libico deliberatamente fuori misura (secondo le analisi quasi subito disponibili), fu seguito da intense consultazioni a livello Esteri-Difesa- Servizi, con questi ultimi molto attivi con i loro omologhi nei cui confronti avevano stretti rapporti di colleganza, utilizzando l’ovvio beneplacito dello stesso Colonnello. E tutto si acquietò; con il Ministro Andreotti che discretamente si disse disponibile ad avviare con la dirigenza libica una maggiore cooperazione aprendo il discorso anche su di un «gesto riparatore» su cui insisteva Gheddafi per le perdite inferte al popolo libico durante il periodo coloniale. Oggi molti potrebbero replicare che erano altri tempi: ma è fuori di dubbio che diversi erano anche lo spessore dei soggetti in campo ed il livello di guardia per l’azione. In quegli anni lo si poté costatare nell’affare Sigonella, con la nostra Marina e Aereonautica pronte ad aiutare Palazzo Chigi sulle manchevolezza del nostro grande alleato, che si serviva delle informazioni solo parzialmente esatte dei Servizi di Israele per indurre il nostro Governo a rilasciare Abou Abbas (ritenuto responsabile in solido dell’uccisione del cittadino americano Leo Klinghofer). 3. Il caso Libia : mandato dell’Onu. - Siamo sfortunatamente tutti testimoni che a muoversi nei momenti di crisi acuta sono autonomamente gli Stati membri, non l’Ue. Dei quattro Paesi europei che fanno parte del G7 (Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia) oggi sulla scena manchiamo soprattutto noi: e di conseguenza siamo poco presenti quando si parla di Mediterraneo, nonostante che il fardello che ci portiamo sulle spalle, a causa dello sconquasso della regione e del nuovo terrorismo, sia tra i più inquietanti. Il punto cruciale di qualsivoglia soluzione politica per la Libia è la formazione, anche embrionale, di un governo di unità nazionale, che molti auspicano e altrettanti attendono possa scaturire da una risoluzione onusiana. Si tratta di un auspicio di assai difficile realizzazione. Più praticabile, al momento, è lavorare su una rete di contatti che siano facilitati da esponenti di prestigio delle diverse tribù, cui in qualche modo restano legati uomini di primo piano delle opposte milizie. Il Trattato di Amicizia con la Libia, per chi lo ha vissuto, nacque con una tattica «a tentoni» per superare la diffidenza di Gheddafi; ma poi negli anni si sviluppò, trovò forma e contenuti equi e divenne vincolante per i due Paesi con il consenso di chi in Libia cercava, insieme a noi, di preparare un passaggio di potere morbido, senza risvegliare lo spirito tribale del Paese. Purtroppo quel Trattato non venne invocato da chi ne aveva il diritto per sospendere l’avvio dell’azione architettata da Nicolas Sarkozy con la collaborazione di Bernard-Henry Levy. Sarebbe bastato in quell’occasione accodarsi alla Germania per tentare di guadagnare tempo e investigare sull’asserito genocidio che secondo Levy si stava perpetrando contro i rivoltosi inermi a Bengasi. E poi vi era allora la disponibilità del Colonnello a lasciare a favore del figlio Seif El Islam, persona assai moderata. Nelle attuali condizioni, appare molto arduo intraprendere la via della «legalità internazionale» per un possibile intervento militare: per l’Onu, vista con ostilità dagli islamisti, i tempi non sono maturi, e le condizioni sul terreno non propizie, specie dopo le pur comprensibili incursioni dell’aviazione egiziana, che ha mosso ulteriormente le acque senza incidere negli equilibri di potere. Va anche detto che nel paese é verosimilmente in corso una guerra per procura (Qatar e Turchia da una parte – Egitto e EAU dall'altra), i cui effetti non sono ancora decifrabili completamente. Occorre dunque attendere una certa decantazione, anche perché gli analisti non escludono che tra il Governo islamista di Tripoli (internazionalmente non riconosciuto) e i gruppi dell’Isis possa crearsi in un prossimo futuro una frattura. E d’altra parte isolare dal contesto regionale – ricolmo di tensioni e di alleanze da chiarire – l’apertura di un dossier per la ricerca di una soluzione di pace per la Libia appare sinceramente opera ardua. Urterebbe con una mappa in itinere dei gruppi jihadisti: sia quelli che si ricollegano ad Al Qaeda, al momento in declino, che gli altri che si proclamano «province» dello « Stato islamico » apparentemente in ascesa, cui vanno poi aggiunti i movimenti islamisti vicini ai Fratelli musulmani e la vecchia ma chissà se veramente tramontata «Jamaa Islamiya». 