[Diritti] La forza dell’erba. Un anno di lotta No Tav
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- From: "maria matteo" <fat at inrete.it>
- Date: Fri, 18 Jul 2014 09:12:56 +0200 (CEST)
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Si torna sempre a dicembre.
In questi anni in
Valle è venuta tanta gente. La loro stagione è stata l’estate. Ogni
autunno tornano a casa a perpetuare la storia della Valle che resiste.
Capita di chiedersi quali immagini, memorie portino con se.
La pasta
cucinata nel tendone/cucina del campeggio, il fumo dei lacrimogeni e il
respiro che si mozza, i canti di lotta e le urla di chi viene pestato, i
sentieri di notte, le assemblee, le battiture. Il tempo sospeso della
lotta. Vera vacanza, sospensione della quotidianità, rottura dei suoi
ritmi, dei suoi riti, dei suoi obblighi.
Linfa preziosa da tenere da
parte per l’inverno.
Per chi resta, per chi c’è sempre stato è
diverso: le storie troppo raccontate rischiano di logorarsi. Di
logorarci.
I nostri nemici ci fanno conto. Fanno conto sulla
ripetizione delle stagioni, mentre la talpa continua a bucare la montagna,
spargendo veleni, allargando la ferita.
La ferita nella montagna,
che il nostro sguardo e la nostra cura hanno reso più che roccia e acqua e
alberi, per farne il simbolo della carne viva del nostro movimento.
Un movimento che fatica a sopportare il peso della speranza che ha
rappresentato per tanta gente di ogni dove.
Il rischio è l’usura dei
sentimenti, anestesia del tempo che trascorre, il ripetersi dei passi già
fatti, dei sentieri che conducono là dove la ferita si allarga.
Lo scorso anno l’estate si è chiusa con un bilancio durissimo. Il
sangue, le umiliazioni, gli arresti, la notte del 19 luglio. Quando sono
arrivati i primi convogli speciali con i componenti della talpa, il
movimento si è buttato in strada, ma non è riuscito ad inceppare la
macchina, non è riuscito ad intercettare i convogli.
Per fermare la
talpa ci sarebbero volute le migliaia di persone che partecipano alle
grandi manifestazioni popolari contro l’opera, contro un modello di
relazioni politiche e sociali che devasta i territori, priva di ogni
sovranità gli individui, sfrutta chi ha poco e rende sempre più ricco chi
già lo è.
E’ stata anche l’estate dei sabotaggi delle ditte
collaborazioniste, i mezzi bruciati, la lotta che si radicalizza ma non è
per tutti, anche se tutti la sostengono.
L’autunno è stato segnato
dalle proteste agli alberghi e alle caserme che ospitano le truppe di
occupazione. Iniziative di pochi, che hanno tuttavia mantenuto forte
l’opzione dell’azione diretta.
Poi è tornato dicembre.
Una valle di terroristi
I nostri avversari conoscono
bene il valore dei simboli. Il giorno dopo l’anniversario della presa di
Venaus, quattro No Tav sono stati arrestati con l’accusa di attentato con
finalità di terrorismo, per un’azione di sabotaggio al cantiere del 14
maggio precedente. In quell’occasione venne danneggiato un compressore,
presto riparato e rivenduto. Un’imputazione che ha sottratto alle loro
vite, ai loro affetti, alle lotte Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò.
La grande favola della democrazia si scioglie come neve al sole, ogni
volta che qualcuno prende sul serio il nucleo assiologico su cui pretende
di costruirsi, ogni volta che libertà, solidarietà, uguaglianza vengono
intese e praticate nella loro costitutiva, radicale alterità con un
assetto sociale basato sul dominio, la diseguaglianza, lo sfruttamento, la
competizione più feroce.
La democrazia reale ammette il dissenso,
purché resti opinione ineffettuale, mero esercizio di eloquenza, semplice
gioco di parola. Se il dissenso diviene attivo, se si fa azione diretta,
se rischia di far saltare le regole di un gioco feroce, la democrazia si
dispiega come discorso del potere che ri-assume nella sua interezza
l’assolutismo della regalità. Assoluta, perché sciolta da ogni vincolo,
perché nega legittimità ad ogni parola altra. Ad ogni ordine che spezzi
quello attuale.
