Della marcia tra Susa e Bussoleno



Decine di migliaia di No Tav alla marcia tra Susa e Bussoleno

Senza deleghe né sconti a nessuno

Il Tav è un’opera inutile, dannosa, devastante. Fermarla, impedire lo sperpero di risorse e lo scempio del territorio e della salute è importante. Importante in se, al di là del come.

C’è però dell’altro. Tra un barricata e una marcia, tra una giornata di blocco dell’autostrada e l’occupazione di una ditta collaborazionista, tra un picchetto ai cancelli e una giornata per i boschi c’è un movimento che ha costruito relazioni politiche dal basso, esperienze di partecipazione diretta, senza deleghe né sconti a nessuno, un senso altro dell’agire collettivo. Per i No Tav “uno vale uno” non è la mesta parodia recitata con abilità da un guru che mette il bavaglio ai “suoi” parlamentari e li dota di un paio di blogger/portavoce alle sue dirette dipendenze.

Se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, è vero anche il contrario. Se non si vince la guerra si ricorre alla mediazione per evitare che una battaglia rovinosa si trasformi in una rovinosa disfatta. È quello che accadde nel dicembre del 2005, quando il governo, dopo anni di silente disprezzo, interruppe le vacanze per il ponte dell’Immacolata e convocò a Roma il presidente della Comunità Montana Bassa Val Susa.
Un mese e mezzo di resistenza, tre giorni di insurrezione popolare convinsero il governo a fare marcia indietro, mettendo da parte le armi per mettere in campo le arti della seduzione e dell’inganno e qualche manciata di quattrini.

Non funzionò e sei anni dopo sono ritornati con un esercito più forte, agguerrito, abile. Sappiamo come è andata. Quasi due anni di lotta durissima dove il movimento ha contrastato metro dopo metro l’avanzata del nemico, ma non ha più saputo trovare lo slancio trainante dell’insurrezione.

La magica alchimia del 2005 non poteva essere riprodotta in vitro. Gli avversari del movimento No Tav fecero tesoro degli errori commessi negli anni precedenti, scegliendo con cura luoghi e tempi dell’attacco. Nel movimento, nonostante robuste spinte avverse, prevalse la scelta di assediare un fortilizio, impegnandosi in una guerra di posizione di lungo periodo. La carta dello sciopero generale venne messa da parte, nonostante a febbraio 2011, dopo le violenze in autostrada, un’assemblea popolare l’avesse deciso. Le campagne di lotta contro le ditte collaborazioniste si sono concentrate in poche azioni episodiche, duramente represse ma incapaci di segnare un’inversione di rotta. Il nuovo presidio di Chiomonte è stato sgomberato, posto sotto sequestro e poi ripreso, ma tenerlo quotidianamente non era più possibile.

Le campagne mediatiche e la repressione lavorano ai fianchi il movimento nella speranza che prevalga la tentazione a lasciar perdere, a cedere di fronte alla forza, a dare per scontata la sconfitta.
Era tempo per una grande manifestazione popolare, che desse slancio alla resistenza, una manifestazione che ponesse al centro la volontà di bloccare i lavori, di farlo con l’azione diretta, senza mediazioni, nella consapevolezza che solo allargando il fronte era possibile mettere in difficoltà l’avversario. In questo contesto è nata l’idea della marcia da Susa a Bussoleno.
Quasi in ogni paese ci sono state assemblee autogestite dai comitati, zone autonome, dove l’attitudine critica non si ferma al Tav, per investire l’insieme dell’organizzazione politica e sociale. La manifestazione aveva lo scopo esplicito di far sì che la radicalità che si esprime nella lotta al cantiere possa rendere ingovernabile un territorio più ampio, coinvolgendo in prima persona nell’azione diretta i tanti che oggi approvano ma non si muovono se non nelle grandi occasioni.

 

Le convulsioni della politica recitata nei palazzi hanno portato ad elezioni anticipate. I No Tav, per evitare di essere usati per la propaganda di questo o di quello, hanno deciso di fare la marcia da Susa a Bussoleno dopo la roulette del voto.

Le elezioni hanno portato in parlamento una significativa compagine di parlamentari No Tav: la maggioranza del MS5, alcuni di Sel. Uno tsunami, che ha investito anche la Val Susa.

La marcia fissata per il 23 marzo ha mutato di segno mediatico.

