Rivolte e fughe nei CIE. Torino: punto info solidale il 7 aprile
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- Date: Mon, 6 Apr 2009 19:14:29 +0200
Rivolte e fughe nei CIE.
Torino: punto info solidale il 7 aprile Martedì 7
aprile, punto info solidale
in via Po 18 (in caso di
pioggia sotto i portici) Appuntamento dalle
18. L’ultima notizia è di
oggi. Dal CIE di corso Brunelleschi a Torino hanno provato a fuggire in 20: in
quattro hanno conquistato la libertà ma sono stati subito ripresi. Per tutti una
buona dose di botte: qualcuno è finito all’ospedale, cinque sono stati arrestati
per resistenza. La sera precedente al CIE
di via Corelli a Milano è scoppiata la rivolta. I prigionieri sono saliti tutti
sul tetto: la polizia li ha tirati giù a forza, poi è entrata nelle camerate in
assetto antisommossa ed ha pestato. Giù con manganelli, calci di fucile,
sparalacrimogeni. Le urla dei pestati sono
state trasmesse in diretta da radio Blackout. Trovate l’audio
qui: http://piemonte.indymedia.org/article/4619 Questi sono solo gli
ultimi episodi di un lungo mese di guerra. Di seguito il testo del
volantino che stiamo distribuendo in questi giorni. Stragi, rivolte, fughe,
pestaggi, sgomberi… Sangue e
rivolta Tutto comincia a
Lampedusa. L’isola che Maroni intende trasformare in un carcere per immigrati in
attesa di deportazione. Lampedusa è la prima
frontiera dell’Europa dei muri. Chi ci arriva ha passato e visto tutto: porta
incisi nel corpo e nella testa il deserto, la violenza dei guardiani ai confini,
che picchiano, stuprano, derubano. Poi viene il tempo dell’attesa davanti al
mare. Già il mare. Il 30 marzo
se ne è mangiati Maroni sta trattando con
la Libia le condizioni per un blocco navale. Nel ’97, quando il governo schierò
le navi di fronte alle coste albanesi per fermare i profughi in fuga dalla
guerra civile, la corvetta della marina militare italiana Sibilla speronò la
Kater I Rades, che andò a fondo con il suo carico umano. Morirono in 106. Una
strage. Una strage di Stato. Torniamo a Lampedusa,
porta dell’Europa tutta belle case, tutti sempre felici e ricchi, tutti col
ferrari. Invece no. Tutto chiuso,
solo Lampedusa, una galera su uno scoglio. Il 18 febbraio, tra gli immigrati
stipati nel CIE, scoppia la rivolta e un intero padiglione va a fuoco. Le
immagini di quel fuoco sono rimbalzate nelle prigioni per migranti ed hanno
covato sotto la cenere. A fine febbraio il
governo ha deciso per decreto di prolungare da due a sei mesi la detenzione nei
CIE. Da allora è partita una
disperata resistenza. A marzo nei CIE di
Torino, Milano, Roma, Bari, Gradisca, Bologna, Trapani ci sono stati scioperi
della fame, materassi bruciati, proteste sui tetti,
fughe. A Bari per giorni quasi
tutti hanno rifiutato il cibo: in tre si sono cuciti la bocca. Si, proprio così:
con ago e filo a legare le labbra. A Trapani c’è stato un
principio di rivolta quando un prigioniero si è tagliato con una lametta. Quelli
che protestano o li deportano subito o li trasferiscono. Così le notizie
rimbalzano, i contatti crescono, il filo rosso delle lotte si intreccia in ogni
angolo della penisola. A Torino un ragazzo che
aveva aspettato buono buono i “suoi” sessantagiorni, quando sono passati senza
che lo liberassero, ha cominciato da solo uno sciopero della
fame. Sempre a Torino il 21
marzo due tunisini si sono tagliati le braccia, sporcando di sangue il cortile.
Era il “loro” giorno: fuori c’erano le camionette che li avrebbero portati via.
Il video di quel sangue – fatto uscire di nascosto dalla prigione - è stato
cancellato da youtube perché certe brutture non si devono vedere. Robe
dell’altro mondo, il mondo separato dei “clandestini”, uomini e donne dichiarati
illegali, rinchiusi in attesa di deportazione. Per loro soprusi, pestaggi, cure
negate, sedativi nel cibo sono pane quotidiano. E, a volte, ci scappa anche il
morto. A Torino, il 23 maggio scorso, la polmonite si è mangiata la vita di un
immigrato, lasciato senza assistenza. A Roma un algerino stava male: è stato
curato a manganellate ed è morto nella sua cella il 19 marzo. In entrambi i casi
era la Croce Rossa a gestire il CIE, dove, come dissero la scorsa primavera
alcuni immigrati rinchiusi in corso Brunelleschi, “Si sta come cani al canile.