Lo fa con la leggerezza di chi sa che l’illusione
democratica è tanto forte da coprire come una coltre di nubi scure un
dispositivo che chiude i conti con ogni forma di opposizione che non si
adatti al ruolo di mera testimonianza.
In questi anni abbiamo
assistito al progressivo incrudirsi della repressione, senza neppure la
necessità di fare leggi speciali: è stato sufficiente usare in modo
speciale quelle che ci sono.
Chi disapprova le scelte del governo,
delle istituzioni locali, delle organizzazioni padronali e dei sindacati
di Stato rischia sempre più di incappare nelle maglie della magistratura,
perché le tutele formali e materiali che davano qualche spazio al dire e
al fare, sono state poco a poco annullate.
Il meccanismo
disciplinare messo in campo dalla magistratura contro i No Tav va ben
oltre il singolo procedimento penale.
La mera professione di
opinioni negative sugli accordi per la realizzazione del Tav crea il
“contesto” sul quale viene eretta l’impalcatura accusatoria che trasforma
il danneggiamento di un compressore in un attentato. Un attentato con
finalità terroriste.
Lo stabilisce l’articolo 270 sexies del codice.
A metà maggio la Cassazione ha cancellato la sentenza del tribunale
del riesame che aveva confermato le accuse di terrorismo, mantenendo le
misure cautelari fissate dal Gip. Il processo in corte di assise ha preso
l’avvio senza modificare l’imputazione originaria. Il 27 giugno vengono
rese note le motivazioni della sentenza della Cassazione.
Secondo la
Cassazione ci sarebbe una “sproporzione” tra quanto avvenuto nella notte
del 14 maggio al cantiere e la presunzione che un tale atto possa
effettivamente indurre lo Stato a fare marcia indietro, cancellando il
progetto della Torino Lyon.
Le motivazioni della sentenza danno
un duro colpo al teorema che la Procura ha elaborato per regolare i conti
con il movimento No Tav e potrebbero contare parecchio nel processo contro
i quattro attivisti arrestati il 9 dicembre 2013. L’11 luglio 2014 altri
tre No Tav sono stati arrestati per il sabotaggio del 14 maggio a
Chiomonte. Lucio, Graziano e Francesco sono stati accusati di attentato
con armi da guerra, senza l’aggravante di terrorismo.
I PM torinesi
intendono riprovarci ma vogliono evitare altre bocciature dalla
Cassazione.
Il dispositivo messo in atto dalla Procura mantiene
tutte le sue insidie.
Usando l’articolo 270 sexies, la Procura
sta sperimentando sul campo un’arma molto affilata ed insidiosa, perché
chiunque si opponga concretamente ad una decisione dello Stato italiano o
dell’Unione Europea rischia di incappare nell’accusa di terrorismo.
L’imputazione formulata contro quattro No Tav, un giorno potrebbe essere
applicata a chiunque lotti contro le scelte non condivise, ma con il
suggello della regalità imposto dallo Stato Italiano.
In altri
termini: se di giorno o di notte, in tanti o in pochi, l’azione dei No Tav
fosse tale da indurre lo Stato a fare marcia indietro, anche per la
Cassazione i No Tav sarebbero terroristi. Tutti terroristi, anche chi sta
in ultima fila con il bimbo in carrozzella, anche chi cammina a fatica,
anche chi non ha coraggio, ma solo un cuore che batte forte per il mondo
nuovo che vorrebbe.
E’ importante che la memoria non vacilli: i
No Tav hanno sostenuto ed appoggiato la pratica del sabotaggio del
cantiere e delle ditte collaborazioniste.
Fermare il Tav, costringere
il governo a tornare su una decisione mai condivisa dalla popolazione
locale è la ragion d’essere del movimento No Tav.
Ogni gesto, ogni
manifestazione, ogni passeggiata per tutti, non diversamente dalle azioni
di assedio del cantiere, di boicottaggio delle ditte, di sabotaggio dei
mezzi mira a questo scopo.
Nella logica dell’articolo 270 sexies gran
parte della popolazione valsusina è costituita da terroristi. E con loro i
tanti che, in ogni dove, ne hanno condiviso motivazioni e percorsi.
