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Torino 7 novembre. Piazza Antirazzista
- Subject: Torino 7 novembre. Piazza Antirazzista
- From: "Federazione Anarchica Torinese - FAI" <fat at inrete.it>
- Date: Wed, 3 Nov 2010 22:35:41 +0100 (CET)
- Importance: Normal
Torino 7 novembre. Piazza Antirazzista Domenica 7 novembre piazza Madama Cristina dalle 15 alle 24 Ore 16 passeggiata per il quartiere con samba band Ore 17,30 assemblea - contro il razzismo istituzionale e le politiche securitarie - contro lo sfruttamento dei lavoratori immigrati e italiani - per la chiusura dei CIE - contro il contratto di soggiorno - per la tutela della salute e dell’istruzione per tutti e per tutte - verso il corteo del 27 novembre Interverranno, tra gli altri, due avvocati impegnati sul fronte dell’immigrazione Poi… cena con pizze del forno autogestito itinerante e castagnata (+ castagne – maroni!) concerto dei Suoni erranti, canti e balli dal sud d’Italia DJ set con le Elettrosciocchine e Nik Alien Vino, cibo e quello che ti va di portare Rete “10luglioantirazzista”, Torino Scarica l’appello e i volantini in italiano, inglese, arabo: http://senzafrontiere.noblogs.org/appuntamenti-novembre-2010/ Questa vuole essere la prima di molte piazze. Di seguito l’appello. Amina ha lavorato 15 anni presso un anziano non autosufficiente, quando lo strappo di un tendine provato dalle fatiche di un lavoro che non la tutela, la rende inabile al suo incarico e ora rischia di perdere il permesso di soggiorno. Alì, dopo aver messo in gioco la sua vita attraverso il Sahara e il Mediterraneo, ottiene un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il sistema d'accoglienza di cui dovrebbero beneficiare richiedenti asilo e rifugiati, trascorsi i sei mesi di validità del permesso, lo ributta in strada. In Italia da sei anni, Alì non trova casa né lavoro. Sabri sale sul tetto del CIE di corso Brunelleschi per opporsi alla deportazione nel suo Paese: la Tunisia. Proprio Tunisia e Algeria hanno da poco firmato un accordo con l'Italia per il rimpatrio forzato di chi, poiché senza documenti, si trova rinchiuso nei lager per immigrati della Penisola. Queste dinamiche disegnano storie che, pur nella loro unicità, ci appaiono ossessivamente uguali, risucchiate come sono in un turbinio di identiche ingiustizie. Ingiustizie subite da chi, costretto ad emigrare, vive una realtà scandita dalla mancanza di lavoro, dall'incertezza abitativa, strangolato da una burocrazia che ostacola qualsiasi progetto di vita o lo prende in giro, come sta succedendo ai molti immigrati turlupinati dalla “sanatoria badanti e colf” rivelatasi una vera e propria truffa. Governi di entrambi gli schieramenti hanno promulgato leggi sull'immigrazione che stabiliscono chi è legale e chi è illegale. Legale è chi riesce a strappare un contratto di lavoro fino a che quel lavoro dura, in un mercato avido di mano d'opera a basso costo e sempre più insofferente ai diritti. Illegali sono, o divengono, tutti gli altri. Gli immigrati che lavorano in nero, gli immigrati licenziati dalle aziende in crisi, i rifugiati ai quali vengono puntualmente rifiutate le domande d'asilo. Illegali sono i ragazzi cresciuti in questo Paese se, una volta maggiorenni, non riescono a trovare un lavoro regolare. Lo stato d’eccezione rappresenta in maniera crescente la regola operante: nella gestione dei rifiuti come in quella delle calamità naturali, nel controllo degli ultrà come degli immigrati, nella repressione della criminalità organizzata come nella realizzazione delle “grandi opere”. La sospensione del diritto ordinario, che informa la quotidianità del migrante, si regge sulla produzione di stereotipi razzisti ad opera di un’assordante propaganda mediatica: perché l’altro sia sempre l’estraneo, il sospetto, il criminale, e quindi legittimamente escluso da ogni tutela, la vita appesa a un destino che lo vuole sfruttato nei campi del Sud come nelle imprese e cooperative del Nord. Perché l'alternativa è la reclusione nei CIE, l'alternativa è il rimpatrio forzato. Il “pacchetto sicurezza” ratifica inequivocabilmente la consuetudine a trattare le questioni sociali in termini di ordine pubblico. La pervasività del potere securitario e poliziesco è venuta accrescendosi di pari passo con l'incremento dei movimenti migratori e con la promulgazione di leggi razziste. Il razzismo di stato diviene uno degli strumenti attraverso i quali vengono conseguiti obiettivi politici – in particolare legati al consenso – e perpetrate politiche di sfruttamento selvaggio del lavoro. D'altronde le imprese necessitano della mano d'opera straniera, meglio se esclusa da qualsiasi diritto e priva di tutele legali, per essere competitive nel mercato globale. Il PIL Italiano si basa per il 17,5% sul lavoro nero e va da sé che fare del possesso di un contratto di lavoro la condizione della legalità o meno dell'immigrato, non è più che un pretesto per assicurarsene il controllo. Ultima trovata di questa perversa strategia è un nuovo disegno di legge: il “permesso di soggiorno a punti”, in vigore a partire da gennaio. Questa legge istituisce nuove discriminazioni ed esclusioni, non più basate unicamente sul contratto di lavoro bensì su di un cosiddetto "contratto d'integrazione" che piegherà il migrante alle speculazioni delle agenzie di formazione e delle associazioni del privato sociale. Il migrante dovrà superare dei test di lingua italiana, di conoscenza della costituzione e della vita "civile" in Italia, pena la perdita del permesso di soggiorno: di fatto un ulteriore intralcio alla regolarizzazione e un arricchimento in termini sociali ed economici delle numerose associazioni che hanno fiutato il business dell'integrazione. Opporre una resistenza politica e sociale a queste derive significa ricostruire reti di relazioni solidali e antirazziste che crescano dal basso, dal riconoscimento di un comune vissuto di precarietà, per opporsi al fascismo e al razzismo imperanti, i cui sintomi da tempo riconosciamo nelle strade che abitiamo ogni giorno. Riprenderci quelle strade, riappropriarci di quello spazio sociale aperto che è il quartiere, ci pare l'unica risposta politica valida e praticabile pubblicamente. Le politiche securitarie, così come il degrado urbanistico e morale, si combattono anche riempiendo nuovamente quelle strade di vita collettiva, di condivisione pratica, di contenuti antirazzisti. Lanciamo dunque una serie di iniziative, rivolte a diversi quartieri della città, per mostrare che il quartiere può e deve vivere per chi lo abita, italiano o straniero che sia. Perché i quartieri sono insicuri e pericolosi nella misura in cui divengono dormitori dalle strade deserte con la sola funzione di ricoverare gli abitanti in attesa di una nuova giornata di lavoro.
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