Un milione di morti



Un milione di morti a est grazie alle riforme-shock

Un milione di morti. Questo potrebbe essere il terribile bilancio reale delle privatizzazioni accelerate imposte ad alcuni paesi dell'ex Unione sovietica negli anni '90, secondo uno studio dell'università di Oxford pubblicato ieri dalla più autorevole rivista medica internazionale, Lancet. La mostruosa cifra, una delle più alte che si possano direttamente associare a un deliberato atto politico, è la traduzione di quel 12,8 per cento di aumento della mortalità che gli analisti di Oxford hanno riscontrato nella dinamica demografica del decennio scorso nei paesi presi in esame: un aumento (quasi interamente fra i maschi in età lavorativa) che lo studio mostra essere strettamente legato, nel tempo e nello spazio, al parallelo aumento della disoccupazione provocato dall'applicazione forsennata delle politiche neoliberiste - e in particolare i programmi di privatizzazione di massa - dopo il crollo dei regimi «socialisti».Nell'insieme dei paesi dell'Europa orientale e dell'ex Urss, fra il 1991 e il 1994 le privatizzazioni portarono a un aumento del 56 per cento nel numero dei disoccupati (e a quel 12,8 per cento di crescita della mortalità citato prima); ma all'interno del quadro complessivo cinque paesi conobbero in quegli anni uno shock particolarmente violento. Russia, Kazakhstan, Lituania, Lettonia ed Estonia ebbero aumenti di disoccupazione fino al 300 per cento, mentre nel resto della macroregione il contraccolpo delle privatizzazioni fu minore, per le diverse condizioni sociali e culturali presenti. Il rapporto fra privatizzazioni accelerate e disoccupazione non ha bisogno di troppe spiegazioni: l'arrivo di privati - e con essi di una logica di profitto - alla guida di aziende in cui l'efficienza produttiva era da decenni subordinata all'utilità sociale, ha provocato quasi sempre il licenziamento di moltissimi lavoratori, in un contesto economico di crisi molto grave in cui trovare un nuovo impiego (soprattutto per persone non giovanissime) era praticamente impossibile. E il lavoro «a vita» in aziende di stato era in quei paesi, fino al '91-'92, una condizione esistenziale globale: con il lavoro si aveva la casa, l'assistenza sanitaria, le vacanze, un'immagine sociale: perdendo il lavoro, si perdeva tutto in un colpo. E in paesi dove il fumo, l'alcol e stili di vita imprudenti erano già pericolosamente diffusi tra la popolazione maschile, lo shock psicologico di questa perdita ha portato a un vero e proprio crollo fisico. Si aggiungano altri due effetti diretti (e contemporanei) delle politiche neoliberiste come il collasso delle strutture sanitarie gratuite e il vertiginoso aumento del prezzo dei farmaci, e gli ingredienti per l'avvio di quella che a tutti gli effetti è stata una strage di massa diventano chiari. Meglio è andata, sottolinea lo studio dei professori David Stuckler e Lawrence King, in paesi magari più arretrati ma con una migliore rete di sostegno famigliare, come in Albania, o dove c'erano organizzazioni di difesa sociale più efficienti, come in Polonia o nella Repubblica Cèca, o ancora in alcune repubbliche asiatiche dove le privatizzazioni sono state introdotte in modo molto più graduale. Lì l'aumento di disoccupazione è stato molto minore, e non ci sono state variazioni nella mortalità - anzi in qualche caso questa è addirittura diminuita. Il che induce, secondo gli autori dello studio, a trarre delle importanti lezioni sul modo in cui i cambiamenti economici e sociali possono essere introdotti nei paesi dove questi sono ancora in corso, come in Cina, in India o altrove: le «terapie di shock» costano care in termini di vite umane.Ma di quel milione di morti qualcuno dovrebbe ben portare la responsabilità: la scelta - in Russia, dove si è concentrato il disastro peggiore - di applicare in modo brutale, senza preparazione, senza esperimenti-pilota, senza nessun tipo di paracadute sociale possibile, le privatizzazioni dell'intero sistema produttivo è una scelta che non è venuta dal cielo come la pioggia. Ci sono uomini in carne ed ossa che questo hanno voluto e imposto: l'allora presidente Boris Eltsin, ovviamente, ma ancor più di lui che forse non era in grado di capire quel che stava succedendo sono stati gli «economisti» affascinati dal neoliberismo come Egor Gaidar o Anatoly Chubais (che tuttora ha una posizione di altissima responsabilità) a volerlo e a imporlo ad ogni costo, per non parlare della schiera di «consiglieri» occidentali come Jeffrey Sachs o Anders Aslund, tuttora prodighi di consigli rivolti ai governanti russi (o di critiche per il fatto di non applicare politiche abbastanza «di mercato»). E, naturalmente, non poca responsabilità dovrebbero prendersi i leader che allora tennero sotto l'ala Eltsin, a patto che non si fermasse «sulla strada delle riforme»: il democratico Bill Clinton prima di tutti.


Astrit Dakli
Il Manifesto del 16/01/2009