Le migliaia di persone che resero ingovernabile la Val Susa nel dicembre
del 2005 erano “terroristi”.
Quella volta non ci furono arresti, né
imputazioni gravi: la ragione è facile.
Lo Stato si arrese, in attesa
di una nuova occasione. Si arrese perché temeva che un’ulteriore prova di
forza potesse far dilagare la rivolta oltre le montagne della Val Susa.
L’ondata di indignazione per le violenze contro i resistenti di Venaus era
tale da indurre alla prudenza, chi pure si era sin lì avvalso della forza.
La parola tornò alla politica, prosecuzione della guerra con altri mezzi,
strumento per prepararsi ad una nuova guerra.
È importante che quella
memoria di lotta ci accompagni in questi anni sempre più duri. I tempi
sono cambiati, lo Stato vuole vincere per restaurare un’autorità
compromessa, per spezzare la speranza concreta che ciascuno possa decidere
la propria vita.
Per questo attua una politica di terrore.
Le
crepe che si stanno aprendo non sono casuali.
Le migliaia di persone
che lo scorso 10 maggio hanno attraversato Torino a fianco di persone
accusate di aver cercato di inceppare il cantiere Tav, le migliaia che in
questi mesi durissimi hanno sostenuto – senza se e senza ma – gli
attivisti accusati di un gesto che tutti hanno fatto proprio, hanno
indebolito il fronte Si Tav.
L’illusione della delega
Il nemico più difficile
da affrontare è l’illusione della delega. La delega a chi sabota, a chi
tiene in vita un presidio, a chi annega tra le carte per mettere in luce
le trame che sottendono il grande affare. La peggior forma di delega è
quella istituzionale, che rilegittima la macchina di chi si arroga il
diritto di decidere per noi, di chi giocherà la sua partita ad un tavolo
dove il banco vince sempre. Chi prende il banco prende sempre tutto
quanto. Per prima la nostra libertà.
La febbre elettorale che
ha attraversato la Val Susa ha assorbito energie enormi, sottraendole alla
quotidianità della lotta. Qualcuno ha portato a casa il risultato, altri
hanno piazzato qualche No Tav sui banchi dell’opposizione.
La febbre
ha contagiato anche le componenti più radicali, divise tra chi si è
buttato a capofitto e chi ha lasciato fare, tacendo.
Un gioco di
equilibri, di realpolitick che era sempre stato sullo sfondo,
nell’ambiguità della separazione formale tra comitati e liste civiche, tra
comitati e partiti, è emerso con prepotenza in superficie.
Lo
scontro tra la vecchia sinistra che, in nome del realismo, ha sottoscritto
patti in contrasto con il mandato ricevuto e il populismo giustizialista,
che sventola la bandiera della democrazia diretta, ma la riduce ad una
farsa telematica, ha offerto un palcoscenico triste a tante brave persone,
che la pratica della partecipazione hanno saputo in tante occasioni
renderla vera.
Sono tempi difficili.
Il dispositivo
disciplinare messo in campo da governo e magistratura si è articolato su
più piani, per tentare di disarticolare il tessuto profondo del movimento,
insinuando la paura, chiarendo che non ci sono aree d’ombra, rifugi
sicuri, che tutti sono nel mirino. Potente l’effetto della super condanna
pecuniaria inflitta ad Alberto, Giorgio e Loredana, condannati dal
tribunale a risarcire LTF, il general contractor della Torino Lyon. Da
allora tutti sanno che la lotta No Tav può costare la casa, i risparmi,
una fetta di stipendio o pensione. L’importante raccolta fondi per i tre
attivisti è stata una risposta di solidarietà potente ma eccezionale,
difficilmente ripetibile.
L’azione repressiva lungi dal dividere il
movimento lo ha rinforzato nell’azione solidale, nell’appoggio ai
carcerati, ai condannati. Ma ha scavato nel profondo. Non si sono scalfite
le convinzioni, si è tuttavia allargata la distanza tra chi fa e chi
applaude, ri-aprendo la strada a percorsi istituzionali e di delega.