Gridi e nessuno ascolta”. Ovunque, nelle gabbie per
uomini e donne, si levano urla. Urla nel silenzio. A volte capita la botta
di culo. A Torino a fine marzo, approfittando della distrazione dei guardiani,
in sette saltano il muro. Due ce la fanno: per gli altri la solita dose di calci
e pugni. Il 6 aprile ci riprovano in 20: quattro riescono a saltare il muro ma
vengono ripresi e pestati a sangue. Cinque sono arrestati per resistenza e
condotti in carcere. Solo la sera precedente
nel CIE di via Corelli a Milano una rivolta coinvolge tutti i reclusi, che
salgono sul tetto. La polizia li tira giù a bastonate poi entra nelle camerate e
picchia ancora. Giù con i manganelli, i calci dei fucili e gli sparalacrimogeni.
Un recluso chiama la radio a Torino: le urla degli immigrati massacrati vengono
trasmesse in diretta. Da qualche tempo c’è chi
prova a mettersi in contatto, facendo girare numeri di telefono nei CIE: molti
chiamano, raccontano le loro storie, chiedono una
mano. C’è uno che ha lavorato
in provincia di Padova per dieci anni sempre nella stessa ditta: testa bassa e
niente storie. Poi un giorno balordo, di quelli che capitano a tutti prima o
dopo, beve un po’ troppo e fa una cazzata. Perde il lavoro, non ne trova un
altro e così gli scadono i documenti. Chiuso nel CIE si chiede cosa farà in un
paese di cui quasi non ricorda la lingua, che non sente più suo. A Milano ogni
tanto la polizia fa il giro dei cantieri e delle officine e preleva il suo
carico umano direttamente sul posto di lavoro. Il giorno dopo, i fortunati,
quelli scampati alla retata, piegheranno ancor più la schiena. La propaganda
racconta che nei CIE finiscono i delinquenti, ma la realtà è diversa, molto
diversa. Tira aria grama non solo
nei CIE. Un ragazzino afgano,
quattordici anni di guerra e miseria, entra in Italia sotto un camion: resta
aggrappato per 13 ore. Poi cade. In Afganistan l’esercito italiano è lì a fare
la guerra. No, scusate. Fanno peace keeping. Gli italiani sono lì per insegnare
le tecniche ai poliziotti e la giustizia ai giudici. Roba che nemmeno Totò se la
sarebbe sceneggiata. Non avrebbe avuto il coraggio di far ridere di fronte alle
donne afgane chiuse in casa e stuprate per legge. Anche quella del piccolo
afgano è una vicenda di tutti i giorni: basta scorrere le cronache per trovarne
traccia, ma le storie che nessuno le racconta sono certo di
più. Questo primo scorcio di
primavera ci regala un altro anticipo del pacchetto sicurezza. Una ragazza
nigeriana malata di tubercolosi, prostituta e clandestina, sta male, sta sempre
peggio ma non va in ospedale, perché teme che da lì al CIE la strada sia
diretta. Muore in mezzo ad una strada, così come era vissuta, merce a poco
prezzo. Usa, getta e comprane un’altra. Kante, profuga della
Costa d’Avorio, va in ospedale per partorire il suo bambino. Da lì parte un fax
per la questura per segnalare la “clandestina”. Arrivano i carabinieri e la
portano via, mentre il bambino resta sequestrato in ospedale. Poi le carte
raccontano la loro storia e l’ospedale rilascia il piccolo. È finita con un po’
di paura e tanta rabbia ma poteva andare peggio. Molto peggio. Tra poco, per
legge, quelle come Kante dovranno scegliere tra un parto clandestino e il
rischio di perdere il figlio. Forse l’Afganistan non è così
lontano. A Milano la pioggia
diresti che è una benedizione insperata: ti lava l’aria e l’asfalto è lucido
come per una festa. Non sotto il ponte Bacula, però. Lì, tra le baracche dei
rom, il fango si impasta con i rifiuti di una vita precaria, vita da baraccati,
tra topi, razzisti e sbirri. Il 31 marzo la pioggia è impietosa. La polizia
arriva in forze: fuori tutti, via da qua, non importa dove, non importa che ci
sono bambini piccoli, non importa che siamo in un posto da bestie. Le baracche
vengono abbattute, la gente rovista per recuperare qualcosa, poi si disperde nel
ventre della metropoli. Restano in venti, fradici e senza un dove. Si prendono
una casa fatiscente per passare la notte: la polizia entra, picchia e ributta
tutti in strada. Due bambini hanno meno di un anno. Fuori l’asfalto bagnato
riflette e moltiplica le luci. Ma non è una festa. Viviamo tempi grami, tempi
feroci e folli, tempi di guerra. La guerra contro i poveri e gli immigrati, la
guerra contro chiunque si opponga alla barbarie. Piovono pietre e nessuno
può stare al riparo in attesa di tempi migliori: mettersi in mezzo è un’urgenza
ineludibile. Se non ora, quando? Se non
io, chi per me? Federazione Anarchica
Torinese – FAI Corso Palermo
46 La sede è aperta ogni
giovedì dopo le 21 338
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