4. Una possibile offensiva diplomatica dell’Italia. - In questa nuova costellazione del terrore – di Stati «falliti» e in ricostruzione e di possibili nuovi Stati (da non sottovalutare, in un futuro non lontano, il Kurdistan) – l’Italia, che in questi anni oggettivamente ha perso colpi e fatto troppi passi indietro, ha oggi l’occasione di prodursi in un colpo d’ala efficace, capace di farle finalmente rialzare la testa. È un fatto che le condizioni di fragilità e di indeterminatezza che hanno presieduto alla gestione del nostro sistema politico negli ultimi venticinque anni abbiano molto pesato anche nella conduzione della politica estera del Paese. La scomparsa, ben presto rivelatasi effimera, della contrapposizione ideologica Est-Ovest con la caduta del Muro di Berlino, abbinata alla convinzione che democrazia e mercato costituissero i due cardini di un pianeta in corsa verso l’armonia, deve aver influito non poco nel farci rinchiudere in un stato di benessere rivelatosi alla lunga non solo fragile ma anche banalmente provinciale. Eppure l’Ostpolitik percorsa da Bettino Craxi negli anni ’80 avrebbe dovuto nei suoi piani preludere, dopo l’attesa implosione del Comecon, a una espansione economica ad Est delle nostre PMI, a cominciare da quelle più dinamiche, da collocare utilmente soprattutto in Ungheria ed in Polonia. Oggi abbiamo perso identità e forse una reale capacità di contribuire agli obbiettivi del G.7, che noi stessi avevamo rafforzato schivando, al vertice di Tokio del 1985, la mossa anglofrancese di sottometterlo al G.5. Va detto che ora é tutto l’Ovest ad apparire in declino, con il G.7 che ha ceduto quote crescenti del commercio mondiale ai paesi BRICS e con il ritorno delle battaglie ideologiche con la «Grande Russia» di Putin, impegnata a rimontare la china della disciolta Unione Sovietica. In questa fase di ripiegamento e di malaise l’Europa, e l’Italia soprattutto, sono state colte di sorpresa dall’ascesa dell’Islamismo radicale, mentre siamo penalizzati anche dagli abusi del capitalismo non corretti da una governance appropriata. Avremmo dovuto avere più piglio nel G.7, e nell’Ue e quindi gestire meglio la «primavera araba»: adoperandoci in particolare nel far capire che il vero movente di quelle rivolte non era la lotta per la democrazia ma piuttosto la conquista della dignità umana, allo scopo di farne il perno di future libere scelte di quei popoli pur se non necessariamente favorevoli al nostro modello politico. Il risultato é stato che, anche per colpa delle incerte politiche dell’Occidente, anziché le porte dello stato di diritto i moti popolari hanno in realtà aperto fronti di lotta del tutto inattesi, con la conseguenza ultima di aver reso il Mediterraneo un’area di transito verso il nostro Paese di migliaia di transfughi in cerca di rifugio. È per queste ragioni che lo sforzo del recupero di una azione e di una presenza italiana, anche se complesso, va intrapreso senza indugi per ricostruire una discernibile politica estera che si ponga come primo obiettivo di ripristinare condizioni di stabilità e sviluppo alla nostra frontiera Sud: un’area che per il nostro Paese é sempre stata di importanza strategica. Dobbiamo tuttavia essere coscienti che il nuovo rapporto da costruire tra l’Italia e il Sud del Mediterraneo, che deve imperniarsi su di uno sviluppo condiviso, non può prescindere dalla sicurezza e dalle tensioni che oggi insidiano la regione, come si é detto parlando della Libia. Né una azione siffatta, pur dovendo rispondere a caratteristiche di politica autonoma, può prescindere dalle nostre alleanze (a partire da quella con gli Stati Uniti), e dal nostro essere membri dell’Unione europea. 