Rivolte e fughe nei CIE. Torino: punto info solidale il 7 aprile



Rivolte e fughe nei CIE. Torino: punto info solidale il 7 aprile

 

Martedì 7 aprile,

punto info solidale

in via Po 18 (in caso di pioggia sotto i portici)

Appuntamento dalle 18.

 

L’ultima notizia è di oggi. Dal CIE di corso Brunelleschi a Torino hanno provato a fuggire in 20: in quattro hanno conquistato la libertà ma sono stati subito ripresi. Per tutti una buona dose di botte: qualcuno è finito all’ospedale, cinque sono stati arrestati per resistenza.

La sera precedente al CIE di via Corelli a Milano è scoppiata la rivolta. I prigionieri sono saliti tutti sul tetto: la polizia li ha tirati giù a forza, poi è entrata nelle camerate in assetto antisommossa ed ha pestato. Giù con manganelli, calci di fucile, sparalacrimogeni.

Le urla dei pestati sono state trasmesse in diretta da radio Blackout. Trovate l’audio qui:

http://piemonte.indymedia.org/article/4619

 

Questi sono solo gli ultimi episodi di un lungo mese di guerra.

 

Di seguito il testo del volantino che stiamo distribuendo in questi giorni.

 

Stragi, rivolte, fughe, pestaggi, sgomberi…

Sangue e rivolta

 

Tutto comincia a Lampedusa. L’isola che Maroni intende trasformare in un carcere per immigrati in attesa di deportazione.

Lampedusa è la prima frontiera dell’Europa dei muri. Chi ci arriva ha passato e visto tutto: porta incisi nel corpo e nella testa il deserto, la violenza dei guardiani ai confini, che picchiano, stuprano, derubano. Poi viene il tempo dell’attesa davanti al mare.

Già il mare. Il 30 marzo se ne è mangiati 500 in una sola notte.

Maroni sta trattando con la Libia le condizioni per un blocco navale. Nel ’97, quando il governo schierò le navi di fronte alle coste albanesi per fermare i profughi in fuga dalla guerra civile, la corvetta della marina militare italiana Sibilla speronò la Kater I Rades, che andò a fondo con il suo carico umano. Morirono in 106. Una strage. Una strage di Stato.

 

Torniamo a Lampedusa, porta dell’Europa tutta belle case, tutti sempre felici e ricchi, tutti col ferrari.

Invece no. Tutto chiuso, solo Lampedusa, una galera su uno scoglio. Il 18 febbraio, tra gli immigrati stipati nel CIE, scoppia la rivolta e un intero padiglione va a fuoco. Le immagini di quel fuoco sono rimbalzate nelle prigioni per migranti ed hanno covato sotto la cenere.

 

A fine febbraio il governo ha deciso per decreto di prolungare da due a sei mesi la detenzione nei CIE.

Da allora è partita una disperata resistenza.

A marzo nei CIE di Torino, Milano, Roma, Bari, Gradisca, Bologna, Trapani ci sono stati scioperi della fame, materassi bruciati, proteste sui tetti, fughe.

A Bari per giorni quasi tutti hanno rifiutato il cibo: in tre si sono cuciti la bocca. Si, proprio così: con ago e filo a legare le labbra.

A Trapani c’è stato un principio di rivolta quando un prigioniero si è tagliato con una lametta. Quelli che protestano o li deportano subito o li trasferiscono. Così le notizie rimbalzano, i contatti crescono, il filo rosso delle lotte si intreccia in ogni angolo della penisola.

A Torino un ragazzo che aveva aspettato buono buono i “suoi” sessantagiorni, quando sono passati senza che lo liberassero, ha cominciato da solo uno sciopero della fame.

Sempre a Torino il 21 marzo due tunisini si sono tagliati le braccia, sporcando di sangue il cortile. Era il “loro” giorno: fuori c’erano le camionette che li avrebbero portati via. Il video di quel sangue – fatto uscire di nascosto dalla prigione - è stato cancellato da youtube perché certe brutture non si devono vedere. Robe dell’altro mondo, il mondo separato dei “clandestini”, uomini e donne dichiarati illegali, rinchiusi in attesa di deportazione. Per loro soprusi, pestaggi, cure negate, sedativi nel cibo sono pane quotidiano. E, a volte, ci scappa anche il morto. A Torino, il 23 maggio scorso, la polmonite si è mangiata la vita di un immigrato, lasciato senza assistenza. A Roma un algerino stava male: è stato curato a manganellate ed è morto nella sua cella il 19 marzo. In entrambi i casi era la Croce Rossa a gestire il CIE, dove, come dissero la scorsa primavera alcuni immigrati rinchiusi in corso Brunelleschi, “Si sta come cani al canile. Gridi e nessuno ascolta”.

Ovunque, nelle gabbie per uomini e donne, si levano urla. Urla nel silenzio.