I grillini si sono presi la scena, organizzando la visita/ispezione al cantiere di Chiomonte: la polizia ha dato una mano con una serie di dichiarazioni ad effetto, che hanno moltiplicato l’attenzione su una banale passeggiata sul piazzale militarizzato.

Se a ciò si aggiunge la scelta di alcuni No Tav di salire sui pullmini di LTF con il ruolo di “consulenti” di questo o di quell’onorevole, l’effetto è garantito, specie se tra loro ci sono persone con il pedigree giusto sul quale i media possano giocare la propria partita: “l’anarchico”, il “numero tre” del tale centro sociale, il “noto leader”. Tutti descritti per le inchieste della magistratura a loro carico, catalizzano il gusto dei giornalisti per il paradosso, tra finti timori ed esibita indignazione.
Al di là dell’effettaccio scenico questa scelta la dice lunga. La dice lunga sulla voglia di alcuni settori di movimento di approfittare della mediazione e (protezione?) politica di M5S e Sel.
Alla vigilia della marcia un esponente di un centro sociale torinese ha dichiarato ad un giornalista della Stampa che “è la prima volta che un partito si mette a disposizione del movimento senza fare distinzioni tra buoni e cattivi. Senza mettere in discussione le dichiarazioni dei comitati valsusini all’indomani del 3 luglio 2011”. Il 3 luglio del 2011 è il giorno dell’assedio alla Maddalena ad una settimana dallo sgombero del 27 giugno. Io ricordo bene le altalenanti dichiarazioni del guru genovese, che ha chiamato i valsusini “eroi” salvo poi, accortosi tardivamente di dov’era arrivato, aggiustare sensibilmente il tiro.

La posizione degli orfani di tutele istituzionali, non dovrebbe stupire nessuno, tranne chi crede nella loro propaganda. La foglia di fico è la favola sui diversi ruoli, l’ammiccamento su chi fa da stampella chi.
D’altra parte la presenza di una compagine istituzionale in parlamento è vista con favore in diversi altri settori di movimento, che vi intravedono la possibilità di aprire crepe nel fronte avversario, pur nella consapevolezza che l’azione diretta popolare è la scelta di tutti i No Tav.

Semmai il rischio, sottile sottile, ma insidioso è una possibile deriva legalitaria, latente nell’insistere di molti sulle molte irregolarità del cantiere.

Immaginiamo che le “ispezioni” parlamentari al cantiere di Chiomonte inducano il governo di turno a rispettare le regole, a essere meno disinvolto negli appalti, a restringere il perimetro occupato. Immaginiamo che il cantiere diventi formalmente legale.
Cosa cambia? Il Tav fatto a norma di legge sarebbe meno inutile, devastante? Non sarebbe più l’emblema di un’idea di progresso e sviluppo che altro non è che predazione delle risorse e sottrazione della facoltà decisionale a noi tutti?
Chi ha accompagnato i parlamentari al cantiere alimenta una pericolosa illusione. L’illusione che il ripristino della “legalità” sia il primo passo per fermare l’opera.
Ancora una volta la politica di palazzo irrompe tra le fila dei No Tav, anche se la situazione è opposta a quella del 2005. Oggi la lobby del Tav è padrona del terreno ed ha ancora una solida maggioranza in parlamento.

Un passo indietro della lobby Si Tav non è pensabile, se non alla luce di un mixer tra accordi di palazzo e crisi economica. Difficile dirlo ora. Anche se qualche segnale c’è stato. Il convegno organizzato dagli amministratori locali in contemporanea con la visita al cantiere dei neoparlamentari, si è caratterizzato per la presenza della deputata PD Puppato e del sindaco di Bari Emiliano, entrambi schierati contro la Torino Lyon.

Esiste quindi la possibilità, che la parola passi ancora una volta ai tavoli di mediazione, con tutti i rischi che ciò comporta.

Perino, pur partecipando alla visita al cantiere a fianco dei grilli, ha concluso il suo comizio al termine del corteo da Susa a Bussoleno, dichiarando che solo il movimento può davvero fermare il Tav.

Dalla Libera Repubblica di Venaus a quella della Maddalena i No Tav hanno imparato che la legge è la legge del più forte e che solo la rivolta popolare può far fare marcia indietro a questo treno. A questo treno e a tutto quello che rappresenta.