5. Modalità e direttrici di Azione. - Al di là delle iniziative caute ma ben mirate per fronteggiare la caotica situazione in Libia, appare necessaria innanzitutto la presa in conto di misure destinate alla crescita economica, ma anche alla stabilità politica dei Paesi della sponda Sud, promuovendo e sollecitando da parte dei nostri partner europei, d’intesa con gli S.U., interventi in grado di contrastare le attuali minacce e prevenendo la nascita di nuovi focolai di tensioni. Un primo tema riguarda il modo di percepire l’Islam e il radicalismo islamico e a seguire come viene visto o dovrebbe essere considerato il dialogo interreligioso, oggi troppo enfatico e fuori centro. Contemporaneamente andrebbero affrontati anche altri aspetti che hanno un più o meno forte impatto sul punto: in particolare il processo di pace israelo-palestinese, i conflitti in atto nell’Africa profonda, e più in generale i problemi della sicurezza nella regione mediorientale che, lo si voglia o no, passano per un processo di riconciliazione o quanto meno di dialogo e di coesistenza tra sunniti e sciiti. Importante al proposito l’appello all’unita dei musulmani fatto dal Grande Imam dell’Azhar,El Tayeb. Lo Jihadismo rappresenta appena il 3 % dei sunniti; il che mostra che la capacità di mobilitazione rimane contenuta; é importante non sopravvalutare il fenomeno, nonostante la gravità delle sue azioni. Una constatazione immediata che suggerisce prudenza e conoscenza nel prescrivere le riforme agli arabi moderati é che «riformisti» si autodefiniscono coloro che si richiamano alle forme di lotta praticate sul terreno: una modalità che sarebbe senz’altro più corretto definire, per i metodi violenti e disumani usati, come quella di un vero e proprio terrorismo. L’avvento dello “Stato islamico”, che occupa al momento un territorio di circa 270 mila mq tra la Siria e l’Iraq, ha reso ancor più brutale il fanatismo che strumentalizza il credo dell’Islam per folli lotte di potere. E tuttavia il Califfato, oggi arbitrariamente riesumato dallo Stato islamico, non durerà probabilmente a lungo avendo attirato su di se lo sdegno e un forte senso di rivalsa di una larga parte del mondo arabo e musulmano. Nondimeno non é da escludere, anzi é probabile, che la sua scomparsa si accompagni a nuove forme di terrorismo presumibilmente non meno violente. Era già successo ad Al Qaeda, e prima ancora al « Fronte del rifiuto », allora accusato di azioni riprovevoli ed in qualche modo strumentali per negare credibilità all’opzione negoziale dell’OLP di Arafat. Durerà certamente più a lungo il movimento «Boko Haram», le cui aree di dominio sono considerate una «Provincia» dello Stato islamico, e che rischia di diventare seme di contagio nei paesi che confinano con il lago Chad. È dunque importante che nel contrastare anche militarmente il terrorismo non si dimentichi che la madre di tutte le tensioni resta il senso di oppressione, di ingiustizia e discriminazione che gran parte del popolo arabo avverte nei confronti dell’Occidente, visto come alleato acritico di Israele. L’irrisolta causa palestinese resta tuttora una ferita aperta per il popolo arabo. Pericoloso negligere sulla creazione dello Stato palestinese a cui i precedenti governi italiani avevano dato priorità costante, anche rischiando gravi crisi (come nel caso di Sigonella) con il nostro maggiore alleato. Su questo punto l’Italia deve tornare ad essere parte attiva per la ripresa del processo di pace, dando il suo tenace concorso per coinvolgere seriamente Stati Uniti, Israele e Paesi arabi. Le basi ci sarebbero tutte, essendo costituite da due iniziative solenni e importanti che la memoria corta dell’Occidente sembra avere dimenticato: l’iniziativa dell’Arabia Saudita del 2002 e quella dei «due Stati», con George W. Bush sponsor e garante, approvata nel Maryland, ad Annapolis, nel 2007. Trent’anni fa, nel novembre del 1984, Re Fahd chiese a Craxi di fare appello a Simon Peres affermando che lui avrebbe lavorato per convincere Arafat a passare dalla strettoia di una Confederazione giordano-palestinese: un obiettivo decisivo che venne fallito nel febbraio dell’anno dopo, nel 1985, ad Amman, per le mancate, modeste concessioni che venivano richieste a