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[Resistenza] Processo "Caccia allo sbirro": tutti assolti!
- Subject: [Resistenza] Processo "Caccia allo sbirro": tutti assolti!
- From: Resistenza Pcarc <resistenza.pcarc at rocketmail.com>
- Date: Tue, 19 Feb 2013 07:27:33 -0800 (PST)
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Partito dei Comitati di Appoggio alla Resistenza - per il Comunismo (CARC)
Via Tanaro, 7 - 20128 Milano - Tel/Fax 02.26306454
e-mail: resistenza at carc.it – sito: www.carc.it
Milano, 19.02.2013
e-mail: resistenza at carc.it – sito: www.carc.it
Milano, 19.02.2013
Tutti assolti per “non aver commesso il fatto” (con la formula che la “prova del
reato è mancante, insufficiente o contraddittoria”). Con questa sentenza il
giudice Pecorella il 12 febbraio ha chiuso il procedimento aperto nel 2009 a Bologna contro tre compagni del Partito dei
CARC e del Sindacato Lavoratori in Lotta-per il sindacato di classe e un altro
compagno accusati di “istigazione a delinquere, diffamazione e violazione della
legge sulla privacy,” perché, secondo il PM Morena Plazzi titolare del procedimento,
avrebbero collaborato con il sito “Caccia allo Sbirro” [http://cacciaallosbirro.awardspace.info/]
realizzato dal (nuovo)Partito comunista italiano per rendere noti i volti di agenti
delle forze dell'ordine che spiano, controllano, schedano, minacciano,
ricattano, orchestrano provocazioni, infiltrano, picchiano, massacrano.
E’
la seconda vittoria nel giro di breve: il 17.10.12 si è infatti concluso sempre
con un’assoluzione (in questo caso “perché il fatto non sussiste”) anche il procedimento
giudiziario per associazione sovversiva con finalità di terrorismo (art. 270
bis) aperto nel 2003 contro il (n)PCI, il P.CARC e l’ASP dal sostituto
procuratore di Bologna Paolo Giovagnoli (ora Procuratore Capo a Rimini). Nell’arco
di pochi mesi i due principali procedimenti giudiziari contro la nostra area
politica sono caduti nel nulla.
E’ una vittoria di tutte quelle organizzazioni e
associazioni che protestano contro le violenze, gli arbitri e i crimini delle
forze dell’ordine, si battono per l’introduzione del codice identificativo per
gli agenti in servizio di ordine pubblico e del reato di tortura, si mobilitano
perché sia fatta “verità e giustizia” sugli omicidi di Stato e sulle stragi di
Stato, perché vengano sciolti i corpi speciali formati, selezionati e
addestrati per le operazioni sporche contro i comunisti, gli oppositori
politici e le masse popolari. Come avevamo dichiarato fin dall’inizio, il
procedimento giudiziario montato dal PM Morena Plazzi aveva un unico obiettivo:
colpire, scoraggiare e far arretrare tutto quel variegato movimento di
“vigilanza democratica” cresciuto negli ultimi anni, in particolare dal G8 di
Genova in poi. E questo, volenti o nolenti, significa garantire l’anonimato,
quindi l’impunità, la licenza di abuso e magari anche di carriera a quegli
agenti delle forze dell’ordine autori di crimini, abusi, arbitri e soprusi, ai
loro capi e ai loro mandanti.
Il giudice si è preso 60
giorni di tempo per depositare le motivazioni della sentenza di assoluzione.
Quando lo farà le renderemo pubbliche perché (come successo con le sentenze del
procedimento aperto da Giovagnoli per associazione sovversiva con finalità di
terrorismo) possano servire ed essere usate anche da altri compagni e attivisti
inquisiti in procedimenti analoghi: bisogna far valere ogni appiglio offerto da
quelle leggi che in qualche modo ancora
tutelano le libertà di opinione, organizzazione e attività politica sancite
dalla Costituzione ancora (almeno formalmente) in vigore.
Ma non è negli
articoli di legge che vanno cercati i motivi dell’assoluzione del 12 febbraio.
I compagni non sono stati assolti perché un giudice si è reso contro che i
reati specifici di cui erano accusati non avevano fondamento neanche ai termini
delle leggi in vigore e che le prove di colpevolezza non c’erano o erano
insufficienti o contraddittorie: tutto questo era chiaro ed evidente fin
dall’inizio del processo (e anche prima)!
Non lo diciamo per “partito preso”.
Quali erano i reati
specifici addebitati ai compagni sotto processo? Istigazione a delinquere, diffamazione
e violazione della privacy. L’istigazione a delinquere consisteva
nell’incitamento a “diffamare gli agenti delle forze dell’ordine” (cioè a
denunciare e smascherare quelli che
spiano, controllano, schedano, minacciano, ricattano, orchestrano provocazioni,
infiltrano, picchiano, massacrano) e a rendere noti i loro nomi e volti:
“peccato” però che l’accusa di diffamazione non aveva basi perché nessuno degli
agenti che comparivano sul sito aveva presentato querela e quando il
procedimento per Caccia allo sbirro è stato aperto “le notizie concernenti lo
svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto a una funzione pubblica e
la relativa valutazione non sono oggetto di protezione della riservatezza
personale” (art. 1 del Testo unico sulla privacy, esclusione che è stata poi
“opportunamente” soppressa nel 2010). Possibile che il PM e i vari giudici per
le cui mani è passato il procedimento non se ne siano accorti? A questa stregua
è possibile anche che gli asini volino!