 

Il corteo che è sfilato per nove chilometri da Susa a Bussoleno ha messo in campo la volontà di esserci e di contare di una popolazione che ha imparato il gusto della libertà e non è certo disponibile a disperdere il patrimonio di relazioni solidali, che ci consente di resistere da tanto tempo, nonostante la violenza degli attacchi che ci hanno colpiti.

30/40 mila persone, difficile dirlo. Certo tanti, tantissimi. Lo zoccolo duro dei No Tav dei vari paesi, raccolti intorno agli striscioni dei comitati, le famiglie No Tav con il trenino con i bambini, le sculture di gommapiuma di Piero Gilardi, in testa Giacu, il folletto uscito per un giorno dalle sue peregrinazioni in Clarea, lo striscione giallo delle lotte contro i treni nucleari. Lo spezzone anarchico, aperto dallo striscione “azione diretta autogestione”, non enorme ma dignitoso, mentre decine di bandiere rosse e nere spuntavano in ogni dove del corteo.

Da fuori decine di comitati di lotta, da quelli per l’acqua, a quelli che si battono contro inceneritori e discariche: il popolo dei solidali in una piazza, che al di là della propaganda dei media, al di là delle menzogne della polizia, preoccupa perché raccoglie tante anime, unite dalla determinazione a costruire un tempo altro.

Lunedì 25, a due giorni dal corteo, spenti i riflettori, alcune decine di No Tav si sono alzati alle quattro del mattino, per fare una sortita ai cancelli della centrale, bloccando numerose auto e pullmini diretti al cantiere. Per far passare una mega gru la questura ha dovuto schierare gli uomini fuori dal recinto.

 

Non ci aspettano mesi facili. Ma questo movimento ha buone gambe, e tante teste che pensano e si confrontano in libertà. I No Tav non si sono mai fatti portare a spasso a da nessuno. Quelli che l’avevano sostenuta hanno saputo tagliare il cordone ombelicale con la sinistra che nel 2006 ha incassato voti e poi tradito chi li aveva eletti. Il 23 c’erano anche loro, una bandiera in ogni mano a spintonare per un posto in prima fila, che hanno perso votando il dodecalogo di Prodi.

Grillo, che arrogantemente dichiara “senza di me in Italia ci sarebbe una rivolta popolare”, credendo di poter imbrigliare i movimenti di resistenza in una formula demagogica, imparerà a proprie spese che la voglia di libertà, la dignità del nostro presente e del nostro domani i No Tav non le hanno mai delegate a nessun padrino.

Qualcuno la racconta come fosse una storia di treni: da tanto tempo questa è una storia di gente. Gente che ha scoperto, con pazienza, fatica e un pizzico di azzardo che l’ordine della cose non è disegnato una volta per tutte. Governo, politici e poliziotti tracciano la geometria del potere, quella che disegna i muri e le recinzioni che separano, dividono, chiudono.
Chi si mette gli scarponi e cammina per i sentieri di montagna sa che la strada della gente è fatta di passi che si incrociano, di tracce nel bosco che vivono perché c’è chi le percorre e ne ha cura. Sa che frontiere e filo spinato possono essere buttati giù, che gli uomini in armi messi a guardia possono essere cacciati.

Sin dal lontano dicembre del 2005 tanti che credevano nel gioco e nelle sue regole, hanno compreso che le carte sono truccate, che il banco bara. Sempre. Quanto l’ordine si rompe diventa chiaro che libertà e legalità sono scritte con inchiostri diversi, ed uno lava via l’altro. Tagliare le reti, violare un recinto, affrontare la polizia è illegale ma legittimo. Quando l’ordine del discorso muta, la narrazione sull’ordine pubblico è solo storia d’oppressione.
Cambiare l’ordine del discorso è la nostra scommessa. Non è un’impresa facile e, soprattutto, non bastano le parole, serve un agire che dia loro gambe per muoversi, fiato per correre, cuori per sedurre, cervello per farle proprie.
Quando l’ordine del discorso muta, ad affrontare la polizia, i media, i giudici, ci arrivano tutti. Chi in prima fila, chi in ultima, chi poco oltre l’uscio di casa.
È di questo che hanno paura. È su questo che dobbiamo puntare.

Maria Matteo (quest’articolo uscirà giovedì sul settimanale Umanità Nova)