Simon Peres, allora Primo Ministro di Israele, per costruire una delegazione giordano-palestinese che non facesse perdere la faccia ad Arafat. Oggi, tre decenni dopo quella mancata svolta che poteva essere decisiva, l’Unione Europea, si é rivelata del tutto inadeguata a rimettere il processo di pace su binari solidi, e ha di fatto rinunciato a convincere il Governo di Gerusalemme che Israele é Stato invasore, ultimo Paese dei tempi moderni che ricorre agli insediamenti in territori altrui per modificare il dato demografico che alla fine dovrà determinare la linea di confine. Ed é innegabile che l’intransigenza di Gerusalemme stinge in qualche modo sul problema più vasto della sicurezza della regione. (1/2 – continua) Il video integrale dei lavori del convegno sarà consultabile a partire da domani sul sito della Fondazione Socialismo (www.fondazioneoscialismo.it). |
Dalla Fondazione Rosselli di Firenze http://www.rosselli.org/ Quello straordinario 1944 Presentazione a Roma presso la Fondazione Basso Venerdì 6 marzo, ore 17.30 Quello straordinario 1944, antologia di scritti di personaggi che hanno fatto e raccontato la Liberazione del capoluogo toscano. N. 4/2014 dei "Quaderni del Circolo Rosselli" L'incontro vuole essere anche l’occasione per festeggiare la rivista “Quaderni del Circolo Rosselli”, diretta da Valdo Spini, giunta con questo numero al 120° fascicolo. Seguirà quindi un brindisi. Fondazione Lelio e Lisli Basso, via della Dogana Vecchia 5 a Roma |
Da vivalascuola riceviamo e volentieri pubblichiamo Succederà qualcosa Anzi, ormai è già successo. di Giorgio Morale Carissimi, oggi è il 27 febbraio, e vi dico che il 3 marzo, succederà qualcosa che riguarderà la scuola. Fino a qualche giorno fa non si sapeva bene se una “riforma” o un decreto legge o un decreto e una legge delega insieme: adesso dalle parole di Renzi pare sia da attendersi quest’ultima soluzione: ne diamo conto nelle notizie della "settimana scolastica": https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2015/02/23/vivalascuola-190/#6 Perché non si decida per decreto d’urgenza anche su una materia fondamentale che richiede i tempi della discussione e della partecipazione come la scuola; perché non sia ignorato un disegno di legge sottoscritto da più di 1.000.000 persone e che nasce da chi nella scuola vive e lavora; per chiedere che la L.I.P sulla scuola sia ammessa alla discussione parlamentare sta circolando in questi giorni una petizione al Presidente della Repubblica che invitiamo a firmare. Intanto, a scuola e su vivalascuola, ci interroghiamo su come fare meglio il nostro lavoro: ad esempio insegnare letteratura italiana: https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2015/02/23/vivalascuola-190/ Grazie dell'attenzione, e un cordiale saluto. |
Dalla Società e Scuola Dante Alighieri Zurigo Dillo in italiano #dilloinitaliano Qui sotto potete leggere il testo che accompagna una petizione in favore di un uso più accorto della lingua italiana da parte di chi ha ruoli e responsabilità pubbliche. Non è una battaglia di retroguardia, e non è un tema marginale. Non è neanche una battaglia contro l’inglese ma va, anzi, in favore di un reale bilinguismo. La petizione chiede all’Accademia della Crusca di farsi portavoce di questa istanza, che può aver peso e buon esito solo grazie all’appoggio di tutti noi.
Perché è importante che firmiate? Perché la lingua italiana è un bene comune: ci appartiene, ha un valore grande ed è nostro compito averne cura.
Se siete d’accordo potete firmare su Change.org: vi basta un minuto. E poi parlatene e fate girare il testo in rete. E dai… fatelo subito. L’hashtag è #dilloinitaliano La lingua italiana è la quarta più studiata al mondo. Oggi parole italiane portano con sé dappertutto la cucina, la musica, il design, la cultura e lo spirito del nostro paese. Invitano ad apprezzarlo, a conoscerlo meglio, a visitarlo. Le lingue cambiano e vivono anche di scambi con altre lingue. L’inglese ricalca molte parole italiane (manager viene dall’italiano maneggiare, discount da scontare) e ne usa molte così come sono, da studio a mortadella, da soprano a manifesto.