Eppure. Eppure gli ingredienti per fare altro ci sono tutti: li abbiamo
conquistati in lunghi anni di azione diretta, confronto orizzontale,
costruzione di percorsi decisionali condivisi. I comitati, i presidi, le
assemblee popolari, gli stessi campeggi hanno alluso ad una possibilità
concreta, quella dell’autogoverno. La sottrazione dall’istituito che il
movimento No Tav ha praticato in tanti anni di lotta fornisce i mattoni e
la malta necessari per dare corpo a luoghi e spazi di confronto,
condivisione e pratica che realizzino l’autonomia reale dalla brutalità
insita in ogni istituzione che pretende di rappresentarci, decidendo al
posto nostro, affermando una nozione di bene comune che ci sottrae la
scelta sul nostro futuro.
L’unico realismo che conti è quello
dell’utopia concreta che – sia pure in alcuni brevi momenti – siamo
riusciti a realizzare. Tutti noi portiamo nei nostri cuori, nella memoria
viva del nostro movimento Venaus e la Maddalena. Libere Rebubbliche, vere
comuni libertarie, dove la gerarchia si è spezzata facendo vivere un tempo
altro.
Vivere al tempo della
peste
In Val Susa lo Stato si mostra nella sua forma più
cruda, senza finzioni.
La ragion di Stato è il cardine che spiega e
giustifica, il perno su cui si regge il discorso pubblico. La narrazione
dei vari governi nega spazio ad ogni forma di dissenso.
Non potrebbe
essere altrimenti. Le idee che attraversano il movimento No Tav sono
diventate pericolose quando i vari governi hanno compreso che non c'era
margine di mediazione, che una popolazione insuscettibile di ravvedimento,
avrebbe continuato a mettersi di mezzo.
La rivolta ultraventennale
della Val Susa è per lo Stato un banco di prova della propria capacità di
mantenere il controllo su quel territorio, fermando l’infezione che ha
investito tanta parte della penisola.
Allo Stato non basta vincere.
Deve chiudere la partita per sempre, spargere il sale sulle rovine,
condannando i vinti in modo esemplare.
L’osmosi tra guerra e
politica è totale. La guerra interna non è la mera prosecuzione della
politica con altri mezzi, una rottura momentanea delle usuali regole di
mediazione, la guerra è l'orizzonte normale. In guerra o si vince o si
perde: ai prigionieri si applica la legge marziale, la legge dei tempi di
guerra.
In ballo non c'è solo un treno, non più una mera
questione di affari. In ballo c'é un'idea di relazioni politiche e sociali
che va cancellata, negata, criminalizzata.
Lo Stato sa che in Val
Susa spira un vento pericoloso, un vento di sovversione e di rivolta.
Intendiamoci. Lo Stato non ha paura di chi, di notte, con coraggio,
entra nel cantiere e brucia un compressore. Lo Stato sa tuttavia che
intorno ai pochi che sabotano c'é un'intera valle.
Un fatto
importante ma non decisivo.
La partita vera, quella giocata sapendo
di poter vincere, di avere in mano le carte giuste, nelle gambe la forza
di correre, nella testa la convinzione di farcela, si gioca altrove, in un
altro modo.
La scommessa, una scommessa che investe ciascuno di noi,
chi in prima fila, chi un poco più indietro è rendere ingovernabile
l’intero territorio, attraverso i percorsi di sottrazione conflittuale
dall’istituito che hanno costruito la narrazione che ogni anno sospinge
tanta gente in quest’angolo di nord ovest.
Ci vorrà tempo, ci vorrà
soprattutto il coraggio di crederlo possibile.
Chi vive in città
conosce un segreto che i montanari ignorano. Ogni anno nell’asfalto si
aprono nuove crepe: lì, ogni anno, spunta l’erba.
Quando le crepe si
allargano spunta anche un fiore.
Noi siamo come l’erba: il prato
cresce grazie ad ogni singolo stelo. Nulla è più forte, più tenace, più
paziente, più bello dell’erba.
(questo testo è stato discusso e condiviso tra i compagni e le
compagne della federazione anarchica torinese)
Qui il programma della marcia No Tav cominciata ieri ad Avigliana
www.anarresinfo.noblogs.org
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