E le prove? Tanto erano
“importanti” le prove che a 3 anni dalle perquisizioni gli inquirenti non
avevano neanche esaminato i computer, le chiavette usb e le macchine
fotografiche che avevano sequestrato! Per “mettere una pezza” il giudice in
accordo con il PM ha ingaggiato (a indagini chiuse!) un perito informatico a
cui sono stati pagati quasi 9mila euro per arrivare a concludere che “non è
possibile stabile con certezza che le foto trovate sui reperti sequestrati
siano le stesse apparse sul sito Caccia allo sbirro”... sorvolando per di più
sul fatto che tutte le analisi sono state fatte su un sito (http://cacciallosbirro.iblogger.org)
diverso da quello incriminato
(http://cacciallosbirro.byethost7.com)!
I motivi
della vittoria del 12 febbraio stanno principalmente nella linea con cui gli
inquisiti e le organizzazioni coinvolte hanno fatto fronte al procedimento
giudiziario.
Nessuna di esse ha
“smobilitato”, è “stata buona”, ha sospeso le attività “incriminate” o ne ha
preso le distanze. Il (n)PCI ha aperto un altro sito Caccia allo sbirro (il
primo era stato oscurato da “ignoti”!) che è tuttora funzionante. Il P.CARC insieme
al SLL ha dall’inizio alla fine rivendicato che denunciare e rendere noti volti e nomi degli agenti
picchiatori e provocatori è un dovere
democratico, uno strumento di prevenzione e un elementare strumento di difesa,
hanno lanciato un appello (link) a estendere il controllo e la vigilanza
democratica sottoscritto da quasi 10.000 persone. Alcuni degli inquisiti hanno
dato vita al sito vigilanzademocratica.org
per sostenere e alimentare la denuncia contro gli abusi e i crimini delle forze
dell’ordine, la battaglia per il codice identificativo e il reato di tortura,
il coordinamento e l’unità d’azione tra gli organismi e le associazioni
mobilitate in questo campo. Già di per sé la continuità e anzi lo sviluppo
delle attività di vigilanza democratica ha spuntato le armi al procedimento
giudiziario. Non è punire i colpevoli di “reati” veri o presunti il contenuto
reale delle inchieste e dei processi, ma disgregare gli organismi che sono o le autorità ritengono che possano diventare centro
propulsore della mobilitazione e della resistenza popolare contro il regime,
porre fine ad attività che coagulano lo sdegno, la rabbia e l’insofferenza per
il corso rovinoso delle cose intorno ad obiettivi che rafforzano il campo delle
masse popolari e minano la direzione della borghesia e del clero ed
esibire di fronte alle masse
popolari lo spettacolo di comunisti, oppositori politici e ribelli trasformati
in pentiti, in dissociati, in cantori di una “democrazia”, di una “legalità”
che uccide, riduce in miseria e getta nella disperazione una parte crescente
della popolazione. Se ci riescono, hanno raggiunto il loro obiettivo; in caso
contrario, si trovano in difficoltà, si trovano posti di fronte all’alternativa
se andare avanti o lasci cadere l’attacco giudiziario.
Il processo è stato
impostato e condotto come un “processo
di rottura”. Ne abbiamo trattato già altre volte nei nostri comunicati, sul
sito e su Resistenza. Visto il
moltiplicarsi di indagini, inchieste, procedimenti giudiziari, sanzioni e
ritorsioni di vario genere contro chi protesta, lotta e si ribella all’ordine
di miseria, devastazione e guerra degli “italiani che contano”, delle loro
autorità e della loro comunità internazionale vale la pena di tornarci su. Il processo di rottura non si riduce
né al comportamento in aula degli imputati, né al “fare casino dentro e/o fuori
dai tribunali” e neanche alla linea difensiva degli avvocati, anche se
comprende una linea di comportamento degli imputati e degli avvocati, di
gestione della presenza dentro e fuori i tribunali: trasformarsi da accusati in
accusatori, negare da parte degli imputati ogni collaborazione alle autorità
dello Stato, non collaborare alla messinscena della giustizia uguale per tutti.
Il processo di rottura è principalmente un’operazione politica, un’operazione
di propaganda (tra le masse popolari) e di mobilitazione (delle masse popolari)
condotta prendendo spunto dal processo e sfruttando le azioni delle autorità,
della magistratura e della polizia. Una campagna tesa a sfruttare il processo
per compiere un passo avanti nella battaglia specifica che l’organizzazione
sotto attacco sta conducendo e più in generale nella guerra che oppone le masse
popolari alle autorità dei padroni, dei banchieri, degli speculatori e della
gerarchia vaticana, quindi per accumulare forze rivoluzionarie e indebolire il
potere della borghesia imperialista.