La stessa cosa fa l’italiano: molte parole straniere, da computer a tram, da moquette a festival, da kitsch a strudel, non hanno corrispondenti altrettanto semplici, efficaci e diffusi. Privarci di queste parole per un malinteso desiderio di “purezza della lingua” non avrebbe molto senso.
Ha invece senso che ci sforziamo di non sprecare il patrimonio di cultura, di storia, di bellezza, di idee e di parole che, nella nostra lingua, c’è già.
Ovviamente, ciascuno è libero di usare tutte le parole di qualsiasi lingua come meglio crede, con l’unico limite del rispetto e della decenza. Tuttavia, e non per obbligo ma per consapevolezza, parlando italiano potremmo tutti cominciare a interrogarci sulle parole che usiamo. A maggior ragione potrebbe farlo chi ha ruoli pubblici e responsabilità più grandi. Molti (spesso oscuri) termini inglesi che oggi inutilmente ricorrono nei discorsi della politica e nei messaggi dell’amministrazione pubblica, negli articoli e nei servizi giornalistici, nella comunicazione delle imprese, hanno efficaci corrispondenti italiani. Perché non scegliere quelli? Perché, per esempio, dire form quando si può dire modulo, jobs act quando si può dire legge sul lavoro, market share quando si può dire quota di mercato? Perché dire fashion invece di moda, e show invece di spettacolo? Chiediamo all’Accademia della Crusca di farsi, forte del nostro sostegno, portavoce e autorevole testimone di questa istanza presso il governo, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese. E di farlo ricordando alcune ragioni per le quali scegliere termini italiani che esistono e sono in uso è una scelta virtuosa.
Adoperare parole italiane aiuta a farsi capire da tutti. Rende i discorsi più chiari ed efficaci. È un fatto di trasparenza e di democrazia. Per il buon uso della lingua, esempi autorevoli e buone pratiche quotidiane sono più efficaci di qualsiasi prescrizione. La nostra lingua è un valore. Studiata e amata nel mondo, è un potente strumento di promozione del nostro paese. Essere bilingui è un vantaggio. Ma non significa infarcire di termini inglesi un discorso italiano, o viceversa. In un paese che parla poco le lingue straniere questa non è la soluzione, ma è parte del problema. In itanglese è facile usare termini in modo goffo o scorretto, o a sproposito. O sbagliare nel pronunciarli. Chi parla come mangia parla meglio. Da Dante a Galileo, da Leopardi a Fellini: la lingua italiana è la specifica forma in cui si articolano il nostro pensiero e la nostra creatività. Se il nostro tessuto linguistico è robusto, tutelato e condiviso, quando serve può essere arricchito, e non lacerato, anche dall’inserzione di utili o evocativi termini non italiani. L’italiano siamo tutti noi: gli italiani, forti della nostra identità, consapevoli delle nostre radici, aperti verso il mondo. Se siete d’accordo firmate su Change.org, parlatene, condividete in rete. E fatelo adesso. Per leggere l’articolo di Annamaria Testa > Vai al sito de L’Internazionale |
L'AVVENIRE DEI LAVORATORI EDITRICE SOCIALISTA FONDATA NEL 1897 Casella postale 8965 - CH 8036 Zurigo L'Avvenire dei lavoratori è parte della Società Cooperativa Italiana Zurigo, storico istituto che opera in emigrazione senza fini di lucro e che nel triennio 1941-1944 fu sede del "Centro estero socialista". Fondato nel 1897 dalla federazione estera del Partito Socialista Italiano e dall'Unione Sindacale Svizzera come organo di stampa per le nascenti organizzazioni operaie all'estero, L'ADL ha preso parte attiva al movimento pacifista durante la Prima guerra mondiale; durante il ventennio fascista ha ospitato in co-edizione l'Avanti! garantendo la stampa e la distribuzione dei materiali elaborati dal Centro estero socialista in opposizione alla dittatura e a sostegno della Resistenza. Nel secondo Dopoguerra L'ADL ha iniziato una nuova, lunga battaglia per l'integrazione dei migranti, contro la xenofobia e per la dignità della persona umana. Dal 1996, in controtendenza rispetto all'eclissi della sinistra italiana, siamo impegnati a dare il nostro contributo alla salvaguardia di un patrimonio ideale che appartiene a tutti. |
|