 

A volte capita la botta di culo. A Torino a fine marzo, approfittando della distrazione dei guardiani, in sette saltano il muro. Due ce la fanno: per gli altri la solita dose di calci e pugni. Il 6 aprile ci riprovano in 20: quattro riescono a saltare il muro ma vengono ripresi e pestati a sangue. Cinque sono arrestati per resistenza e condotti in carcere.

Solo la sera precedente nel CIE di via Corelli a Milano una rivolta coinvolge tutti i reclusi, che salgono sul tetto. La polizia li tira giù a bastonate poi entra nelle camerate e picchia ancora. Giù con i manganelli, i calci dei fucili e gli sparalacrimogeni. Un recluso chiama la radio a Torino: le urla degli immigrati massacrati vengono trasmesse in diretta.

 

Da qualche tempo c’è chi prova a mettersi in contatto, facendo girare numeri di telefono nei CIE: molti chiamano, raccontano le loro storie, chiedono una mano.

C’è uno che ha lavorato in provincia di Padova per dieci anni sempre nella stessa ditta: testa bassa e niente storie. Poi un giorno balordo, di quelli che capitano a tutti prima o dopo, beve un po’ troppo e fa una cazzata. Perde il lavoro, non ne trova un altro e così gli scadono i documenti. Chiuso nel CIE si chiede cosa farà in un paese di cui quasi non ricorda la lingua, che non sente più suo. A Milano ogni tanto la polizia fa il giro dei cantieri e delle officine e preleva il suo carico umano direttamente sul posto di lavoro. Il giorno dopo, i fortunati, quelli scampati alla retata, piegheranno ancor più la schiena. La propaganda racconta che nei CIE finiscono i delinquenti, ma la realtà è diversa, molto diversa.

 

Tira aria grama non solo nei CIE.

Un ragazzino afgano, quattordici anni di guerra e miseria, entra in Italia sotto un camion: resta aggrappato per 13 ore. Poi cade. In Afganistan l’esercito italiano è lì a fare la guerra. No, scusate. Fanno peace keeping. Gli italiani sono lì per insegnare le tecniche ai poliziotti e la giustizia ai giudici. Roba che nemmeno Totò se la sarebbe sceneggiata. Non avrebbe avuto il coraggio di far ridere di fronte alle donne afgane chiuse in casa e stuprate per legge.

Anche quella del piccolo afgano è una vicenda di tutti i giorni: basta scorrere le cronache per trovarne traccia, ma le storie che nessuno le racconta sono certo di più.

 

Questo primo scorcio di primavera ci regala un altro anticipo del pacchetto sicurezza. Una ragazza nigeriana malata di tubercolosi, prostituta e clandestina, sta male, sta sempre peggio ma non va in ospedale, perché teme che da lì al CIE la strada sia diretta. Muore in mezzo ad una strada, così come era vissuta, merce a poco prezzo. Usa, getta e comprane un’altra.

Kante, profuga della Costa d’Avorio, va in ospedale per partorire il suo bambino. Da lì parte un fax per la questura per segnalare la “clandestina”. Arrivano i carabinieri e la portano via, mentre il bambino resta sequestrato in ospedale. Poi le carte raccontano la loro storia e l’ospedale rilascia il piccolo. È finita con un po’ di paura e tanta rabbia ma poteva andare peggio. Molto peggio. Tra poco, per legge, quelle come Kante dovranno scegliere tra un parto clandestino e il rischio di perdere il figlio. Forse l’Afganistan non è così lontano.

 

A Milano la pioggia diresti che è una benedizione insperata: ti lava l’aria e l’asfalto è lucido come per una festa. Non sotto il ponte Bacula, però. Lì, tra le baracche dei rom, il fango si impasta con i rifiuti di una vita precaria, vita da baraccati, tra topi, razzisti e sbirri. Il 31 marzo la pioggia è impietosa. La polizia arriva in forze: fuori tutti, via da qua, non importa dove, non importa che ci sono bambini piccoli, non importa che siamo in un posto da bestie. Le baracche vengono abbattute, la gente rovista per recuperare qualcosa, poi si disperde nel ventre della metropoli. Restano in venti, fradici e senza un dove. Si prendono una casa fatiscente per passare la notte: la polizia entra, picchia e ributta tutti in strada. Due bambini hanno meno di un anno. Fuori l’asfalto bagnato riflette e moltiplica le luci. Ma non è una festa.

 

Viviamo tempi grami, tempi feroci e folli, tempi di guerra. La guerra contro i poveri e gli immigrati, la guerra contro chiunque si opponga alla barbarie.

Piovono pietre e nessuno può stare al riparo in attesa di tempi migliori: mettersi in mezzo è un’urgenza ineludibile.

 

Se non ora, quando? Se non io, chi per me?

 

Federazione Anarchica Torinese – FAI

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