La linea di
comportamento degli avvocati, la difesa legale svolta dagli avvocati va
considerata e fatta diventare parte integrante del processo di rottura: quindi
né subordinare l’impostazione e la gestione del processo alla difesa legale
(cioè ai margini consentiti da dispositivi, leggi, strutture, procedure vigenti) né lasciar andare gli
avvocati e la difesa legale per conto loro, ma orientare gli avvocati perché la
linea con cui conduciamo l’operazione politica ispiri anche la linea difensiva
e quest’ultima a sua volta supporti e alimenti la nostra operazione politica.
Processo di rottura
significa rompere con le regole e la prassi imposte dalla borghesia e dalle sue
istituzioni (rompere con subordinazione ideologica, politica e morale alla
borghesia e alle sue istituzioni), usare tutte le possibilità e gli
appigli per educare noi stessi e le
masse alla lotta di classe, per fomentare e mobilitare le masse contro la
borghesia (lotta contro il
legalitarismo borghese), per creare scompiglio nel
campo della borghesia (mobilitare i sinceri democratici della società civile e
delle amministrazioni locali, gli esponenti della sinistra borghese non
ciecamente anticomunisti, usare i contrasti tra gruppi e apparati del campo
nemico).
Così facendo è possibile
rivoltare contro i suoi mandanti ed esecutori ogni azione repressiva e ogni
provocazione, usarli per rafforzare la mobilitazione e l’organizzazione delle
masse ed elevare la loro coscienza politica.
In particolare il processo Caccia allo sbirro è
stata l’occasione per “mettere il dito nella piaga” del VII Reparto Mobile di
Bologna: per denunciare la lunga storia di crimini e abusi di cui è
responsabile (link al dossier), per sostenere le vittime di questi picchiatori
in divisa, per mettere la
Procura di Bologna di fronte ai due pesi e due misure che usa
verso chi promuove la vigilanza democratica e verso questo corpo di criminali
che ha sotto il naso (leggi la dichiarazione
in aula degli imputati del 12.02.13), per chiamare le associazioni
impegnate contro gli abusi delle forze dell’ordine a presentare un esposto
contro il VII Reparto Mobile.
La forza
della battaglia per la “vigilanza democratica” sta nella combinazione delle
movimento di opinione, degli appelli (come la lettera
aperta a Ingroia), delle petizioni, delle raccolte di firme con le
mobilitazioni di piazza e le iniziative pratiche per rendere pubblici volti e
nomi degli agenti picchiatori e provocatori (come il sito Caccia allo sbirro e
altri analoghi siti di copwatching), per far conoscere modus operandi dei corpi
speciali e non contro il movimento di resistenza popolare (come ha fatto
Anonymus), per stare “con il fiato sul collo” ai corpi speciali formati,
selezionati e addestrati per le operazioni sporche contro i comunisti, gli
oppositori politici e le masse popolari come il VII Reparto Mobile di Bologna,
il Battaglione Tuscania, i Nocs, per rimuovere tutti gli agenti colpevoli di
abusi e soprusi, individuare, denunciare e cacciare i loro capi e mandanti!
Come insegna il movimento NO TAV, no alla divisione tra “buoni e cattivi”!
Ringraziamo tutti i compagni, i lavoratori e quanti ci hanno
sostenuti in vari modi: la solidarietà è un’arma! Un ringraziamento particolare
ai nostri avvocati per la dedizione, la passione e la perizia con cui hanno contribuito
alla battaglia per la vigilanza democratica: ci auguriamo che saremo insieme
per raggiungere nuove e definitive vittorie!
Dedichiamo la vittoria del 12 febbraio a Carlo Giuliani, a
Federico Aldovrandi, a Stefano Cucchi, a tutte le vittime dei crimini e degli abusi
delle forze dell’ordine, ai loro familiari che si battono per la verità e la
giustizia e perché, come ha detto la madre di Federico, “quanto è accaduto a
mio figlio non succeda mai più”. Agli attivisti NO TAV sotto processo. Ai
giovani condannati per la manifestazione del 15 ottobre 2011: uno di loro,
Davide Rosci, è stato arrestato nei giorni scorsi perché è uscito per andare a
lavorare sbagliando giorno, un trattamento ben diverso da quello riservato a
Sallusti, direttore de Il Giornale,
subito graziato dal suo compare Napoletano!
La lotta paga! La solidarietà è un’arma, usiamola!
Estendere il controllo e la vigilanza democratica!
Smascherare,
denunciare, rendere noti volti e nomi degli agenti picchiatori e provocatori
- è un dovere democratico: anonimato vuol dire licenza di
picchiare, minacciare, torturare e uccidere, garanzia di impunità e magari
anche di carriera
- è uno strumento di prevenzione: rende più difficili se non
impossibili gli abusi e le prepotenze della polizia
- è un elementare strumento
di difesa: se li conosci, almeno puoi evitarli
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